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Passeggiando tra sangue e rose
Passeggiando tra sangue e rose
Passeggiando tra sangue e rose
Ebook352 pages5 hours

Passeggiando tra sangue e rose

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- Beh, allora la giochiamo sta partita? -
Gli faccio eco.
- Siamo venuti apposta, no? -
- Giusto. -
Le tre prede non stanno capendo più nulla, lo hanno chiaramente scritto in fronte. Rompo gli indugi.
- Voi tre, alzatevi, veloci. -
Nel momento in cui ci troviamo gli uni di fronte agli altri noi facciamo un passo indietro. Lo spazio che si crea è il campo da gioco.
- Dunque, vediamo... la conoscete la storia della guerra di Troia? -
    E' solo una delle istantanee di una giornata apparentemente anonima come tante altre, che d'un tratto in maniera tutt'altro che insolita, si era animata finendo col prendere una delle pieghe che, come pennellate di colori contrastanti su una tela bianca, avevano dato quel tocco di vivacità tanto familiare per alcuni quanto incomprensibile e ingiustificabile per molti altri.
    Completare un puzzle utilizzando tessere che secondo il pensiero dei più sono inconciliabili, alla fine non è altro che un qualcosa di molto simile all'avventurarsi in una passeggiata lungo un sentiero punteggiato di sangue e rose.
     
    LanguageItaliano
    PublisherMarco Ceruti
    Release dateMay 19, 2017
    ISBN9788826438979
    Passeggiando tra sangue e rose

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      Passeggiando tra sangue e rose - Marco Ceruti

      Indice

      Apertura

      Citando e ringraziando

      Da queste erbe, cespugli, alberi, fossati, viottoli, muri, stanze, corridoi, scale, libri, mobili, fienili, solai ho ricevuto la mia prima poesia.

      Cit. Dino Buzzati

      Cose, persone, luoghi e fatti contenuti in questo libro sono il frutto di pura invenzione letteraria e di libere escursioni nel fantastico mondo dell'onirico, qualsiasi riferimento a corrispondenti reali è casuale e privo dell'intento di recare eventuale torto od offesa a chicchessia.

      Dedicato alla mia famiglia e con essa, a chi supporta e sopporta.

      Copyright depositato

      Capitolo 00

      Intro

      Mi sono spesso ritrovato ad immaginare la vita come una gamma di colori.

      Da una parte una pennellata di bianco, nell'estremo opposto un tocco di nero. In mezzo, una successione quasi sconfinata di gradazioni intermedie.

      Qui comincia la prima vera battaglia della guerra simbolica che caratterizza la vita umana, un'imperitura partita a scacchi tra due distinte caratteristiche di base: in una metà del campo coloro che tra questi due estremi bianchi e neri posseggono nel proprio io una gradazione sconfinata, ricchissima di sfumature e di tonalità, tutte più o meno grigie, un vortice bigio che aspira l'esistenza dei molti nella sua mutevolezza e poliedricità; nell'altro settore del tavolo da gioco, chi tra i propri estremi bianchi e neri annovera tutta la successione possibile di colori, con la relativa infinita possibilità di originare continuamente nuove cromie.

      Questa storia comincia nella dimensione del nero.

      Non sto parlando di un nero puro, ma di un angolo della tavolozza dove una miriade di colori brillanti si sono amalgamati tra loro, andando a creare per saturazione una crosta scura come la profondità dell'abisso.

      Capitolo 01

      Indefinito

      Nel deserto l'asceta ritrova la sorgente. Quella sorgente che restituisce la volontà di condividere.

      In principio non vi era null'altro, se non quello. Il gusto dell'oblio, un lago di pece nera come le profondità dello spazio siderale privo di stelle.

      Una nuotata in una sorta di liquido amniotico primordiale dove la quiete assoluta domina incontrastata prima della tempesta, dove si viene dolcemente cullati da una specie di moto ondoso costante e confortante, nato da una corrente di endorfine in un mare di oscurità sconosciuta che nonostante tutto conserva un sapore familiare e rassicurante nel suo tiepido abbraccio.

      Forse ci si sente così nell'utero materno, appena pochi attimi prima che cominci il travaglio e la danza del parto abbia il suo decorso.

      Difficile spiegare mediante un vettore inadeguato come il linguaggio un qualcosa che si potrebbe esprimere solamente mediante altre forme di comunicazione...

      Mille colori dipingono su una tela buia un piacere antico quanto l'uomo stesso, una ninna nanna onirica scandita dal ritmo ipnotico di un fellatio da antologia, e forse si tratta proprio di questo.

      La mente si apposta nella famelica attesa del big bang finale, dell'eruzione vulcanica indomabile, uno degli istanti più intensi e felici che punteggiano la vita maschile, e invece no, qualcosa non va, il conto non torna.

      La calma estatica sta scemando, qualcosa la disturba. La quiete pacifica è inesorabilmente rovinata.

      In lontananza mi sembra di udire l'eco di alcune esplosioni che diventano via via più nette e distinguibili. Il buio viene squarciato da lampi di luce. Una tempesta si avvicina e a giudicare da quanto parrebbe essere veloce e ritmata, ha certamente ben poco di naturale.

      Sembra quasi trattarsi di un bombardamento di artiglieria che con implacabile cinismo aggiusta sempre più il tiro nella mia direzione.

      Sono confuso... che stessi sognando? Forse mi sono addormentato per qualche ingannevole istante e un'illusione effimera mi ha celato per qualche momento dalla cruda realtà di una guerra.

      Magari mi trovo nel cuore di una battaglia e il mio corpo o la mia psiche hanno ceduto, concedendomi il lusso di poter chiudere gli occhi per qualche attimo, il tempo di un battito di ciglia.

      Tuttavia qualcosa ancora una volta non quadra, la spiegazione deve essere un'altra. Nonostante le membra siano intorpidite, i sensi ovattati e la capacità cognitiva pressoché disinserita, non vi è comunque nemmeno il vago sentore di quell'aroma selvaggiamente affascinate e disgustoso fatto di sangue, fango, sudore, liquami, adrenalina, vergogna, gloria e da chissà quanti altri ingredienti che contraddistingue ogni guerra.

      La scheggia di un istante confusionario comincia a dileguarsi e a lasciar posto ad una luce ben poco rassicurante che avanza impietosa, incalzando la fulminea ritirata della tenebra. Ancora una volta si trattava di un miraggio, o per meglio dire di un sogno nel sogno.

      In un certo qual modo le ostilità sono realmente in corso, un conflitto senza carri armati, cacciabombardieri, cariche di cavalleria e duelli all'arma bianca.

      Un altro tipo di guerra che si ripete con implacabile scadenza di battaglia in battaglia.

      Me ne rendo perfettamente conto, o quasi, nel momento in cui riesco a prendere atto che il fortunale che ha strappato dagli ormeggi la mia paradisiaca oasi galleggiante è una bomba a mano che ticchetta poco distante dalla mia scatola cranica. Con una scatto felino più consono ad un automa che ad un essere vivente mi accingo a disinnescarla prima che sia la mia testa a deflagrare dall'interno.

      Capitolo 02

      Ore 6.00 circa

      Con un colpo di mano guidato in parte dall'abitudine, in parte dalla disperazione, riesco a far tacere la sveglia che mi ha riportato impietosamente nel mondo reale.

      Non posso credere che sia già giunta l'ora, nel mentre che non riesco come al solito a capacitami di come un essere umano possa essere costretto dalle circostanze quotidiane a doversi destare così presto.

      Mi ci vorrebbe una vacanza. Il mio corpo me lo sta consigliando vivamente, con la freschezza tipica di un manzo che dopo essersi spinto a pascolare sulla carreggiata di un'autostrada ha avuto un incontro ravvicinato con un camion col rimorchio colmo di barre di piombo. Forse dovrei appellarmi alla fortuna come da prassi da parte di determinati sognatori o semplici disperati e tentare di vincere dei soldi a qualche stupido gioco, uno di quelli che spuntano come funghi e promettono fiabe dal lieto fine a chicchessia. Così nel caso potrei far calare il sipario e concedermi un lungo periodo di ferie, diciamo una vacanza vita natural durante. Magari in qualche isola tropicale, con trecentosessanta giorni all'anno di sole, alla volta di un felice prepensionamento marittimo, o perché no, in qualche località alla moda nei pressi di qualche rinomata stazione sciistica, per alternare vita mondana e discese a non finire. Meglio ancora, dedicarsi ad un perenne viaggio itinerante di località in località, un ouroboro tra mare, montagna, capitali della moda e della movida...

      Ma che cazzo sto pensando, io non sopporto il sole cocente per più di dieci minuti, non ho mai particolarmente amato la tintarella e non ho mai provato a sciare una volta che sia una in vita mia. E il ticchettio dell'orologio mi sta suggerendo che in questa sorta di meditazione sto bruciando tempo prezioso che semplicemente non ho.

      Bando alle ciance, una sciacquata alla faccia e una pisciata torrenziale tanto per cominciare.

      Mi guardo allo specchio. Effettivamente una manciata di giorni di vacanza, giusto per ricaricare un minimo le batterie, non sarebbe poi male. Peccato che in questo periodo tale eventualità abbia la consistenza di un miraggio nel deserto. Recupero i ferri del mestiere e mi accingo a dare vita a quella che più che una prassi mondana è un vero e proprio rito. Spesso non ci rende quasi conto di quanti rituali intrinsechi siano presenti nella realtà quotidiana, quei gesti, quelle azioni che apparentemente sembrerebbero quasi essere atteggiamenti protocollari e vuoti, ma che in realtà sono un qualcosa di più di una semplice abitudine o necessità pratica, dei veri e propri comportamenti che hanno il sapore di una celebrazione misticheggiante guidata da non sa bene chi o che cosa. Ognuno ha i suoi, pilotati forse da qualche forza interiore che agisce sull'inconscio, e quello che inaugura la mia giornata a mo' di una metaforica timbratura di cartellino è la rasatura, barba e capelli. Non so darmi una spiegazione particolarmente nitida a riguardo di tale abitudine, sarà forse che ognuno risponde sin dalla nascita a precisi nodi geomantici che finiscono a seconda dei casi con l'influenzare la geografia della vita di ognuno. In tal caso per quel che mi riguarda uno degli scogli che punteggia questa presunta carta nautica è stata mia nonna, con la quale ho passato moltissimo tempo nella mia prima infanzia. Ricordo perfettamente come l'arzilla signora con gli occhiali e i capelli bianchi, in perfetta linea con i canoni estetici classici imposti dalle fiabe per bambini, prima ancora di quotidiane sedute di lettura e rilettura delle pagine del galateo mi abbia ripetuto all'infinito diversi suoi propri determinati mantra ancestrali educativi, primo tra tutti che la pulizia e l'ordine sono l'orgoglio della vita. Praticamente, che ognuno è tenuto verso se stesso e verso gli altri ad essere sempre lindo e ordinato. Una vera noia per un piccolo pacioccoso, soprattutto pensando al fatto che a differenza della ruvida educatrice, le matriarche delle fiabe in genere fanno le torte di mele e le mettono a raffreddare sul davanzale in attesa che il monello di turno passi a fare merenda, ma mentirei se oggigiorno non dicessi che la ringrazio per questo.

      Forse invece i ricordi d'infanzia influiscono sulle proprie prassi fino ad un certo punto, e a farla realmente da padrona è l'energia mentale che ognuno ha dentro di sé, la quale può essere una vera e propria guida nonché fonte di ispirazione, se e quando uno semplicemente sviluppi l'intenzione di seguirla.

      In tal caso dovrei piuttosto chiamare in causa quella vocazione interiore innata, non saprei come definirla altrimenti, che mi ha sempre indirizzato ad essere rigoroso verso me stesso, quella che i miei genitori apostrofavano come l'attitudine poco spiegabile del mio vivere giorno dopo giorno come se fossi in una caserma.

      Sarà quel che sarà, ma sta di fatto che nonostante in questo momento stia letteralmente dormendo in piedi, dei gesti meccanici e precisi stanno scolpendomi viso e scatola cranica e come ogni mattina mi sto domandando perché mai a differenza di altri ho deciso che le mie levate e le mie conseguenti giornate non sarebbero state guidate dalle peculiarità di qualche personaggio bukowskiano. Uno di quelli che dopo essersi alzato con qualche ora di ritardo sulla tabella lavorativa, si accende una sigaretta e si versa due dita di whisky prima di ritinteggiare la tazza del bagno di verde vomito. Questione di attitudine, forse ho sbagliato tutto, forse ho tendenza autolesionista a cercare sempre la via più difficile, sapendo che probabilmente è quella giusta. Ai posteri la sentenza.

      Mi trascino in cucina, rianimato dalla consapevolezza che sta per prendere vita un appuntamento che per quel che mi riguarda è semplicemente sacro. Dico sul serio, per quel che mi concerne questo è un momento cardine della giornata, al quale non vorrei mai rinunciare. Tutto il resto può attendere, anche il tic tac privo di sentimenti del boia meccanico che mi osserva dalla parete e ancora una volta mi ricorda, come se ce ne fosse bisogno, che celermente o lentamente la sabbia contenuta nella clessidra che scandisce la vita di ognuno non smette mai di scorrere implacabilmente verso il basso.

      Chissenefrega.

      Alla mia botta mattutina di fibre, calorie, carboidrati e proteine non posso rinunciare, altrimenti il mio motore diesel si rifiuta di partire. E poi ho un vero e proprio culto personale per una confortevole tazza fumante, una dimostrazione senza pretese del fatto che il paradiso molte volte si nasconde dentro le cose più semplici, quelle che spesso erroneamente vengono date per scontate e per questo ingiustamente private del loro valore. Se fossi cresciuto in Giappone probabilmente la mia libidine sarebbe stata pompata a mille di continuo, al pensiero della sacralità che in un paese del genere viene attribuita alla cerimonia del tè. Avrei probabilmente investito una bella cifra in qualche Ochaya per farmi preparare l'ambita tazzina di bevanda ambrata da una Geisha, in onore della tradizione.

      Nel mentre tocca accontentarsi della porcellana comprata nel negozio di ceramiche all'angolo, ma in un certo qual modo anche quella è un'usanza di non poco conto, visto che il medesimo resiste alla concorrenza sempre più spietata sin dall'anteguerra, indi per cui, salute. Tra l'altro in un contesto nipponico avrei necessitato di un corso rieducativo ad hoc in quanto a bon ton a tema, dato che da abitudine consumo sempre la colazione rigorosamente in piedi. E' quella che mia madre chiamava la sindrome equina. L'allusione è semplice: i cavalli sono sempre ritti sulle zampe, non si accovacciano mai. Mangiano in piedi, dormono in piedi, montano in piedi. Se da un punto di vista sessuale un pensiero ce lo si potrebbe fare, a dormire in piedi non ci tengo particolarmente. Consumare la prima colazione a mo' di piantone, ritto tra il lavello e i fornello, è una prassi che è nata da sé un giorno imprecisato quando ero liceale, senza una specifica motivazione. Anche quello è stato un gesto spontaneo proveniente dall'inconscio, come se l'eco di una vita precedente passata a fare il soldato risuonasse lontano, portandomi all'orecchio la voce di un grillo parlante in salsa marziale che mi suggerisce che gli atteggiamenti svaccati da satrapo non sono molto conformi alla mia indole. Ciò non toglie che allo stesso tempo mi risulti indigesta l'idea di consumare il pranzo o la cena senza le gambe sotto a tavolo, cosa che nelle rare volte in cui si verifica non manca mai di mettermi di cattivo umore in automatico. Non è un qualcosa legato a questioni di comodità o altro, semplicemente l'aura concettuale che aleggia attorno al cibo take away mi sta abbastanza sui coglioni, non posso farci nulla.

      Do un'occhiata fuori dalla finestra. Fa freddo, la cosa è evidente. I tetti e le fronde delle piante sono ricoperti di brina, il cielo è grigiastro e c'è una discreta coltre di nebbia. Un pallido paragone con la bruma spessa e lattiginosa che tradizionalmente accompagnava la maggior parte delle mattinate di una volta e che ora invece si materializza con la puntualità di un evento. Sembra quasi di parlare di fattori che caratterizzavano la vita secoli or sono, e invece si parla di pochi anni fa. I tempi cambiano, e il clima non fa differenza nel seguire questo trend. La cosa volendo puntualizzare è in un certo qual modo spaventosa; probabilmente tra non molto ci sarà parecchio da ridere a riguardo. Staremo a vedere.

      Mi soffermo per un attimo ad osservare i vasi dei gerani che giacciono come carcasse insepolte sul balcone dei miei vicini di casa. I medesimi sono rinsecchiti, martoriati dalle intemperie. La cosa dovrebbe essere ovvia e scontata dato il periodo, tuttavia il fattore interessante è proprio questo: fino a non molto tempo fa, questione di pochi giorni addietro, non solo erano ancora vivi, ma addirittura in fiore. Certo, in maniera non particolarmente prospera, ma comunque notabile. Come se il famigerato Generale Inverno si fosse bellamente messo in modalità scioperante, in perfetta linea con i tempi di crisi odierni.

      Meglio fare finta di non pensarci data l'ora e quello che mi aspetta tra pochi minuti, e piuttosto darmi una mossa a vestirmi.

      Un'ultima cosa prima di uscire, voglio permettermi il lusso di donare nostalgicamente qualche istante ad un atto che mi riporta alla mente la mia altra nonna, quella che se ne andò quando ero ancora bambino. Tra i primissimi ricordi frammentari di quando ero un piccolo marmocchio, rammento che lei alle volte mi portava al parco pubblico nei pomeriggi primaverili, tirava fuori un pezzetto di pane raffermo, lo sbriciolava, me ne dava in mano delle piccole manciate e mi diceva di gettarlo a terra, per far fare merenda alle formiche che si erano appena destate dal letargo invernale. Mi divertivo un mondo, banale testimonianza di come in un'età benedetta minime semplicissime cose bastano a renderti felice. Chi lo sa, poi quella santa donna anziana oltre ad essere benevola ed altruista persino con gli insetti, aveva l'occhio lungo e amava i messaggi subliminali, tipo quello insito nelle fiabe sull'animaletto laborioso e diligente che lavora e fa cassa prevedendo i tempi difficili. Dopo di che il tempo è fuggito via con impietosa naturalezza, lei è passata brevemente a miglior vita e io crescendo ho cominciato a maturare una discreta antipatia per le formiche operaie, quando ho fatto i conti con la loro parsimoniosa voracità che le portava a martoriami fiori e piante in giardino, inducendomi a sostituire la mollica secca con il bruciatore a gas.

      Tuttavia in onore del ricordo della bontà di mia nonna, ho preso l'abitudine di avanzare ogni giorno un po' di pane, per poi sminuzzarlo e gettarlo dalla finestra la mattina seguente agli uccelli, trasformando il mio cortiletto in una trattoria per una piccola comunità di passeriformi, con tanto di caute lamentele del vicinato e sentiti ringraziamenti da parte delle cornacchie che albergano sui tetti limitrofi.

      Forse dietro questa pseudo verve da San Francesco alla buona sta solo una nostalgia intrinseca per un periodo annebbiato ed innocente che fa parte in un modo o nell'altro degli albori della vita di ognuno e che poi inesorabilmente perisce sotto il peso delle azioni, una piccola lavata di coscienza per tutto quello che si accumula nella vita mondana di ognuno.

      Nel mettermi la giacca mi accorgo di avere una piccola macchia rappresa color rosso scuro sulla manica. Mi do una nota di biasimo, mai commettere la leggerezza di portare il lavoro a casa senza rendersene conto nell'immediato. Mai. Inutile tentare di pulire con una spugna in questo momento, il risultato sarebbe insoddisfacente. Ci vuole uno smacchiatore, ci penserò più tardi.

      Faccio girare la chiave nella toppa e abbandono la magione.

      Che lo spettacolo abbia inizio.

      Capitolo 03

      Ore 7.00 circa

      Lo sguardo dalla finestra di casa non mi aveva ingannato, stamane la caligine non scherza.

      La coltre nebbiosa ha un legame di parentela con il manto nevoso, nell'avere il potere illusorio di celare le brutture di questo paesaggio anonimo e rendere il tutto silenzioso, distaccato, quasi sospeso nel tempo. Le abituali porcherie con i quali si fanno solitamente i conti sono sempre li, ma nell'essere momentaneamente nascoste sembrano essere anestetizzate e quindi meno fastidiose. Il tutto dona un effimero senso di pace, e coloro che puntualmente si aggirano per queste strade sembrano marinai che avendo perduto la stella polare, navigano affidandosi a sensi normalmente subordinati alla vista.

      Fosse una sera di fine settimana, una di quelle che fanno da preludio a qualche puntata fuori porta con gli amici, probabilmente sarei sull'orlo di imprecare, dato che avendo la capacità misterico sciamanica di controllare l'altezza del mio gomito, sono spesso amabilmente invitato dalla ciurma a guidare. Ho sempre la fortuna di vincere il primo premio a questa lotteria. Tuttavia essendo un'anonima mattinata infrasettimanale di un giorno lavorativo come tanti altri, mi concedo il lusso egoistico di fregarmene, dato che molti anni addietro deliberai senza possibilità di appello di rinunciare alla guida alla volta della città, preferendo usufruire dell'incognita dei mezzi pubblici. Meglio vivere un'odissea quotidiana tra i risvolti di una trama che Penelope non finirà mai di tessere, piuttosto che mettere seriamente a repentaglio la propria salute mentale tra gli psicopatici che affollano le strade in prima mattina. Da una parte carri bestiame ricolmi di materiale umano che ha la baldanza della mandria avviata al macello, dall'altra sciami di formiche operaie al volante pronte ad esplodere senza preavviso, trasformandosi in belve assetate di sangue per conquistare qualche metro in più di asfalto. Quando occorre, una famigerata terza via latita sempre, come da copione. Fanculo, non ci tengo minimamente a conquistarmi un posto in questo corollario di dementi al limite della psicosi.

      Meglio il carro bestiame, senza armi non convenzionali in dotazione è quello che garantisce più possibilità di sopravvivenza, sempre che ogni mattina si riesca a digerire un copioso antipasto a base di gente sull'orlo di una crisi di nervi. Volendo star a vedere non ci sarebbe molto da scherzare sul fatto che un'azione quotidiana come andare e tornare dal lavoro più che un rapporto equo tra diritti e doveri sia diventata una lotta per l'autoconservazione. Conviene prenderla con filosofia, è meglio.

      Questa nebbia tra l'altro mi da molto da pensare. Probabile che faccia da preludio a qualche risvolto pepato pronto a dare un sapore speziato al proseguo della giornata. Vedremo.

      Tra le spire della bruma si ode distintamente il richiamo di una delle tante cornacchie che popolano i tetti del circondario. Chiama all'adunata le sue sorelle, le quali saranno parecchio infastidite dal clima odierno che interferisce con la caccia agli uccelli canterini. Sempre che ne trovino prima di dover passare direttamente ai merli, visto che i passeri, ivi inclusi quelli della mia mangiatoia, stanno celermente scomparendo. Tra un verso e l'altro puntualmente in prossimità dell'accesso alla stazione ne compare uno dissonante con il resto del coro, proveniente dall'ugola di una cornacchia dalle sembianze umane. E' il vecchio, che come ogni mattina è di piantone alla scalinata che porta alle banchine dei treni. Ci tengo a puntualizzare che vecchio non è un termine dispregiativo, perché il medesimo, facente Vecchi all'anagrafe, è soprannominato così praticamente da sempre. Lo ricordo sin dalla fanciullezza, visto che era un amico di mio nonno. Questo è un particolare potenzialmente interessante stando a vedere, considerando che mio nonno se n'è andato da molto tempo e già allora il vecchio aveva un aspetto alquanto attempato. Presumibilmente potrebbe essere antidiluviano, un simpatico disco in vinile consumato che passa le giornate a gracchiare ai quattro venti contro tutte le disgrazie del mondo e le persone colpevoli di averle provocate, quando non si riposa a braccia incrociate dietro la schiena, intento ad osservare e redarguire i malcapitati operai di turno alle prese con qualche lavoro stradale. Inutile stare a domandarsi perché un pensionato, in una fredda giornata d'inverno, sia già in giro alle sette del mattino a vigilare sul quartiere. Certe domande non troveranno una risposta entro la fine del mondo.

      - Uè! - Individuato.

      - Ciao Vecchio, come va? -

      - Male! Sei il primo dei nostri che vedo passare stamane, tutti gli altri che son andati e venuti sono forestieri. Mi sento un estraneo a casa mia ormai. Siamo in rovina ragazzo. -

      - Che ci vuoi fare vecchio, purtroppo o per fortuna le cose cambiano. -

      - Si ma cambiano sempre in peggio, puah! - Scaracchiata.

      - Forse hai ragione, scappo che è tardi, fai il bravo né! Non berti troppi bicchieri oggi. -

      - Il bianco me lo bevevo già quando mi faceva compagnia tuo nonno, anche se muoio, meglio! A chi importerebbe, i miei amici son tutti partiti. Vale la pena di raggiungerli, tanto oramai fa tutto schifo! Ciao. -

      - Falli aspettare ancora un po'. Ciao. -

      Probabilmente un po' di nostalgia per le tue scornacchiate io l'avrei.

      Imbocco la scalinata che porta direttamente in banchina. Butto un'occhiata a quel che rimane del monitor, che stranamente, tra una sassata al vetro e una ragnatela di tag in ogni dove, funziona ancora. Tanto per cambiare il carro è in ritardo, cosa che è diventata talmente abituale da instaurare la conseguente prassi di posticipare l'uscita da casa relativa all'orario comandato del treno. Il tunnel è un vero cesso, una perfetta cartolina della civiltà urbana. Mi viene da pensare al circondario e alle cantilene del vecchio, tanto per distrarmi un po'. Lui è il tipico individuo particolarmente portato a condire le sue novelle con la schiettezza diretta tipica dei bambini, quella sorta di innocenza pre educativa che senza volerlo applica in maniera meccanica il detto secondo il quale la verità, per quanto scomoda, non è mai peccato. Effettivamente volendo evitare superflui giri di parole, i concetti espressi dal buon cornacchione fanno poche pieghe.

      Banale a dirsi, ma fino a non molto tempo fa queste erano zone tutto sommato tranquille. Non occorre risalire controcorrente il flusso del tempo fino alle disfide tra il Barbarossa ed Alberto Da Giussano, basterebbe ricordare gli anni in cui la mia generazione frequentava le scuole elementari. Si parla di un'epoca relativamente vicina, quando questi piccoli e medi comuni che circondano l'agglomerato urbano vero e proprio, la famigerata cintura, erano delle modeste oasi che avevano un sapore molto diverso da quello della città, così geograficamente vicina ma allo stesso tempo così lontana a livello sensoriale. Oggettivamente brutti, spesso insignificanti per tutti coloro che sono dotati di un minimo di gusto, ma a loro modo piacevoli, godibili, sostanzialmente vivibili. Magari non più di tanto per chi come me ha sempre agognato una vita all'aria aperta nel vero senso romantico del termine, fatta di paesaggi boschivi, montagne, un rapporto quotidiano di scambio, simbiosi e convivenza con l'ambiente circostante...ma tant'è.

      Poi nel giro di pochi anni queste zone si sono trasformate, in peggio. La città è cresciuta e ha fagocitato tutto, non solo a livello fisico ma anche attitudinale, trasmutando i comuni del circondario in sostanziali quartieri e borgate. Una mutazione tanto evidente quanto silenziosa, che è avanzata con velocità esponenziale a braccetto con le modalità e ritmi della cementificazione che ha cannibalizzato le ultime aree verdi presenti. Uno dei tanti esempi vari che ci ricordano che in un futuro terribilmente dietro l'angolo, con il cemento e la demografia che corrono a braccetto con il ritmo moltiplicatore degli esponenti, gli spazi aperti, un angolo di natura, un po' di solitudine e di riservatezza e tante altre cose analoghe diverranno merci che avranno un valore superiore a quello relativo alla caratura dei diamanti.

      Le modeste oasi di quella che si poteva definire una piccola borghesia operaia, ovvero i tranquilli alveari di coloro che non sono né ricchi né benestanti, ma che nemmeno avvertono particolari mancanze fondamentali, sono diventate una torre di Babele con un regolamento condominiale molto labile. Il tutto è avvenuto con buona classe borghese, con quel tipico savoir faire che ha fatto si che in maniera visibile, in superficie, emergesse poco o nulla riguardo gli sconvolgimenti tellurici che hanno animato il sottofondo. In tal modo i più si sono anestetizzati davanti al fatto compiuto, senza quasi far caso al fatalismo che ha fatto si che la profetica frase cosa ci vuoi fare, oramai è così, tanto vale adattarsi divenisse uno slang quotidiano e un incatenamento al dato di fatto compiuto.

      Il treno è in arrivo e la banchina, come sempre alquanto gremita, è in subbuglio. Parte la prima tappa della lotta documentaristica del più forte a discapito del più debole, ovvero intuire in base alla lunghezza del convoglio, dove si fermerà il medesimo. Questo perché generalmente le carrozze di testa e di coda sono leggermente meno affollate visto che la massa di pecore ha l'indole innata di ammassarsi nei vagoni di centro, e montarvi sopra tempestivamente a volte segna la differenza tra un viaggio scomodo ma affrontabile nella sua relativa brevità e un'epopea di sofferenze tropicali a caccia di una boccata di ossigeno.

      A questo giro sono fortunato, riesco a procacciarmi un pertugio vivibile. Se il buon giorno si vede dal mattino...tutte balle.

      Basta guardarsi attorno con obbiettività per rendersi conto che la realtà che ci circonda è drammatica, con la solita puntuale banalità. Un'orda di gente di ogni età, sesso, etnia, censo, accomunata dal fatto lampante di essere nella quasi totalità una massa di figuranti usciti da una pausa caffè sul set di un film dell'orrore. Zombie, licantropi, vampiri, streghe, fantasmi...non manca quasi nulla. Mostri antiquati apparentemente morti con l'epoca analogica sono più che mai vivi nell'era del digitale. Forse accorgersene è così semplice da diventare conseguentemente impossibile o quasi per i più. Quasi tutti sembrano essere facile bottino dei predatori tecnologici che sempre più si moltiplicano e rinnovano di giorno in giorno, generalmente tutti quei vampiri digitali che prendono vita con un semplice tocco di polpastrello su uno schermo tattile. Tutti parrebbero essere intenti a partecipare alla danza mistica che probabilmente tra poco tempo avrà come risultato più innocuo la comparsa di qualche nuova malattia

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