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Red Psychedelia
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Red Psychedelia

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Narrativa - ciclo completo (321 pagine) - La favola di Cappuccetto Rosso come non l'avete mai letta, ribaltata e riscritta in un futuro distopico tra organizzazioni criminali e droghe miracolose. La serie completa, con prequel e seconda stagione inediti


Sui tetti di una città senza nome, tra luci al neon e insegne pubblicitarie, in un futuro che vede l’umanità vivere pressata in agglomerati urbani protetti da cupole che, di tanto in tanto, si aprono per lasciare entrare la pioggia, tentata dal fascino del Lupo e in perenne fuga dal Cacciatore, si muove Halley. Una cicatrice sul viso, un ciuffo coperto dal cappuccio rosso scuro della felpa, short, anfibi e l’immancabile zainetto pieno di gioia sintetica: la Special Red, droga di ultima generazione, l’illusione perfetta dei desideri più intimi di chi l’assume.

Un’organizzazione criminale sui generis, un manipolo di personaggi psicotici tra i quali spiccano un poliziotto ossessionato dalla giovane pusher, un affascinante killer zoomorfo e la celeberrima Nonnina.

Il capovolgimento di un classico antichissimo sull’antitesi tra bene e male, la fiaba di Cappuccetto Rosso impugnata e rivestita di tinte fluo.

Ora in volume unico l'intera serie che ha lanciato Emanuela Valentini, con un antefatto e una “seconda stagione” inedita.


Emanuela Valentini vive e lavora a Roma, ma è Londra la città dove il suo cuore si sente a casa. Le cose che preferisce fare sono leggere, scrivere, preparare dolci per regalarli, fare fotografie. Adora i classici della letteratura ottocentesca per lo stile inimitabile e i temi trattati, ma legge di tutto. Crede nel potere educativo e curativo dei libri, delle parole. Scrivere, per lei, è essenziale come il respiro. Nel 2013 è uscito con il marchio GeMS il romanzo Ophelia e le Officine del Tempo, giunto in finale al Torneo Letterario IoScrittore 2012. Un altro romanzo, La bambina senza cuore, è stato pubblicato pubblicato da Speechless. Con Angeli di plastica è arrivata in finale ai premi Urania, Cassiopea e Italia. Col racconto Diesel Arcadia ha vinto il Premio Robot.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMay 23, 2017
ISBN9788825402209
Red Psychedelia

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    Book preview

    Red Psychedelia - Emanuela Valentini

    9788865308615

    Prequel

    0

    – Fammi fumare, è la terza sigara che ti sturi tutta da sola, stronza.

    La ragazzina con le trecce e le lentiggini spinse quella che fumava in piedi accanto al muro grigio che le divideva dal mondo. La colpì più con disprezzo che con l'intenzione di farle male.

    Una spinta lieve, ma decisa. La risposta fu un destro, piantato di netto sul piccolo naso che la mandò col culo per terra.

    – Non chiamarmi mai più stronza. Tu sei nuova e devi ancora imparare le poche, semplici regole di questo posto di merda. Sto qui da più tempo di te. Se vuoi fumare devi aspettare di farti l’ultimo tiro, se avrò voglia di lasciartelo. Se, al contrario, mi fai girare le palle, non solo non vedi più una sigaretta in vita tua, ma ti faccio pisciare nel cibo dalla cuoca orba, quella orribile grassona che ti serve la zuppa. Sai che ho conoscenze in mensa. Sai che ho conoscenze ovunque. Posso rendere la tua vita un inferno, bambolina. Chiedi scusa.

    Intorno a loro le altre alunne presenti sul piazzale si abbandonarono a risolini di scherno.

    – Scusa. – la ragazzina con le trecce, tredici anni e segni di scottature sul collo bianco, abbassò la fronte nel tentativo di trattenere le lacrime. La voglia di farsi un tiro l’aveva portata a commettere uno sbaglio.

    Mettersi contro 1515 era da matti, le veterane lo sapevano. Coi suoi quindici anni di cui cinque trascorsi là dentro, era una senior. Si diceva fosse crudele, spietata, e che avesse amicizie in tutti i dipartimenti.

    Tutte le ragazze le offrivano rispetto e piccoli favori per ingraziarsela, anche se in segreto la odiavano e l’avrebbero volentieri ammazzata.

    Il riformatorio era una struttura ordinata fatta di quadrati piccoli e grandi, un bunker coercitivo con grate di ferro alle finestre minuscole e alte, dalle quali era impossibile affacciarsi; una serie infinita di strati di cemento ammucchiati uno sull’altro senza nessuna evidente cura nella progettazione.

    Era un luogo sporco, costituito per lo più da corridoi e stanzette come celle di galera, intervallati a tratti da vaste sale vuote per le attività ricreative e di lavoro.

    Ospitava decine, forse centinaia di adolescenti e in quel piccolo inferno, 1515 faceva valere la sua autorità su tutte le altre. Soprattutto sulle nuove arrivate.

    – Accetto le tue scuse. Sei coraggiosa. Come ti chiami?

    Gli occhi chiari, taglienti di 1515 penetrarono quelli castani e umidi della compagna più giovane.

    – 2336. – Rispose quella passandosi la manica sui rivoli di sangue che le colavano dalle narici. A causa del dolore che le provocò quel gesto, distolse lo sguardo dalla capa e lo orientò sulle file di ragazzine con meno di dieci anni che camminavano in cortile per la loro ora d’aria e movimento.

    Sembravano finte nelle loro divise grigio scuro, spesso di parecchie taglie più grandi.

    Tutte uguali: capelli tagliati corti per rendere più semplici le procedure di debellamento delle colonie di parassiti, volti pallidi e scarni a causa del poco e pessimo cibo, nessun entusiasmo in quella che doveva essere la loro ora di gioco.

    – E perché sei qui, 2336? – domandò 1515 che quel giorno si sentiva parecchio comunicativa.

    – I miei mi pestavano di botte – rispose, accettando il mozzicone che le veniva offerto e attaccandoci le labbra per non perderne neanche un millimetro: – così un giorno ho spinto mia madre dalla finestra del quinto piano e l’ho osservata precipitare e scavare un buco nel tettuccio di una automobile della polizia posteggiata di sotto.

    1515 non mostrò stupore sul viso affilato.

    Scostò il ciuffo di capelli castano chiaro dalla fronte e fece una smorfia che poteva anche essere un sorriso.

    – Hai fatto bene. – sentenziò. – Io avrei fatto lo stesso.

    2336 si lisciò le trecce, fiera di avere in qualche maniera recuperato il rapporto con la capetta del riformatorio e chiese a sua volta: – e tu, perché sei qui?

    La giovane che aveva stampato in nero sul taschino della divisa il numero identificativo 1515, a quella domanda storse la bocca, come se si stesse predisponendo a parlare di un lontanissimo passato.

    Poi, da donna vissuta quale si sentiva, rispose: – avevo meno di dieci anni quando me ne sono andata di casa perché stare lì mi faceva schifo, non scenderò nei particolari. Ti dico solo che mia madre si faceva sbattere da chiunque in cambio di bottiglie di alcool sintetico. Quindi me ne sono andata e ho iniziato a ficcarmi nelle case degli altri di nascosto.

    Mi infilavo in una casa come un topo, rubavo cibo dal frigo durante la notte, fino a che qualcuno non mi trovava. Pestavo i ragazzini che la abitavano minacciandoli che li avrei sgozzati mentre dormivano se facevano la spia ai genitori. Ogni tanto sono riuscita a fermarmi anche per un mese o più. Poi, comunque, alla fine mi scoprivano.

    Di giorno dovevo uscire per lavorare. Spacciavo crack e altra roba fuori dalle scuole per conto di alcuni capetti della zona. Quando gli abitanti delle case che sceglievo mi scoprivano, chiamavano i servizi sociali che mi riportavano a casa mia, da mia madre.

    Il giorno dopo ero ficcata in un altro appartamento di estranei a mangiare il loro maledetto cibo. Alla fine i servizi sociali mi hanno buttata qua dentro, ecco tutto.

    – Wow… che vita emozionante! – fece 2336 scuotendo la testa ammirata.

    – Che vita di merda – le fece eco 1515, – comunque è un complimentone, se fatto da un’assassina.

    In quel momento si udirono delle grida provenienti dalla segreteria all’entrata, accompagnate dal suono anomalo di esplosioni di armi da fuoco e un nugolo di ragazzine sciamò all’esterno, come uno sciame di falene grigie.

    Quando 2336 voltò la testa per capacitarsi, 1515 non c’era più. La vide correre all’impazzata verso la fonte della confusione. E la seguì.

    1

    Nei corridoi in cui si tenevano le lezioni regnava il caos assoluto. Ragazzine di tutte le età correvano dentro e fuori dalle aule, inseguite dai precettori che tentavano di riportare la calma armati di bacchette a rimando elettrico; vecchi taser, rotti o tarati male, scartati dai magazzini delle forze dell'ordine e utilizzati volentieri dal personale del collegio come dissuasori coatti.

    Quando una delle alunne veniva sfiorata dalla punta di una delle bacchette, riceveva una sferzata di corrente di vario voltaggio, capace di annichilirla per lunghi istanti. Non di rado c'era chi non si risvegliava.

    Il suono della corrente che scaricava sui corpi delle malcapitate era insopportabile e così le loro grida, i colpi di tosse, i lamenti gorgoglianti di quando si trovavano con la faccia sul pavimento e facevano fatica a respirare o vomitavano succhi gastrici sui lastroni già luridi di loro.

    1515 si lanciò nella direzione opposta al flusso di persone facendosi largo a spintoni e gomitate.

    Una delle professoresse le si parò davanti a gambe e braccia larghe. Era orrenda. 1515 pensò che sembrava una caldaia vestita con gonna e camicetta.

    – Levati, stronza! – gridò 1515 senza arretrare di un passo, lo sguardo torvo, da matta. Qualsiasi cosa fosse accaduta in segreteria lei doveva saperla per poterla usare a proprio vantaggio. Da secoli aspettava una occasione, non poteva lasciarsela sfuggire.

    – 1515 non fare storie, avanti. Via di qui, torna nella tua cella. Non c’è niente da vedere. – la caldaia in tacchetti provò a convincerla con un discorso ragionevole e lentamente avanzò, la bacchetta a rimando spianata.

    – Guarda che non è un fucile, cretina – la schernì 1515 senza arretrare.

    – La stai tenendo nel modo sbagliato. Ti metto agitazione, forse?

    – 1515 io ti ordino di toglierti dalle palle o stasera te la vedrai con gli addetti alla sicurezza. Ti faranno piangere come l'ultima volta. Pagherai cara questa mancanza di rispetto, essere inutile! Via dalle palle o ti brucio!

    1515 rise in maniera sfrontata. Conosceva alla perfezione quegli aggeggi. Aveva ricevuto centinaia di sferzate di corrente elettrica nei cinque anni passati là dentro e, nel tempo, aveva sviluppato l'insana curiosità di testarne gli effetti su qualcun altro.

    Con un gesto deciso scattò in avanti e strinse le dita attorno alla bacchetta, poco più giù della parte erogatrice.

    Vedendosi attaccata, la professoressa attivò la corrente e 1515 lanciò un urlo di rabbia. Il dolore all’avambraccio era terribile. Si propagava simile a un graffio incandescente lungo i nervi fino alla spalla e al collo.

    Nonostante la nausea le chiudesse la gola e la perdita dei sensi fosse ormai prossima non mollò la presa sulla bacchetta. Con un enorme sforzo di volontà la tirò a sé e con lei il corpo della donna.

    Quando fu sufficientemente vicina, 1515 la colpì con un calcio allo stomaco e quella emesso un singhiozzo strozzato mollò la presa.

    1515 non perse tempo, la sferzò sul ventre, nell’incavo del collo, sulle gambe e, non paga, le mollò una bacchettata sui denti.

    Un attimo dopo la professoressa boccheggiava e sputava sangue sul pavimento, tutti i nervi dello spaventoso corpo che scattavano come molle.

    2336 che giunse qualche secondo più tardi la calpestò e, con una risata, seguì la scia di devastazione che si lasciava dietro 1515 sferzando i professori, gli addetti alla sicurezza e chiunque altro le si parasse a tiro, fino all'ingresso al dipartimento che ospitava la segreteria e le stanze del personale insegnante.

    2

    I locali della segreteria erano distrutti. Sembrava che qualcuno fosse entrato nell’istituto con un carro armato.

    La maggior parte del mobilio era a terra su un tappeto di schede di plasticarta e vetri.

    Raffiche di buchi di mitragliatori attraversavano trasversalmente tutte le pareti, le scaffalature divelte, le scrivanie, i poster con le carte stradali della città.

    Ogni cosa era stata crivellata senza alcuna pietà.

    Sempre più intrigata, 1515 si fece strada nel devasto; scavalcò le tre segretarie sdraiate a terra e ne sferzò un paio a sfregio con la bacchetta, solo perché erano ancora vive.

    Calpestò le lampade, le pile di plastifogli con le schede di tutte le alunne recluse, i cocci e si diresse senza esitazione verso la porta aperta che conduceva nella zona privata dell’Istituto, quella dove si trovava lo studio privato della Direttrice.

    Oltrepassò un ampio corridoio, le orecchie tese, i sensi acuti. Le bastò seguire lo sfacelo e le voci concitate per capire dove, chiunque fosse entrato, era diretto.

    La Direttrice, una donna cattiva, brutta, enorme, con due spalle da lottatrice e un ammasso di capelli crespi sulla testa bitorzoluta, era in piedi dietro la scrivania di finto legno sulla quale erano ammonticchiati documenti e piatti vuoti.

    Un concentrato massiccio di crudeltà con in mano una pistola a tripla canna che aveva l’aria di essere di una precisione micidiale.

    Ma quello che colpì in maniera determinante la giovane mente di 1515 fu la scena generale.

    Nella stanza oltre alla Direttrice c’erano due individui assurdi voltati di spalle che parevano animati da pessime intenzioni.

    La prima era una vecchia di dimensioni ridotte, crocchia grigio cenere sulla sommità del capo fermata da due spilloni d’acciaio, scamiciata nera che mandava puzzo di naftalina fino nel corridoio, mitragliatore a doppia canna in spalla.

    L’altro era un bestione in canotta forata e pantaloni Kombat, con la testa da coniglio. 1515 pensò si trattasse in entrambi i casi di maschere di copertura.

    Oltre alla testa da lagomorfo lui aveva una mano meccanica, un arto del tutto somigliante a un trapano e nell’altra, che era normale, stringeva un’arma che 1515 non aveva mai visto: una specie di scatola che la Direttrice guardava con un misto di terrore e sfida.

    Stavano parlando, sembravano conoscersi.

    Era la piccolissima vecchia col mitra ad avere la parola. La sua voce una specie di spaventoso rantolo.

    – … quindi mi chiedo, mia cara Hildegard, con chi cazzo credevi di avere a che fare. Hai avuto quattro lotti di cocaina di prima qualità, quest’anno, spartiti in trimestri, ma ai miei ragazzi non risultano pervenuti pagamenti. Vedi, il motivo della mia visita è presto spiegato: da persona fortemente rispettata nell’ambito degli affari, mi pareva brutto lasciare che una così bella collaborazione si rompesse per lo schifoso denaro. Così sono passata con uno dei miei ragazzi a trovarti per chiarire un brutto malinteso.

    – Non c’è nessun malinteso, Vecchia Road, spiegalo tu al capo – sibilò di rimando la Direttrice sempre guizzando sguardi alle mani del coniglio in giubbotto antiproiettile: – ho già detto ai tuoi uomini che pagherò. Il tempo di piazzare la roba e pagherò tutto, dove cazzo vuoi che vada? Sai dove vivo, sai dove lavoro. Finisci con questa messa in scena e vattene dalla mia scuola, guarda che caos che hai creato, scalerò le spese dei danni dal totale.

    – Me ne vado, me ne vado. – disse calma la tipa che si chiamava Vecchia Road, e appena terminato di parlare sollevò il mitra e fece partire una raffica di colpi che tranciarono di netto il braccio della Direttrice appena sopra al gomito.

    La mano che stringeva l’arma cadde a terra e l’enorme donnone restò a guardarla inebetita, barcollante, per poi fissare il moncherino bruciacchiato al di sotto della spalla.

    Il grosso corpo fu pervaso da brividi violentissimi, la faccia le si bagnò di sudore.

    – Questo è ciò che accade a chi cerca di fare il furbo con Nonnina, una persona dotata di grande senso di magnanimità, se non si cerca di burlarsi di lei e dei suoi ragazzi. – disse la donnetta con la crocchia in testa e 1515, nascosta dietro lo stipite della porta, sentì i peluzzi all’attaccatura della testa rizzarsi: la amava già alla follia.

    – Vai bAng bunny, procedi. – seguitò la vecchia e, come se non aspettasse altro, il coniglio avanzò a lunghi passi attraverso la stanza, aggirò la scrivania e si avvicinò con fare professionale alla Direttrice che, ancora prima che questi facesse qualsiasi cosa, iniziò a gridare e piangere e tremare come un immondo budino marcio.

    – Ehi! Che cosa le stanno facendo? – il sussurro di 2336 fece sobbalzare 1515 che si voltò furiosa.

    – Stai zitta idiota che questi ci fanno secche… e poi che ci fai qui? Questo è il mio treno, non ci provare che io ti… – 1515 dovette interrompersi perché il coniglio all’interno della stanza stava azionando la scatola che aveva tenuto in mano fino a quel momento.

    L’oggetto, dotato di un buco su uno dei quattro lati, largo quanto un pugno e di un cono di metallo bucherellato su una delle superfici laterali, ora vibrava animato da un piccolo ma potente motorino interno.

    – Questo invece – proseguì Vecchia Road – è ciò che accade a chi compra ma non paga. Prego bAng.

    Sirene lontane annunciarono l’arrivo imminente della polizia. Qualcuno dei professori aveva dato l’allarme.

    Quando ebbe posato la scatola sulla scrivania, il bestione palestrato con il muso da coniglio afferrò la mano sana della Direttrice e la inserì nel foro sul lato della scatola.

    In pochissimi istanti le urla si fecero insopportabili.

    2336 scappò via e 1515 non si voltò per fermarla, incatenata alla scena cruenta che si consumava a qualche passo da lei.

    La mano di Hildegard, infilata a forza e schiacciata nel buco sul lato della scatola a motore scomparve, come risucchiata e, contestualmente, dal cono di metallo posto lateralmente, fuoriuscirono perfetti spaghi di carne tritata, rosea, a tratti lievemente più rossa.

    La direttrice venne giù come un sacco di gelatina proprio nell’attimo in cui un uomo della sicurezza si palesava, evitava 1515 e balzava nella stanza armato di un randello. Un secondo più tardi era a sbavare sul pavimento. Alle sue spalle, 1515 non fece in tempo a sorridere, la bacchetta a rimando elettrico sparata alla massima potenza e ancora vibrante in mano, si ritrovò in faccia le due canne del mitra di Vecchia Road.

    Il coniglio spense la scatola. Estrasse il cono e lo batté con attenzione maniacale sulla superficie liscia della scrivania per eliminare i residui di carne trita.

    3

    – E tu chi cazzo saresti? – fece la vecchia gettando un’occhiata di disprezzo al tipo a terra che smaniava.

    – Mi chiamo… 1515 – rispose la ragazzina. Era terrorizzata ma sporse ugualmente il mento all’infuori per simulare sicurezza.

    Le sirene adesso erano davvero vicine.

    – Che razza di nome sarebbe 1515?

    – Non molto peggiore di Vacca Road, mi pare. – a quelle parole il coniglio sollevò il testone, costernato. Forse sorpreso del fatto che quella piccola impertinente non fosse già sdraiata a terra completamente sfondata di colpi.

    Questo non accadde, in effetti.

    Accadde invece che dalla gola arsa e rugosa di Vecchia Road uscisse un suono molto simile a una risata divertita.

    – Non farlo mai più – la ammonì, mentre rideva. Questo se possibile terrorizzò ancora di più 1515 che tacque a testa bassa.

    – Non prendermi mai più in giro, piccolo numero insignificante. Hai capito bene? Ti risparmio quella misera pelle solo perché mi hai salvato da questo coglione con il manganello, qui. Ma non lo farò una seconda volta.

    – Mi porti con lei la prego! Voglio lavorare con lei, farò qualsiasi cosa! Ho esperienza. Ho venduto crack a dieci anni! La prego non mi lasci qui, Vac… Vecchia Road!

    – Andiamo capo. – Il coniglio era già sulla porta. Colpi di clacson dall’esterno.

    – Non se ne parla – gracchiò la vecchia seguendo il suo uomo nel corridoio.

    – Non me ne faccio niente di una come te. Vaffanculo.

    Disperata, 1515 le corse appresso, la precedette, superò il coniglio e aprì loro la porta della segreteria con un inchino.

    – Posso fare bene qualsiasi cosa! – insistette.

    – Fottiti! Hai sentito il capo? – il coniglio la spinse a terra. 1515 si rialzò e colpì con la punta dello scarponcino la testa di una delle segretarie che stava raccogliendo da terra un pezzo di vetro, forse per lanciarlo alla volta dei due visitatori.

    Vecchia Road si fermò al centro della stanza.

    Appena fuori, sul selciato del cortile, rombava una grossa automobile a ruote, di colore nero, lucido, borchie lucenti, cristalli scuri.

    – Quanti anni hai? – le chiese, il suo sguardo che la trapassava.

    – 15 – rispose, gli occhi che brillavano di ardore e rabbia furiosa.

    – Come il mio nome merdoso qui dentro.

    – Capo, andiamo! Gli sbirri! – il coniglio attendeva accanto allo sportello aperto. Il motore dell’automobile rombava e sbuffava.

    – La prego – sussurrò 1515, – non se ne pentirà.

    Aveva intravisto un vecchio elegante con lunghi baffoni bianchi alla guida di quel magnifico automezzo obsoleto.

    Amava quella gente. Amava quella donnina bastarda col mitra sulla spalla, la sua efferatezza, la sua calma misurata, quel modo da boss di affrontare le cose.

    Aveva desiderato di lavorare per lei sin dal primo istante. Avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché l’accettasse tra i suoi ragazzi.

    Il cuore di 1515 batteva come un martello. Tutta la sua vita, tutte le speranze di uscire dal riformatorio e farsi una vita fuori pendevano dalle labbra bianche e sottili di quella incredibile vecchiaccia.

    I suoi occhi erano privi di qualsiasi espressione, sentimento, niente. Non dicevano niente. Una perfetta maschera immobile che trasmetteva inquietudine e brividi.

    – Non fiatare più. – disse infine Vecchia Road, muovendosi verso l’automobile.

    – Se me ne dovessi pentire, la tua sorte sarà molto peggiore di una intera vita dentro questo posto. Non dimenticarlo mai. E adesso monta a bordo che arrivano gli sbirri.

    4

    La macchina, un corpo surriscaldato composto da organi meccanici lubrificati e carburante, partì sbandando sulla breccia del cortile antistante la segreteria mentre una folla di ragazzine urlanti sciamava nello spiazzo.

    Troppo tardi, ragazze. Pensò 1515 cercando con lo sguardo 2336. Ma non la vide nella uniformità delle divise e delle teste rasate.

    La sua vecchia vita brulicava oltre il cristallo scuro.

    Solo un sottile cristallo la separava dalla cella umida e spoglia in cui aveva vissuto gli ultimi anni, dalla mensa sporca e grigia coi tavoli di formica scrostata, dalle sferzate di corrente elettrica, dalle vessazioni degli addetti alle pulizie.

    Un vetro. La fine di un ciclo, l’inizio di cosa?

    1515 voltò le spalle all’assembramento delle sue compagne. Per quanto ne sapeva quel capitolo era chiuso per sempre.

    Si era guadagnata quella stupenda evasione. Era pronta per cominciare a lavorare seriamente per quella straordinaria vecchiaccia.

    Il motore scalpitava sotto al metallo nero. I larghi pneumatici sgommavano in cerca di appigli, pronti a mordere la strada.

    Vecchia Road, seduta a schiena dritta sul sedile davanti, la crocchia leggermente disfatta, abbassò il cristallo e fece sporgere le canne del mitra.

    Spiaccicata dietro, accanto al coniglio apparentemente tranquillo e intento a ripulire il suo tritacarne, 1515 si aggrappò ai poggiatesta dei sedili davanti per non finire contro uno degli sportelli, o peggio, addosso a bAng bunny.

    Lui si voltò un paio di volte e ammiccò da dietro i baffi frementi.

    Aveva un fisico prestante e mandava un odore di maschio che la spaventò e attrasse insieme, ma fu la sensazione di un attimo: con una manovra a U che sollevò un immane polverone, il vecchio autista rimise perfettamente in carreggiata l’automobile e la lanciò a forte velocità verso la cancellata che, attivata da qualcuno all’interno del gabbiotto, si andava piano piano serrando come una bocca di ferro.

    – Non rallentare, Pongo. – la voce di Vecchia Road sicura, infallibile rassicurò l’autista che mantenne l’assetto, nonostante il doppio cancello fosse già oltre i tre quarti.

    Via il mitra. Il braccio magro della donna si allungò all’esterno e stette teso, una breve pistola puntata direttamente alla testa del custode che si muoveva nel gabbiotto.

    Tutto accadde in brevissimi istanti che 1515 visse al rallentatore. Il muro di ferro si avvicinava e con lui l’inevitabile schianto. Poi lo sparo. Sicuro, letale.

    1515 vide il cappello dell’uomo nella gabbia protettiva saltare per aria in un’esplosione di sangue.

    Lasciata cadere la pistola e impugnato di nuovo il mitragliatore, Vecchia Road si sporse con tutta la spalla fuori dal finestrino e con una sventagliata di proiettili sfracellò la fotocellula collegata all’ingranaggio di chiusura del cancello che, lentamente, prese a riaprirsi.

    Con la pancia sottosopra, 1515 vide tutti loro passare attraverso un varco di pochi millimetri più ampio del grosso corpo del mezzo, quindi si trovò faccia a faccia con il suo nuovo capo che le gettava in grembo una manciata di piccoli oggetti metallici, gelidi al tatto e pesantissimi.

    – Come te la cavi con le palle, 1515? – sbraitò, mentre riforniva di bombe anche il coniglio.

    – Veramente io… – 1515 spalancò gli occhi. Non si aspettava di essere messa in prova subito. Non aveva mai lanciato una bomba in vita sua.

    Immaginò che fosse come con le pietre.

    – Come si accendono?

    – Basta lanciarle. Il gioco è: colpisci la polizia. Vediamo cosa sai fare!

    La risata di Vecchia Road si propagò nella vettura elegante come un grido di guerra mentre l’automobile sbandava per evitare due mezzi pieni di sbirri che giungevano frontalmente. Altri ne arrivavano dalle altre direzioni.

    Alcuni proiettili forarono il cofano, altri rimbalzarono sui fianchi rinforzati e sul parabrezza con un rumore assurdo.

    Il cuore in gola, 1515 imitò il coniglio e azionò la discesa del cristallo elettrico, quindi si sporse e prese la mira.

    5

    6 mesi dopo

    La pioggia scendeva in enormi gocce inanellate e bagnava il mondo di quel particolare argento sporco tipico dei temporali.

    Col naso incollato al vetro della finestra, 1515 osservava i lampi lontani sfregiare le volte del cielo, lo sguardo perso tra le cataste di nubi, tinte di ogni sorta di grigio e viola.

    Aveva sempre amato la pioggia, forse per quel senso di libertà che le trasmetteva a furia di scendere, precipitare, lanciarsi dalle altezze fino a schiantarsi a terra in maniera del tutto incoerente, suicida.

    O forse per il semplice fatto che veniva da fuori.

    1515 era nel suo intimo convinta che le gocce di pioggia possedessero memoria di ciò che avevano visto cadendo giù da tanto in alto e, nell’ammirarne le danze vaporose, immaginava di ascoltarle raccontare la storia del mondo.

    Le sentiva davvero.

    Forse anche perché era fatta di metanfetamina.

    – Che hai deciso con quella scopa? Non sei qui in vacanza. Questa sala fa schifo, datti da fare ragazzina che stasera c’è lo spettacolo di giocolieri nudi per Nonnina. Sai che detesta le palle di polvere. Vuoi forse farla infuriare?

    Vecchia Road la sorprese a sognare davanti alla finestra e dopo averle rivolto uno sguardaccio proseguì verso il centro della stanza dei ricevimenti, dove l’aspettavano alcune persone in piedi accanto a un tavolo.

    – Guardavo la pioggia. – disse 1515 non ascoltata e, con un sospiro, ricominciò a spazzare in maniera meccanica il pavimento.

    Da un paio di mesi spacciava MDMA ai party illegali tre volte la settimana.

    Il resto del tempo lo trascorreva nel palazzo sede dell’Organizzazione, al servizio di quanti vi abitavano, in particolar modo di Vecchia Road che solo per il fatto di averla trovata si arrogava il diritto di schiavizzarla a ogni modo.

    Il bello era che a vagare negli spazi infiniti del palazzo si potevano fare incontri interessanti e uno di questi era stato Dust. Il chimico.

    Un simpatico tipo che conosceva alla perfezione tutti i tipi di droghe e che volentieri gliele faceva provare quando la incontrava.

    Dust aveva sempre qualche cosa di interessante in tasca.

    1515 fece una smorfia in direzione del gruppetto di persone che parlavano accanto al divano che in genere occupava il boss che tutti chiamavano Nonnina.

    Frequentando l’Organizzazione, 1515 aveva imparato che non era Vecchia Road il capo. E, se questo all’inizio le era sembrato strano visto il carisma di quest’ultima, scoprire che al comando dell’Organizzazione c’era invece una vecchina grassissima ed elegante che veniva trasportata di peso da giovani prestanti tutte le volte che aveva qualche cosa da dire alla sua truppa, l’aveva del tutto sconvolta.

    Quel luogo, all’apparenza caotico, si reggeva in realtà su poche ferree regole.

    La principale era quella del nome.

    Nessuno all’interno dell’Organizzazione usava il proprio nome di battesimo ma uno fasullo, inventato da Vecchia Road in persona o da Nonnina, che pareva provare una sorta di piacere perverso nel crearne di assurdi.

    1515 non aveva ancora ottenuto il battesimo che riteneva il suo periodo di apprendistato ancora insufficiente per consacrarla una di loro.

    Così tutti per chiamarla adoperavano il codice che era stato il suo identificativo al riformatorio.

    A 1515 non dispiaceva essere chiamata con un nome numerico. Si riconosceva in quelle cifre. Ci era affezionata.

    Certo, dopo avere assistito a vari battesimi nella sala grande, desiderava tanto averne uno tutto suo: un nome nuovo per una vita nuova, ma quel momento pareva non arrivare mai.

    Dust le fece l’occhiolino dall’altra parte della sala. Era appena entrato trascinandosi dietro un carrellino di metallo ricolmo di piccoli oggetti, ciotole, fogli di plasticarta zeppi di numeri.

    1515 rispose al saluto con una linguaccia e con un cenno rapido della mano. Aveva finito la roba.

    Le metanfetamine possedevano effetti eccitanti ed entactogeni molto forti, ma non psichedelici o almeno non sufficientemente psichedelici.

    Le davano uno sballo insoddisfacente da quel punto di vista e non capiva come potesse la gente alla quale la vendeva, amare quella roba.

    Lei non desiderava scappare dalla realtà: quello che più amava era vederla distorcersi fino quasi a spezzarsi.

    Durante una delle conversazioni con Dust, quest'ultimo le aveva confidato che stava lavorando a qualcosa di pazzesco che le avrebbe fatto assaggiare quanto prima. L’aveva chiamata la vera psichedelia. 1515 non vedeva l’ora di assaggiare la novità.

    Forse Dust stava blaterando con Vecchia Road e il maggiordomo proprio del nuovo prodotto. Chissà.

    Con in testa aspettativa e il suono dell’acqua che lavava la città, 1515 riprese a spazzare.

    6

    – Aspetta aspetta, Dust, non ho capito bene: un passo avanti nella psichedelia, è questo che stai dicendo? Che sei riuscito a sintetizzare la sostanza del secolo? Del millennio? In grado di…

    – Sì. Sto dicendo proprio questo, Pongo Bill. Aspettavo di essere sicuro della risonanza degli effetti, prima di parlare ufficialmente della nuova sostanza, ma questa sera credo di poterlo fare con orgoglio e sicurezza.

    Dust indirizzò un sorriso brillante a Pongo Bill che avvicinò una sedia al tavolo delle riunioni, accanto a Vecchia Road, e sedette, come sempre elegantissimo in un tight grigio perla.

    La vecchia stava digitando qualcosa sul suo tablet ma mentre Dust e il maggiordomo parlavano si era bruscamente interrotta per ascoltare.

    – Sono davvero felice e fiero di presentarvi la DMMM – continuò Dust inforcando i suoi occhiali metallici.

    Vecchia Road storse la bocca e increspò le sopracciglia ma non disse nulla. Osservò, invece, il capo chimico dell’Organizzazione aprire una ciotolina

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