Biografie non autorizzate: Per una geografia dell’anima Lineamenti di antropologia delle rovine
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Per forza un posto del genere secerne esseri bizzarri. E infatti il borgo produsse e nutrì (abbastanza male in genere) gente che, come il mare e il serpentino, come le acciughe o le foglie degli ulivi, emanava dalla propria barbarie bagliori che oggi possiamo interpretare come lampi di un genio salmastro e d’una scontrosissima poesia.
Di loro e delle loro bizzarrie qui si narra; ma anche delle pietre che calcarono ed eressero. Dapprima meravigliosamente; da un certo momento in poi disastrosamente.
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Book preview
Biografie non autorizzate - Vincenzo Gueglio
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2017 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
Marchio editoriale Gammarò edizioni
ISBN 9788896647677
Titolo originale dell’opera:
Biografie non autorizzate
Per una geografia dell’anima
Lineamenti di antropologia delle rovine
di Vincenzo Gueglio
Collana * L'orologio di Mnemosine *
SCARICA L'ARCHIVIO FOTOGRAFICO
In copertina:
Joseph Mallord William Turner, View of Sestri di Levante, Genoa (1794-1795), matita e acquerello, cm.12,70 x 22,86 (collezione privata).
Dobbiamo alle ricerche di Paris Lena Merica e alla sua cortesia il ritrovamento e la segnalazione di questa insolita e stupenda veduta di Sestri Levante: il grande Turner ricostruì a memoria, evidentemente, le impressioni che gli rimasero nell’animo (la luce soprattutto) alla vista del borgo spencolato nel mare. Ci è parso che le nostre biografie non autorizzate
non potessero fare a meno di questa riproduzione fantastica.
Sommario
Chiamatelo Ohi
E va bene, però…
Lavorare stanca. ed esaspera, anche...
1. Orcomeno, il principe
2. Dercino e la fabbrica
3. La Bazzana. Racconto di Natale
4. Polifete, straccivendolo
5. Taltibio, spazzino
6. Talemede il tassista e la scuola del figlio
7. Capaneo, il tranviere
8. Pelagonte, il cacciatore di frisone
9. Veglia per la morte di Mecistéo
10. Peone il medico e Trasone il farmacista
11. Il postino della Frisaia
Levante
1. L’uva. E altri bocconcini
2. Ifidamante e la moglie dell’ambasciatore
3. Il dramma di Agastene
4. Agastene e la macchina da scrivere
5. Gilgamesh
Luoghi di transizione. il bottone, ad esempio
1. Urbanistica al tritolo. La torre dei doganieri
2. Nireo e il barcobestia del padre
Tra levante e ponente. la torre e il vicolo
1. Stanotte vanno tutti al Miramare
2. Il soave Guardiluna e il perfido Peone
3. Guardiluna va a Mileto
Ponente
1. Icelos e la missione impossibile
2. La sfortuna di Icelos. Un esempio
3. Icelos. Quando la sfortuna esagera
4. Incompatibilità
Alla foce del fatal Ravino
1. Virbio al Poseidon
2. La Grotta azzurra
3. Antenore. la forza del pensiero
4. La forza del pensiero 2: l’acqua e la menta
5. Antenore proclama la sua filosofia
Piazza Daulide. verso il nulla e peggio
1. Il manichino e il contadino
2. Il figlio e la macchina
3. Il bar Aracne e il cappuccino di Pisandro
4. Il bar Colchide e la coppa inesistente
5. Macaone e i problemi dell’amoreggiare per posta
6. Polifete. Finale tragico
CHIAMATELO OHI
Per secoli il borgo aveva vissuto la propria vita incantata scansando tutti gli orologi; per quanti calendari si sfogliassero, qui non ne giungeva vento. Proteso al mare come una barca all’ormeggio, il paese sapeva del tempo ciò che ne sanno gli scogli percossi dall’onda, i campi tormentati dal sole e dalla pioggia, le lattughe e le sardine, i corpi che nascono invecchiano e muoiono.
Un giorno però, non si sa come, cadde anche qui, come una bomba, il tempo; e nel tempo gente nuova, che fece nuovo il paese. Non era mica la prima volta, si capisce; il mondo è vecchio e la gente gli scorre sopra come l’acqua sul vetro; lasciando tracce esilissime o non lasciandone affatto, in genere; altre volte graffiando o addirittura rompendo il vetro. E allora bisogna cambiarlo.
È già accaduto: giorno dopo giorno gli uomini e le cose cambiano tanto che finiscono per non riconoscersi più: gli uomini nuovi non capiscono più la lingua e il senso delle vecchie pietre; queste, sconfortate, ammutoliscono.
Allora, non si sa come, agli uomini nasce in cuore il bisogno di azzerare la memoria e ricominciare daccapo la storia della propria anima: così cambiano nome ai sassi, alla terra e anche all’acqua.
Adesso siamo forse prossimi a uno di quei momenti lì: le vecchie pietre e gli uomini nuovi si sputano addosso a vicenda; è evidente; eppure solo Polidamante, a quanto pare, sente stridere sul grande vetro della propria anima la contraddizione fra il vecchio nome e la cosa nuova, e rimugina sdegnoso. Con un ampio gesto taglia lo spazio attorno a sé e vi semina disgusto. Tutto è perfettamente chiaro per lui, nondimeno, poiché sa quanto può essere stupido un uomo, Polidamante magnanimo spiega: – Chiamare Larissa questo paese qui è una provocazione. Scemi al mondo ce n’è sempre stati e ce n’è, ma trovare uno che creda sul serio che questo mucchio di rumenta sia Larissa, sarà difficile. A Larissa ci hanno vissuto mio nonno e mio padre, e il nonno di mio padre e di mio nonno, e i loro vecchi. Oggi, se mai gli cadesse in cuore la voglia di venire a trovarmi, si perderebbero per via; e quando alla fine riuscissero a orizzontarsi, perché i morti alla fine, con tutto il tempo che hanno, riescono sempre a fare quello che vogliono, penserebbero d’essere finiti in qualche posto in fondo al Majon e se provassi a dirgli che questa roba qui è Larissa mi sputerebbero sui piedi.
A chi gli domanda, per stuzzicarlo, come vorrebbe chiamare il nuovo paese risponde sicuro: – L’ho già detto anche al scindaco: "Chiamatelo Ohi, è l’unica".
Ma il scindaco non gli dà retta: secondo i marchettari Larissa è un marchio che tira. E allora bisogna lasciare che tiri.
– Al piccione – propone Timete, che non si lascerà sfuggire l’occasione di una battuta neanche al cospetto di Ade, quando, fra mille anni, porterà un po’ della sua pericolosa allegria fra i Titani, oltre la soglia di bronzo e le porte di ferro del Tartaro. – Va be’ – Polidamante rovescia gli occhi e allarga le braccia: – Fate un po’ come volete. Però… – e col gesto di chi scaccia una mosca volta le spalle altere e se ne va.
Il silenzio di Polidamante è il castigo che il mondo merita. Ma noi non siamo mondo e il silenzio di Polidamante ci ferisce. Per fortuna possediamo la chiave della sua anima selvatica; e sappiamo ritrovare, in quella immensità eternamente rimbombante, il filo del pensiero tortuoso e, distinguendolo dall’ispido gli uommero delle perplessità, decifrarlo: Però… se per viltà di bestie e per l’avarizia di non dover buttar via i depliantes che avete fatto stampare per i turisti, vi fa comodo continuare a chiamare il paese con il vecchio nome, cercate almeno di ascoltare le pietre; che parlano; piano magari, ma parlano; e chissà che non vi spieghino come avete fatto a diventare gente di plastica, rumenta
.
Molti alzano le spalle e inalberano facce di compatimento, ma a me sembra che Polidamante abbia ragione e che veramente Ohi sarebbe un bellissimo nome per il paese nuovo. In attesa che venga adottato e scritto su tutte le carte, colgo l’invito di Polidamante e provo, prendendo lui stesso per guida e il celebre Chirone (che molti chiamano Professù o anche Maccimà), a tracciare una mappa dell’anima di Larissa, quella che conobbero il nonno e il padre di Polidamante; e lui stesso, nella sua selvaggia gioventù.
Che si possa fare la geografia di un’anima (o, come altrimenti diciamo, sbozzare i grundrisse di una scienza da chiamare antropologia delle rovine
) è idea che probabilmente può abbattersi solo in una mente tortuosa. Il fallimento è sicuro, ma che importa? I naufragi hanno una loro allegria ed è avventura solo il viaggio del quale non si conosca, salpando, l’approdo.
Le carte che portiamo con noi sono tutte bianche: appunto per disegnarle partiamo. Ci guida la forma del paese: che piantato nel mare come un ago di bussola spartisce subito il mondo fra levante e ponente, costa ed entroterra. Il nord e il sud li traccerà la ferrovia; e la strada che non mancherà di affiancarla. È questa l’ossatura di Larissa, la trama e l’ordito dei nostri passi.
E va bene, però…
A volte le vecchie pietre si cancellano anche più facilmente del nome sulle carte, a volte no. Dell’antico borgo permangono nel nuovo paese alcune patetiche rovine: che trascinano la malinconica vita dei fantasmi; e parlano; con voce sempre più flebile, ma parlano. A molti il loro mormorio è fastidioso come quello di un prete. Noi tendiamo l’orecchio, ansiosi di capire.
Se sia stata l’isola a mollare gli ormeggi per correre ad arenarsi sulla spiaggia vicina, o se tutto il continente si sia mosso per acciuffarla, non si sa; quello che è certo è che l’incontro ci fu e che pertanto oggi l’isola è da considerarsi, geograficamente parlando, un promontorio come tanti. Ma non c’è larissiano che creda alla geografia; e benché l’antica isola non sia ormai niente più che una minuscola appendice del paesone che nel frattempo s’è slargato su tutta la piana sino a risalire le ruvide pendici dei monti, i larissiani continuano a considerarla, ostinati, il proprio centro; e non solo ancòra e sempre un’isola, ma l’Isola: eterna: l’Isola in sé.
Per un capriccio della natura dunque, o forse per la conoscenza, da parte dei suoi abitanti, di una verità solo ad essi nota, Larissa ha il proprio centro sospeso e spencolato un poco oltre il confine: come un unico frutto pendente oltre il muro dell’orto, affacciato sul più misterioso e inafferrabile altrove, il mare.
Per forza un posto del genere secerne esseri bizzarri, abitati e mossi da fantasie e logiche speciali. E infatti Larissa produsse e nutrì (abbastanza male in genere) gente che, come il mare e il serpentino, come le acciughe o le foglie degli ulivi, emanava dalla propria barbarie bagliori che oggi possiamo interpretare come lampi di un genio salmastro e d’una scontrosissima poesia. Di loro e delle loro bizzarrie ci accingiamo a cantare; ma anche delle pietre che calcarono ed eressero. Dapprima meravigliosamente; da un certo momento in poi disastrosamente. Del disastro è lecito e persino doveroso rammaricarsi; ma inutile stupirne: tutte le civiltà decadono e muoiono: gli egizi a un tratto scordarono l’arte di costruire piramidi, i romani non seppero più amministrare, nonché il mondo, la propria città. Larissa, che ornò la terra e gli uomini, oggi patisce affronti insoffribili. E, ahinoi, li soffre.
Si parla di Larissa, qui; con una certa precisione e non senza allegria; ma sarà presto evidente al lettore che il borgo del quale raccontiamo non esiste; o, se esiste, è talmente disperso nel tempo e nello spazio da risultare praticamente inafferrabile: come, poniamo, l’aria: che da parecchi millenni va bighellonando su e giù per la terra e cuce insieme deserti, mari, montagne e prati fioriti e mentre va e viene è di volta in volta dura, fragrante o terribile; sicché gli uomini la conoscono coi volti e i nomi di molti dèi e dèe.
Non meno sfuggente sarà, chi voglia provare ad agguantarla e fissarla in un’immagine, la nostra stessa identità: un qualunque adolescente, infatti, somiglierà sempre molto più a un altro adolescente qualsiasi che al vecchio nel quale pure un giorno sarà costretto a riconoscere se stesso.
Forse qualcuno, individuando in foto che presentiamo come larissiane località a lui note con altri nomi, reagirà perplesso o infastidito; e vorrà rimproverarci per questo. Se ha ragione, il nostro torto è senza rimedio: perché questa confusione l’abbiamo cercata, e lo spaesamento che può derivarne è il cuore della festa.
Ci sono stati momenti nei quali abbiamo creduto di poter tracciare qualcosa di simile a un modello; della nostra presunzione sorridiamo volentieri col lettore; vorremmo però conservare la speranza che rimescolare confini e ingarbugliare identità possa servire a scoprire quello che le mappe di Google earth non possono vedere: una geografia interiore.
Nella nostra Larissa va in scena la convinzione che, al di là dei dettagli, quello che abbiamo visto accadere qui, accade, è accaduto o forse accadrà, più o meno simile, in un altro luogo in un altro tempo: se così non fosse, pensiamo, non potremmo leggere né l’Iliade né Gilgamesh né Popol Vuh; e nemmeno Guerra e pace; li leggiamo invece perché, anche se a qualcuno piace credere il contrario, gli uomini sono gli stessi sotto ogni cielo.¹
Alcune domande circolano (spero inavvertite) fra le pagine di questo libro; e dovrebbero porsi al lettore a volume chiuso.
Dico ad esempio. Qual è la differenza fra civiltà e barbarie e come si riconosce e dove passa il confine fra l’una e l’altra nelle comunità ove viviamo, e dove in noi. Di quanta patria abbiamo bisogno, e di che qualità. Che cos’è l’identità e, ammesso che esista e sia possibile conoscerla, se sia concepibile una migliore di un’altra (peggiore magari sì?) E se infine è vero che anche con un altro nome profumerebbe allo stesso modo la rosa.
Posso umanamente sperare che questo libro getti anche l’ombra di una risposta sulle domande che pone; ma non desidero accertarmene. Certo non vorrei venisse forzata in un enunciato logico: che non ammette. La sua verità, se c’è, è nel complesso del racconto, e nell’effetto che esso può avere sul lettore. Quello che mi auguro è che nel cuore del lettore rimanga un vago sorriso; approfondito magari, chissà, da un velo di tristezza.
vg
Larissa, febbraio 2017
NOTE
1 Pensava qualcosa di simile anche Giacomino, se non sbaglio: … quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno…; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare…
. G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Poesie e prose, a cura di M.A. Rigoni e R. Damiani, vol. II, pp. 359-360, Milano, Mondadori, 1988. Animisti nell’infanzia, gl’individui come le loro società, giungono col progredire dell’età al disincanto e infine al nichilismo. Le diverse civiltà, nate dalla barbarie, prima di tornare alla barbarie corrono sulla faccia del mondo come tedofori ciechi e appiccano il fuoco qua è là, a caso. Per questo la nostra Larissa è proprio così: dove e come e quando è necessario che sia: sparpagliata nel tempo come nello spazio.
LAVORARE STANCA. ED ESASPERA, ANCHE...
A qualcuno risulterà difficile crederlo; eppure vi fu un tempo nel quale se aveste detto a un operaio (di cava o di fabbrica o, dio ne scampi, di miniera; o a un pescatore; o a uno che si spaccava la schiena nel tentativo di tirar fuori due fave da un poggio) che il lavoro rende liberi, come hanno insegnato e scritto i maestri del pensiero, dell’azione e dell’humor nero che hanno imperversato nel Novecento con particolare efferatezza, avreste dovuto aspettarvi un cazzotto. E ve lo sareste meritato.
Il lavoro nobilita era la promessa della campagna di marketing che da secoli un altro gruppo di creativi aveva posto in atto per lanciare il medesimo prodotto. Nessuno li prese mai sul serio. Scemi che fossero, i poveri avevano occhi per vedere e orecchie per intendere: