Tre Galline e una Volpe: Commedia medievale fantastica
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About this ebook
Irma, Clelia e Betta sono tre amiche in un villaggio pittoresco con personaggi buffi e grotteschi. A loro spesso si unisce Volpe, lo scemo del paese che si mette in situazioni a dir poco impossibili.
Le storie comiche degli abitanti si intrecciano con quelle delle protagoniste e diventano surreali e addirittura fantastiche.
Tra navi inesistenti, oggetti dai poteri mirabolanti, viaggi nel tempo, beghe tra mariti e mogli e l'inquisizione, che viene a far visita al villaggio, le strambe avventure delle tre "galline" si risolvono sempre nel modo più buffonesco possibile.
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Tag: amicizia tra donne, romanzo, rosa, in italiano, medioevo al femminile, fantasy umoristico, per ragazzi, magia, incantesimo, streghe, storie avventura, fantasy per adulti, medioevo fantastico, donna, vita, racconti fantasy fantastici, da ridere
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Tre Galline e una Volpe - Patrizia Rasetti
Fantasy umoristico
TRE GALLINE
E UNA VOLPE
IL MEDIOEVO FANTASTICO
DI PATRIZIA RASETTI
COPYRIGHT
TRE GALLINE E UNA VOLPE
Proprietà letteraria riservata Copyright ©2016 Patrizia Rasetti
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta e diffusa con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Prima edizione 2016 Progetto grafico Work On Color
Questo libro è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.
WEB: www.PennaTraLeNuvole.it
FACEBOOK: www.facebook.com/patrizia.rasetti
Sommario
Frontespizio
Copyright
Sommario
***
I - IL VILLAGGIO
II - LA SFERA DI CRISTALLO
III - TURBE D’AMORE
IV - LA COLLANA MAGICA
V - LA CAPPELLONA
VI - LO SCRIGNO MAGICO
VII - LA LIBURNIA
VIII - QUESTIONE DI CORNA
IX - LE MOGLI INVIPERITE
X - LA PIETRA LUCENTE
XI - IL FANTASMA
XII - ALLA RICERCA DEL MARITO PERDUTO
XIII - IL CARDINALE
***
Le storie di Patrizia Rasetti
I
IL VILLAGGIO
No. Il Piatto d’oro
non era una taverna qualunque. Si mangiava bene e si beveva meglio, ma il punto di ristoro di Ipsa offriva ben altro a chi ne varcava la soglia.
Vi si respirava un’aria familiare, amichevole e nello stesso tempo carica di tutte quelle chiacchiere, pettegolezzi e fantasie che rendevano la taverna il fulcro vitale della città.
A volte, quando i bicchieri di vino diventavano un po’ troppo numerosi sul tavolo dei clienti, si sentivano vecchie storie di anni ormai remoti, raccontate con enfasi e con quella certezza di chi credeva di averle vissute veramente.
Racconti che avevano come protagonisti fantasmi che popolavano le notti di qualche giovin pulzella, imprese fantastiche di antichi cavalieri o scontri feroci fra mariti traditi e amanti segreti. I discorsi più frequenti erano però quelli riguardanti una vecchissima nave ormeggiata in fondo all’ultimo molo del porto. Era un antico veliero, chiamato "Liburnia", su cui tutti avevano da dire qualcosa. Parlavano di nave fantasma, di leggende che la facevano apparire magica e inavvicinabile; nessuno aveva mai avuto il coraggio di salirvi a bordo. Ma ogni volta che qualcuno ne parlava, succedeva sempre qualcosa che faceva interrompere il racconto, come se un’antica maledizione impedisse di parlarne.
La taverna apriva i suoi battenti sulla piazza principale di Ipsa, un ridente villaggio poco distante dal mare, bagnato dalle acque del fiume Anor che rendeva fertili le terre di tutta la pianura fino alle pendici del monte Erras, alto baluardo a protezione dei venti sferzanti del Nord. A tutte queste qualità, si aggiungeva una buona dose di buonumore che emanava sempre la taverniera Irma. Era un donnone dai fianchi enormi, piena d’arguzia con due occhietti scuri e vispi come quelli di un furetto, permalosa e fumantina ma con un cuore d’oro. Era solita dire per irridere alla sua stazza: «Si fa prima a saltarmi che a girarmi intorno!»
Il suo modo di cucinare era apprezzato da tutti, tanto che anche il prete della città era solito andare alla taverna per mangiare i suoi famosi fagioli con salsiccia, ringraziando poi tutti i Santi del Paradiso.
Non si era mai capito se Irma fosse rimasta vedova o se il marito, tal Gandolfo Galleschi, fosse fuggito non sopportando più la sua lingua lunga.
Tutti i viandanti che arrivavano a Ipsa, rimanevano incantati dal clima dolce, dalla simpatia degli abitanti e perché no, anche dalla buona cucina. Molto spesso si fermavano più di quant’era necessario per una semplice sosta di ristoro e talvolta non andavano più via, dando inizio a una nuova vita.
Gli Ipsiani vivevano in pace e serenità anche se le voci di una prossimo conflitto con il Ducato confinante si facevano sempre più insistenti; ma nel 1300 o giù di lì, le battaglie fra Ducati o Principati limitrofi erano all’ordine del giorno.
Come tutti i piccoli agglomerati, Ipsa aveva il suo fulcro vitale nella piazza principale, abbellita da una grande fontana di marmo bianco. I ragazzini del villaggio erano soliti trascorrere le ore del pomeriggio seduti sul bordo della grande vasca piena d’acqua, con tanti pesciolini che nuotavano allietati dalle briciole di pane che venivano date loro. Spesso i ragazzi s’intrattenevano a giocare costruendo barchette con le foglie lunghe e resistenti delle canne di bambù ancora verdi, e poi le facevano gareggiare nell’acqua spinte dalle onde create con le mani.
Subito davanti alla piazza era stata eretta una bella chiesa di mattoni, opera di un grande architetto del Granducato che era voluto rimanere anonimo non per modestia, ma per non pagare le dovute tasse al signorotto della sua città di provenienza che pare fosse stata Zenferi. Gli abitanti di Ipsa si erano offerti di collaborare alla sua costruzione e così avevano fatto regalando ore di lavoro anno dopo anno, generazione dopo generazione per circa un intero secolo; adesso però la chiesa di Sant’Eustorgio si elevava imponente con il suo bel campanile a base ottagonale e una grande campana di bronzo a protezione di tutti gli Ipsiani. Don Silvano ne era il curato. Abitava nella piccola canonica adiacente alla chiesa stessa, aiutato dalla fedele perpetua Emma che si occupava delle pulizie, della cucina e (pare) anche di altre cose che rendevano più serena e piacevole la vita del parroco.
Ai lati della piazza si aprivano numerose botteghe, quali la sartoria, la macelleria, l’erboristeria, la falegnameria e la fucina del fabbro, il buon Duccio; costui era un omone grosso e alto quasi due metri, con una barba nera e fitta tanto da essere sempre piena di piccole scorie di ferro e di altri minerali che fondeva nella forgia per poi trasformarli in oggetti per la cucina o in affilatissime spade. Era rimasto vedovo da qualche mese e dopo il primo periodo di lutto, cercava una moglie per rassettargli casa e per preparagli da mangiare; da tempo aveva puntato gli occhi su di una giovane del posto ma che non ne voleva sapere di lui.
Subito dall’altro lato della piazza, c’erano le case con tanti piccoli appezzamenti di terra. Ognuno coltivava il suo orticello e allevava animali da fattoria per le proprie necessità; poi c’erano i grandi appezzamenti di terreno curati dai contadini per i raccolti di grano, orzo e granoturco che servivano per i fabbisogni di tutta la città e di quelle limitrofe.
Tra gli abitanti di Ipsa, c’erano Betta e Clelia; due ragazze grandi amiche di Irma che conducevano una vita serena accudendo ai propri impegni, in attesa forse di trovare l’uomo giusto che le avrebbe condotte all’altare.
Betta Colnaghi era la più giovane; bionda, molto carina, dolce e grande lavoratrice; coltivava a mezzadria un appezzamento di terreno ricavando una grande quantità di verdure di ottima qualità. Gran parte del raccolto lo vendeva all’amica Irma, la taverniera, che lo usava per la preparazione dei gustosi piatti che avevano reso celebre la sua taverna.
Sfruttava parte del terreno per la coltivazione delle erbe officinali, molto richieste e apprezzate dall’erborista della città. Era stimata da tutti per la sua dolcezza e serietà, ma quando faceva combriccola con le altre due, si trasformava diventando un’insospettabile investigatrice.
Clelia Malaspina, una ragazzona dai capelli rossi alta quasi due metri, aveva il viso punteggiato dalle lentiggini e illuminato da due occhioni verdi che trasparivano tutta la sua intelligenza e acume; si dedicava all’allevamento di animali da fattoria che accudiva amorevolmente in una stalla accanto alla sua casa, circondata da un grazioso recinto tinteggiato di rosa. La vendita di latte, uova e pollame, la rendevano autosufficiente e spesso riusciva anche a mettere da parte qualche soldino per comprarsi un buon libro da leggere o qualche vestitino elegante che amava indossare la domenica per andare alla Messa. Era l’unica fra le tre amiche, che aveva imparato a leggere e a scrivere grazie al nonno che vantava origini nobili; costui raccontava sempre a Clelia di essere caduto in disgrazia solo per la sua troppa bontà: pare avesse regalato le sue ricchezze ai propri contadini, rimanendo sul lastrico.
Grande amico delle tre donne era Volpe. Nessuno conosceva il suo vero nome, ma tutti lo chiamavano così sia per i suoi capelli rossi sia per l’intelletto non proprio acuto; era un ragazzotto sulla ventina, considerato lo scemo del villaggio. Lui ne approfittava calandosi perfettamente nella sua parte perché tutto era tranne che un povero cretino; viveva di elemosina, poca a dire la verità, in quanto in città la miseria e i pidocchi regnavano indisturbati. Mangiava gli avanzi che rimanevano nei piatti della taverna e dormiva sotto la coperta delle stelle nelle sere calde o sulla paglia delle stalle quando il tempo era inclemente. Amava così tanto i cavalli che era felicissimo di dividere il giaciglio con loro. Un sacco di iuta, con un buco per la testa e due per le braccia era il suo abito; se lo stringeva alla vita con una corda alla quale teneva appesa tutta la mercanzia che gli serviva per sopravvivere: un coltellaccio, un gancio, uno straccio unto e bisunto e una vecchia ciotola di legno. Balbettava e per questa ragione preferiva rimanere zitto per intere giornate, rispondendo a monosillabi a chi lo interrogava. Con Betta, Clelia e Irma si sentiva perfettamente a suo agio e si spingeva in lunghe chiacchierate che spesso esasperavano le tre donne.
A reggere le sorti di Ipsa c’era Ser Gianciotto, il signorotto del villaggio. Era discendente della nobile famiglia dei Della Gherardenga e abitava nell’unico grande palazzo subito dall’altra parte del fiume; persona amabilissima e disponibile con i sudditi, ma non era molto sveglio
tanto che tutti l’avevano soprannominato cervellotto
. Sedeva sullo scranno più alto della città da oltre 40 anni, da quando poco più di un fanciullo, gli Zenferesi uccisero suo padre Lanfranco in un’imboscata ordita dalla potentissima famiglia degli Ossiani, al cui capo c’era il figlio maggiore Cosimo. Da quel giorno il giovane Gianciotto fu nominato signore
di Ipsa anche se in realtà, era solo un modo subdolo dei signori di Zenferi per impossessarsi della piccola ma produttiva città, senza alcuno scontro cruento. Il porto era un presidio molto ambito, e Zenferi non avendo nessuno sbocco sul mare, pensò bene di prendere possesso di quello di Ipsa.
Al contrario dei suoi sudditi che non sopportavano il giogo imposto dagli Zenferesi, Gianciotto si era adagiato in questo suo ruolo posticcio di Signore
di Ipsa, sottomettendosi sempre ai voleri degli Ossiani e accettava qualsiasi loro decisione purché lo lasciassero in pace e non lo facessero andare troppo spesso a Zenferi. Era solo un fantoccio nelle mani degli Ossiani, ma a lui non gliene importava; bastava avere tutte le comodità, sudditi fedeli e una buona dose di monete d’oro nelle casse.
All’età di vent’anni gli fu imposto di sposare Isenia, burbera e autoritaria nobildonna di qualche anno più grande di lui, che lo rese ancor più sottomesso. Isenia lo rigirava come un calzino, spillandogli soldi a profusione ogniqualvolta si recava a Zenferi ad acquistare sete costosissime per i suoi abiti e preziosi gioielli che si faceva fare dai valenti orafi che aprivano le loro ricche botteghe sul Ponte Nuovo. Ebbero (per fortuna) una sola figlia cui fu imposto il nome di Cesira; fin dai primi giorni di vita la neonata non aveva nulla di carino e con l’andar dei mesi anche la mamma si rese conto che una bimba così brutta non s’era mai vista! Isenia cercava di vestirla con abitini lussuosi e cuffie piene di gale per nascondere il più possibile le sue fattezze, ma nonostante trine e sete della migliore qualità, Cesira, poverina, restava sempre brutta, gobba e con la voce che sembrava un’oboe stonata.
II
LA SFERA DI CRISTALLO
Quando Betta, Clelia e Irma erano assieme, facevano paura a tutti; non c’era lingua più velenosa, occhiata più pungente della loro se decidevano di prendersela con qualcuno e questo, a dirla tutta, accadeva molto spesso!
«Tre è il numero perfetto!» Dicevano vantandosi non poco della loro ferrea amicizia.
Erano le pettegole più temute della città.
Appena libere dai loro impegni lavorativi, si riunivano quando alla taverna, quando a casa dell’una o dell’altra e proprio in una di queste occasioni accadde una cosa che le rese ancora più unite e spericolate nelle loro folli imprese investigative.
La taverna era chiusa per il riposo pomeridiano, e le tre amiche non volevano perdere occasione per tenere in allenamento le loro lingue lunghe.
Quel giorno, Clelia e Irma erano appoggiate con le braccia alla staccionata che recingeva l’orto di Betta e come loro solito si divertivano a sparlare delle donne poco raccomandabili della città ridendo e ciarlando a voce alta mentre Betta continuava a zappare per preparare la terra alla