Antichi misteri e piccole manie
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Una sana ironia pervade i racconti, riportando i temi trattati sul filo della memoria costellata da un vissuto ricco di esperienze proprie dell’autrice, la quale affronta con uno spiccato senso critico episodi e personaggi diffidando il lettore dal credere vi sia una verità assoluta e immutabile. Nella semplicità della saggezza popolare sta la formula magica per scacciare vizi e manie figlie di quella vanità, cupidigia, lussuria e falsità che in piccoli dosi ognuno di noi, dentro di sé, possiede. Riconoscibile l’impronta eclettica della scrittrice sempre alla ricerca di nuove sfide di stile da affrontare.
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Antichi misteri e piccole manie - Rosa Galli Pellegrini
minuscola
Angelino e il trattore
Lo chiamavano Angiolino, ancora adesso che aveva più di sessant’anni, ma all’anagrafe si chiamava Giovanni. Il soprannome, o meglio il secondo nome, gli veniva da quando, bambino, per i suoi riccioli biondi e per i suoi occhioni celesti il pievano lo metteva sempre a fare l’angelo nella processione della festa del paese.
Un angioletto davvero perché era un bimbo buono e mite, anzi forse troppo remissivo e talvolta succube dei suoi compagni, ragazzotti rumorosi e maneschi che si scatenavano in giochi turbolenti per le stradine del piccolo borgo. Il pievano, che era anche suo lontano parente, aveva per lui un occhio di riguardo e, comunque, a lui non aveva motivo di distribuire gli scappellotti che non lesinava agli altri chierichetti. Angiolino aveva anche una certa propensione alla riflessione, per cui il pievano gli insegnò a memorizzare delle piccole poesie e perfino a leggere su certi vecchi libri di cui gli commentava le illustrazioni. Morta la madre, era rimasto solo avendo perso il padre prima della sua nascita, come gli aveva raccontato il pievano. In paese, la gente si era conformata a questa versione, anche se nessuno ricordava di aver mai conosciuto il padre di Angiolino.
Al tempo in cui era giovane, nei giorni attorno al Natale, era usanza del paese e dei villaggi limitrofi riunirsi la sera a veglia e ospitare a turno non solo ragazzi, ma chiunque passava di casa in casa a cantare le befane. In quella occasione si confezionavano abiti di vaga foggia medievale, i capi si cingevano di corone di carta dorata, si confezionavano spade di legno dipinte di vernice argentata e si recitavano scenette tratte da antichi racconti o tolti alle storie della Divina Commedia: Pia de’ Tolomei, il Conte Ugolino. Le befane erano in rima, ogni recitante aveva la sua specializzazione e si esercitava ogni anno con cura per perfezionare la sua esibizione. Il pievano aveva incoraggiato Angiolino a declamare nelle recite natalizie del paese le poesie che così facilmente imparava a memoria. Il timido giovane era stato accolto con benevolenza nella compagnia e gli avevano affidato d’autorità la parte del principe Sigismondo, per via dei suoi splendidi occhi azzurri. E Angiolino si faceva sempre onore, ricordando senza errori la sua parte e, nel caso, suggerendo sottovoce ai compagni le battute che quelli, spesso e volentieri, si dimenticavano durante la recita, specie se, prima, si erano dati coraggio con qualche bicchiere di troppo nell’osteria del Bastiano, dove si preparavano e si vestivano con gli abiti di scena.
Finita la stagione delle befane, il giovanotto si ritirava nelle sue faccende domestiche, frequentava poco lo struscio, il passeggio del pomeriggio in paese, non sembrava avesse interesse a farsi la fidanzata. Il parroco, diventato ormai vecchio, se ne preoccupava sempre di più e rifletteva sul da farsi. L’idea migliore che gli venne fu di guardarsi attorno e di cercare la moglie adatta per il suo Angiolino.
La scelta cadde su una certa Mena, all’anagrafe Filomena, figlia unica di due contadini abbastanza benestanti da avere un pezzo di terra, una chiudenda di olivi sufficiente al commercio di un buon olio, un ettaro o poco più di vigna, un paio di mucche, insomma gente abbiente nell’economia del luogo. La Mena non era certo la più bella del paese, neanche a pensarlo, ma era giovane, alta di statura, robusta anche se ossuta. Non fosse stato per il suo carattere volitivo e aggressivo, e per il volto sempre accigliato, poteva anche far dimenticare la fronte bassa, gli occhi troppo vicini uno all’altro e il mento prominente. Il parroco ci pensò su, considerò l’agiatezza della famiglia e l’indigenza dell’Angiolino, al quale poco o niente sarebbe andato dei miseri beni dello zio parroco alla sua morte. Si accertò in confessionale che la ragazza fosse virtuosa e illibata, e che nessun altro giovanotto avesse avuto fino ad allora il coraggio di affrontare una relazione con la Mena. Parlò con i genitori, si accordò sulle condizioni di un matrimonio, accettò la proposta dei futuri suoceri di prendersi in casa il genero e di farsi affiancare nella conduzione del podere; il padre disse: Stiamo diventando vecchi e l’Angiolino sarà come nostro figlio
. Non gli parve vero, al buon uomo, di essersi trovato un bracciante a gratis a curare olivi e vigna e, specialmente a guidare l’aratro a braccia dietro alle due mucche nei filari della vigna.
Interpellato e messo di fronte ai grandi vantaggi che un’unione simile gli avrebbe portato, l’Angiolino alzò le spalle come sempre faceva, disse come volete voi, zio!
e si fece portare all’altare. Tutto il paese venne alla messa dello sposalizio e molti furono invitati a cena nel podere del suocero, il quale non badò a spese nell’euforia di aver preso due piccioni con una fava: di aver accasato l’improponibile figliola e di aver assunto un giovane robusto per il lavoro dei suoi campi.
Nei primi anni, il progetto dei due proponenti, il parroco e il contadino, sembrò aver dato buoni risultati: il giovane lavorava sodo sotto la ferula del suocero, la giovane sembrava meno collerica di prima, specialmente dopo che le era nata una bambina. Angiolino, secondo i desideri del padrone di casa, doveva adoperarsi per fare il nipote maschio. Ma la quiete durò poco tempo, il contadino si ammalò di un brutto male, la moglie e la figlia non si fidarono delle capacità imprenditoriali dell’Angiolino. Lasciato solo a dirigere il podere senza gli ordini giornalieri e perentori del suo padrone, Angiolino non sapeva più cosa fare, da che parte cominciare e così fu che la famiglia decise di vendere il podere.
In verità fu la Mena a prendere le redini della situazione. Col ricavato della vendita comprò un piccolo fondo accanto al podere con un alloggio al piano di sopra, riservato a nonna e nipote, allestì una cucina, mentre sul retro vi era una camera da letto per sé e per il marito. Trasformò il pianterreno in una, neanche tanto piccola, osteria e mescita di vino. Ci venivano volentieri i contadini dei dintorni a veglia, e seduti attorno a un fiasco di vino chiedevano ad Angiolino di recitare per loro qualche sua befana. A lui, non pareva vero, si rivedeva giovane, vestito da principe Sigismondo e declamava con enfasi lanciando sguardi appassionati con i suoi occhioni blu. Finché veniva fuori la Mena dal retro e redarguiva prima il marito e tu, non hai niente da fare?
e poi anche i clienti sfaccendati, sarà ora di tornare a casa, dalle vostre mogli!
strillando.
Ma la Mena ci sapeva fare in cucina e nel giro di poco tempo la mescita si trasformò, prima in una semplice trattoria dove venivano volentieri per un bicchiere di rosso e una bruschetta con affettati gli operai edili che lavoravano nei dintorni, dato che il paesino si allargava in villette bifamigliari proprio verso il casolare della Mena. Poi i tavoli, da sei divennero dieci e poi dodici, la Mena confinò di prepotenza la madre in cucina a preparare ribollite e fettuccine, la domenica si faceva il conigliolo e la rostinciana al forno e il pollo alla cacciatora, mentre la bimba fu istruita a badare al pollaio e alla conigliera allestiti dietro casa. A tutto soprintendeva la padrona, ad Angiolino fu confezionata una specie di divisa da cameriere, con il pantalone nero, la camicia bianca e un papillon nero. Le sue mansioni erano molteplici: i lavori pesanti, come trasportare le cassette di acqua e di vino, lavare ogni sera il pavimento del locale, curare il giardinetto attorno, badare all’orto, pulire pollaio e conigliera, e, naturalmente, servire i commensali in tavola.
Angiolino spesso si confondeva, ma l’urlo contenuto ancorché perentorio della moglie lo rimetteva subito in carreggiata. Non c’era più tempo per cantare le befane, finiti i bei tempi in cui curava con calma vigna e olivi ai ritmi pacati del suocero e all’andamento delle stagioni. Adesso era tutto un correre, un urlio costante che gli risuonava nelle orecchie: Angiolo, dove diavolo sei? Angiolo, manca l’acqua, dove hai la testa? Angiolo, pulisci i tavoli! Angiolo, presto, ti ho detto il coniglio al sette e le fettuccine al nove! E tu mi fai il contrario!
La sera, quando era giornata di calma si andava a dormire all’una; se era sabato o domenica si faceva anche le quattro o le cinque del mattino. La vecchia madre e la bimba piombavano esauste sul loro letto, Angiolino si trascinava, soltanto la Mena sembrava avere la resistenza di un carro armato. E non mancava neanche di brontolare, rimproverando al marito le sue rare e modeste prestazioni coniugali, fatto che accomunava alla sua incapacità di portare a buon fine i semplici lavori quotidiani. Sei un inetto: buono a poco in casa e meno ancora a letto!
L’unico rilassamento alla tensione giornaliera, Angiolino lo provava quando la moglie lo mandava a badare a un piccolo appezzamento di terra che era rimasto dalla vendita del podere. Era un terreno scosceso e arido che il compratore a ragion veduta non aveva voluto. La Mena aveva costretto il marito a piantarvi degli alberi da frutta che andavano curati in primavera e in estate; ovviamente il compito era stato affidato all’Angiolino, il quale, fra tutte le mansioni che gli erano cadute sulla schiena, aveva accettato questa con piacere: lontano dalla trattoria, lontano dai berci della Mena, nel silenzio del piccolo campo. Ci andava appena riusciva a eludere la sorveglianza della moglie, gli piaceva andar su e giù per il campo, recitando ad alta voce il suo ruolo maggiore, la tirata del principe Sigismondo. Faceva anche le parti degli altri nelle befane, della Pia de’ Tolomei, di Paolo e Francesca. Quando ramava, nel suo palcoscenico immaginario, la sistola della pompa a mano diventava la spada del principe e ogni getto uccideva il malvagio nel vecchio sceneggiato.
Ma la frutta andava trattata sempre di più, a causa delle malattie che aumentavano di anno in anno, andava protetta dagli uccelli, i peschi venivano colpiti dalla bolla, i ciliegi venivano attaccati dai merli, l’erbaccia che cresceva tra i filari doveva essere tagliata: ci voleva l’attrezzatura che adesso non c’era più, venduta assieme al podere. Angiolino si fece coraggio e ne fece cenno alla moglie in un momento di buona; la Mena disse che ci avrebbe pensato ma che adesso non era il caso di spendere altri soldi, che c’erano degli impegni da rispettare, fornitori da pagare. Angiolino se ne tornava nel suo campo, curvo a tagliare le erbacce con il falcetto, arrampicato sullo scaleo a ramare gli alberi a mano. Se ne tornava a casa con le ossa rotte, subito investito dalle cento mansioni che la Mena gli aveva già riservato. Lo aspettava sulla soglia della trattoria, investendolo al suo primo apparire: Dove sei rimasto finora? Oh, gente! non ne fa una buona, e io che sono qui dall’alba a faticare. Hai portato le casse dell’acqua? Ci sono i vetri da lavare, finire di apparecchiare. Fra poco arriva la gente, e tu sei ancora lì a gironzolare
.
I clienti abituali, quelli del paese che venivano per un bicchiere prima di cena, gli dicevano tutti che, ormai, da soli e senza l’attrezzatura non si poteva più lavorare la terra. Perché non comprava un trattore? A cingoli, visto che il suo terreno era scosceso e poco agibile, qualche attrezzo, il minimo indispensabile, una ramatrice, un trinciastocchi e poi il lavoro se lo sarebbe fatto in un quarto del tempo che usualmente impiegava. Gli dicevano: "Insisti con la Mena, a quella i