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Madame Sourdis e altri racconti
Madame Sourdis e altri racconti
Madame Sourdis e altri racconti
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Madame Sourdis e altri racconti

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Madame Sourdis e altri racconti, di Émile Zola, qui tradotti per la prima volta in italiano da Paolo Fontana, con ampia prefazione di Pieluigi Pellini, completa la prima edizione italiana dei testi raccolti e usciti già nel 2014 col titolo Naïs Micoulin e altri racconti in questa stessa collana «Itaca Itaca».  Anche questo volume propone un’ampia e significativa scelta dei testi narrativi inediti che Zola dal gennaio del 1875 fino a dicembre del 1880, invia all’importante rivista liberale sanpietroburghese, «Viestnik Evropy» («Il Messaggero d’Europa»). Si tratta dei racconti di Zola che Roger Ripoll, l’editore dei racconti zoliani nella prestigiosa «Bibliothèque de la Pléiade», ha raggruppato nel 1976 nella sezione Contes et nouvelles 1875-1880. Tra questi sette racconti spicca “la bellissima Madame Sourdis, l’unico suo grande testo narrativo che Zola non ha mai raccolto in volume e che… da sola basterebbe a garantire a Zola un posto non di secondo rango fra gli autori di narrativa breve… una sorta di enciclopedia ironica e aporetica delle diverse teorie sull’arte, delle diverse rappresentazioni topiche dell’artista, che si contrappongono, spesso sovrapponendosi paradossalmente, nel discorso culturale del diciannovesimo secolo... Infine, la violenza sottesa ai rapporti di coppia, in cui la sopraffazione è norma, soprattutto se il vincolo matrimoniale unisce due personalità forti è uno dei tanti ambiti tematici in cui la letteratura dell’Ottocento – non solo naturalista – anticipa le più conturbanti scoperte della psicologia e della psichiatria del secolo successivo. Specificamente zoliana, invece, è l’intuizione dell’aggressività distruttrice e possessiva che può celarsi nell’apparente altruismo della bontà: sicché la portata di Madame Sourdis oltrepassa di molto i limiti di un sotto-genere, pure importantissimo, come il Malerroman” (dalla Prefazione di Pierluigi Pellini).
LanguageItaliano
Release dateApr 12, 2017
ISBN9788868225544
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    Book preview

    Madame Sourdis e altri racconti - Èmile Zola

    Collana

    Itaca Itaca

    diretta da Mauro F. Minervino

    ÉMILE ZOLA

    Madame sourdis

    e altri racconti

    Prefazione di

    Pierluigi Pellini

    Traduzione di

    Paolo Fontana

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    ISBN: 978-88-6822-554-4

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    A cadenza mensile, da gennaio del 1875 fino a dicembre del 1880, Zola invia a un’importante rivista sanpietroburghese, «Viestnik Evropy» («Il Messaggero d’Europa»), la sua corrispondenza: si tratta di pezzi ampi (ventiquattro cartelle), ben pagati, e di argomento libero, fra cui prevalgono i saggi su politica, società e cultura francesi, e gli interventi di critica letteraria (fra gli altri, parte di quelli che, nel 1880, vanno a costituire il più celebre volume teorico dell’autore, Il romanzo sperimentale). I testi narrativi sono meno frequenti: di norma svolgono la funzione di ‘tappabuchi’ per i mesi estivi, quando l’attualità politico-mondana e letteraria langue, o lo scrittore, in villeggiatura al mare, ha difficoltà a seguirne gli sviluppi.

    Lo stesso Zola, che praticava una gestione economicamente molto oculata della propria produzione letteraria (viveva della propria penna: prima come giornalista e poi come romanziere), ha sistematicamente riciclato sulla stampa francese i testi originariamente usciti in traduzione; e ha raccolto in volume, nel 1882 (Le Capitaine Burle) e sul finire del 1883 (Naïs Micoulin), la maggior parte dei racconti scritti per il pubblico russo. I due libri sono stati tradotti in italiano da Paolo Fontana e sono usciti, con una mia prefazione, rispettivamente per Monte Università Parma (nel 2012, con il titolo Per una notte d’amore e altri racconti) e per Luigi Pellegrini Editore, in questa stessa collana, «Itaca Itaca» (nel 2014: Naïs Micoulin e altri racconti).

    Pur non essendo, al contrario delle due precedenti, una raccolta d’autore, quella che si presenta ora con il titolo Madame Sourdis e altri racconti idealmente completa la trilogia, sempre ad opera dello stesso traduttore: comprende i testi che Roger Ripoll, l’editore dei racconti zoliani nella prestigiosa «Bibliothèque de la Pléiade», ha raggruppato nel 1976 nella sezione Contes et nou-velles 1875-1880; e ha inevitabilmente natura – diciamolo subito – più eteroclita e meno coerente. Proprio per questo, tuttavia, dei tre volumi è per certi versi, se non il più appassionante alla lettura, forse il più interessante per la varietà dei generi letterari praticati e per l’imprevedibile libertà dello stile e dei temi.

    A rigore, sono due soltanto le novelle ricomprese nel libro, L’attacco al mulino e Madame Sourdis. La prima non conta probabilmente fra le pagine più riuscite di Zola, eppure è forse il più noto fra i suoi pezzi narrativi brevi, perché ha avuto la ventura di essere inclusa nel celeberrimo volume collettivo Le serate di Médan, uscito nel 1880, nel pieno della battaglia per il «romanzo sperimentale», con l’intento smaccatamente propagandistico di imporre all’attenzione del pubblico il gruppo naturalista. La seconda è la bellissima Madame Sourdis, l’unico suo grande testo narrativo che Zola non ha mai raccolto in volume e che, addirittura, dopo la pubblicazione in russo (aprile 1880), ha atteso vent’anni prima di essere offerto, in rivista, al pubblico francese (sulla «Grande Revue», il 1° maggio del 1900).

    Le ragioni di questa sorte editoriale opposta e per molti versi paradossale sono tutte contingenti: la scelta provocatoria della guerra franco-prussiana del 1870 come tema comune del volume médaniano, che si presenta come un’impresa collettiva nata dalla fervide discussioni nella casa di campagna di Zola (lungo la Senna, poco a nord di Parigi), e che assembla invece, un po’ di fretta, testi nati in occasioni diverse, ha indotto Zola a tirar fuori dal cassetto L’attacco al mulino, un testo scritto nel 1877, apparso lo stesso anno in Russia, e poi già riproposto ben tre volte in francese su tre diverse testate giornalistiche. Che la novella non sia priva di qualità, proverò a dirlo più avanti; di certo, però, non poteva reggere il confronto con quell’assoluto capolavoro che è Boule de Suif (titolo variamente tradotto in italiano: alla lettera Palla di Sego; o Pallina), il racconto offerto dal giovane Maupassant alle Serate di Médan: di qui nasce il luogo comune critico – non privo di qualche fondamento oggettivo, ma troppo spesso assolutizzato – secondo cui nella narrativa breve l’allievo avrebbe sùbito, e di gran lunga, superato il maestro; e anzi quest’ultimo, certo immenso romanziere, sarebbe in realtà novelliere alquanto mediocre.

    A mettere in dubbio quest’asserzione troppo netta, basterebbe appunto un testo denso e affascinante come Madame Sourdis, la cui lunga quarantena, non certo imputabile all’insoddisfazione estetica dell’autore, è banalmente dovuta all’imbarazzante certezza che i contemporanei, in Francia, avrebbero riconosciuto, nel pittore protagonista, Ferdinand Sourdis, e in sua moglie Adèle, lo scrittore realista Alphonse Daudet e la sua consorte Julia. Con Daudet, come con Edmond de Goncourt, Zola aveva rapporti al tempo stesso di alleanza e di rivalità, di insofferenza e di affetto. Il ritratto per interposta persona, a tratti feroce e in parte caricaturale, proposto da Madame Sourdis avrebbe messo fine a una lunga, e sia pure complicata, amicizia; solo dopo la morte di Daudet (1897), il testo poteva uscire impunemente. Troppo spesso si sottovaluta il peso che le

    aleatorie vicissitudini del quotidiano possono avere sulla sorte editoriale dei testi e sulle conseguenti ricostruzioni storico-letterarie.

    Degli altri sei testi compresi nel presente volume, è arduo definire la natura: appartengono al filone, fiorente in tutto il secondo Ottocento, del giornalismo di costume, che ricorre sistematicamente al bozzetto narrativo e di volta in volta si caratterizza per le sfumature satiriche, per l’impegno di critica sociale, per la bonaria ironia, o per l’affettuosa rievocazione memoriale (con scarti frequenti da un registro all’altro); e che oscilla, con volubilità a volte stupefacente, fra la graffiante pittura realistica e la stanca ripetizione dello stereotipo.

    Più che mai è opportuno ricordare, leggendo questi pezzi estravaganti, che la loro originaria destinazione era la rivista di San Pietroburgo. E infatti Zola, che era scrittore spregiudicato e sempre pronto a far cassa, ma anche acuto critico di se stesso, in due casi decise addirittura di non dar corso alla pubblicazione della versione francese. Del testo che apre la raccolta, La settimana di una parigina, non esiste l’originale: perduto il manoscritto, mai uscito in patria, è stato ritradotto dal russo dopo la morte dell’autore – tanto che, in un’ottica strettamente filologica, sarebbe lecito qualche dubbio sull’opportunità di includerlo nel corpus zoliano (stesso discorso per una buona metà dei Parigini in villeggiatura, serie di brevi narrazioni solo parzialmente ripubblicate da Zola in francese).

    In genere, vale l’avvertenza che tanto più l’autore si prodiga nell’accreditare la veridicità del racconto, tanto più fa ricorso a luoghi comuni un po’ stantii, nella convinzione che lo sfavillante esotismo (a rovescio) dell’alta società parigina avrebbe facilmente ingannato il lettore russo – così all’inizio della Settimana di una parigina, dove il narratore finge di avere accompagnato la nobildonna in questione nelle sue futili e indaffarate peregrinazioni mondane: «non mi resta altro da fare che riportare sulla carta quello che ho visto e sentito». Eppure, anche in un brano di satira sociale un po’ facile come questo, non mancano le osservazioni ferocemente memorabili: come la frecciata a un filosofo spiritualista alla moda, Elme-Marie Caro, discepolo di Victor Cousin, «la cui specialità consiste nel rendere Dio confortevole» per i rampolli dell’alta società. Mentre l’ironia a volte cela un segreto fascino per i profumi, i colori, le musiche dei balli eleganti, per quell’«aroma di ricchezza» che sembra sublimare la frivola vacuità dell’esistenza aristocratica, per quell’eleganza che trasfigura il pubblico dell’Opéra in «un quadro vivente del Veronese».

    Il principio compositivo della Settimana di una parigina è meramente cronologico: il racconto della vita quotidiana della baronessa protagonista è scandito dalla successione dei giorni della settimana. Uno scarto strutturale apparentemente minimo, e in realtà decisivo, si registra invece con il secondo testo della raccolta, Come ci si sposa, che fa da pendant a Come si muore, un altro articolo sanpietroburghese, incluso però da Zola nel Capitaine Burle. Qui, la successione dei bozzetti narrativi è scandita da una progressiva discesa lungo la scala sociale, cosicché il giornalismo di costume si carica di intenzioni, diremmo noi oggi, socio-antropologiche.

    In generale, la descrizione naturalista della società contemporanea, come è esemplarmente praticata da Zola nei romanzi dei Rougon-Macquart, risponde a un duplice, e solo apparentemente contraddittorio, presupposto teorico: per un verso, ogni ambiente, ogni ceto, osservato nella sua peculiare unicità, studiato iuxta propria principia, appare isolato (di norma addirittura impenetrabile) e perciò caratterizzato all’insegna dell’irriducibile singolarità; per un altro verso, il cinismo interessato che caratterizza i comportamenti dell’uomo moderno si distribuisce quasi equamente in ogni milieu, senza reali distinzioni economiche e socio-culturali. La superficiale differenziazione delle forme sociali si ricompone in disforica unità al più profondo livello della caratterizzazione antropologica.

    In Come ci si sposa, questa duplicità trova un’esemplificazione perfetta (anche se un po’ meccanica, a tratti didascalica) nelle quattro diverse scene matrimoniali, che sono precedute da un discorso introduttivo, di andamento saggistico, teso a individuare le cause principali della crisi dell’istituto matrimoniale nel prevalere frenetico degli interessi economici (l’uomo moderno ha «la carne addormentata per la fatica della sua battaglia quotidiana») e nella disparità dell’educazione fra i sessi (la denuncia dell’ignoranza in cui sono tenute le fanciulle, anche nella buona società, è topos polemico fra i più frequenti, e fra i più importanti, in Zola).

    La vena satirica dello scrittore, che pochi anni dopo avrebbe pubblicato un romanzo borghese bellissimo e graffiante come Pot-Bouille, si esercita di preferenza sulla classe media: dove una donna trova naturale «che la sposino per i suoi soldi, perché i soldi, in fin dei conti, sono tutto nella vita»; e una coppia di bottegai disamorati continua «a dormire insieme per evitare un doppio lavaggio di lenzuola»; mentre i coniugi proletari, che tradiscono un’evidente parentela (certo in minore, ma non per questo meno interessante) con la Gervaise e il Coupeau dell’Assommoir, pur finendo nel degrado etilico conservano un residuo slancio erotico: «ci sono, fino alla morte, sotto le lenzuola del letto ridotte in cenci, delle notti in cui l’amore mette la carezza del suo battito d’ali».

    Il confronto con la conclusione tetra e senza speranza del grande romanzo sugli operai parigini rivela una contraddizione illuminante: la cronaca giornalistica in forma di novella consente a Zola di riproporre stereotipi romantici (sulla vitalità un po’ animalesca, ma nella sostanza positiva, dei proletari, contrapposta alla tendenziale frigidità borghese; sulla maggiore autenticità di sentimento degli umili, perfino in condizioni di degrado e violenza) che il naturalismo rigoroso dei Rougon-Macquart negli stessi mesi smentisce. È una forma di spiazzante ‘polifonia interna’ all’opera di Zola che, a posteriori, rende ancora più stupefacente la lucida crudeltà dei romanzi maggiori.

    Analoga scansione di tipo sociale, ma in ordine diverso (si inizia da un parroco di campagna ignorante, superstizioso e bruciato dal sole come un contadino; si conclude con un vescovo dedito all’intrallazzo politico), nel pezzo successivo, Ritratti di preti: dove l’acceso anticlericalismo non impedisce a Zola di caratterizzare con acume anche la fragile umanità o la complessità ideologico-psicologica di alcuni dei prelati descritti; né di strizzare l’occhio, nel terzo ritratto, a un capolavoro di Balzac come Il parroco di Tours.

    Infatti, don Gérard, placido amante della buona tavola, è precisamente parroco nella città ai bordi della Loira, e come il suo illustre antenato letterario, don Birotteau,

    in conseguenza di troppo abbondanti libagioni soffre di gotta. Ma se nel personaggio balzachiano l’egoistica ingenuità induceva inettitudine sociale e generava una sorte tragica, il ben più abile don Gérard di Zola adotta una strategia mondana e spregiudicata nei confronti dei borghesi miscredenti della città: «troppo intelligente per sperare di convertirli», si accontenta di un «atto di deferenza davanti al cattolicesimo».

    Invece, il reverendo de Villeneuve, protagonista del quarto bozzetto zoliano, è potenzialmente un personaggio dell’Assommoir, se è vero che l’«immenso casermone di gesso diviso in minuscoli appartamenti», nel popolare (al tempo) faubourg Saint-Antoine, in cui cerca invano di portare il verbo cristiano, assomiglia molto al celebre caseggiato proletario immaginato da Zola in rue de la Goutte-d’Or. La frustrante vicenda del prete di periferia, inviso alle gerarchie ecclesiastiche e sbeffeggiato dai poveri che si ostina a voler aiutare e convertire, avrebbe potuto figurare nel romanzo di Gervaise e Coupeau: se lo scrittore l’ha confinata in questo bozzetto giornalistico, è per fedeltà al partito preso naturalista dello studio monografico, che impedisce ai rappresentanti di ceti sociali diversi di metter piede nell’universo della plebe operaia (nell’Assommoir, i preti si incontrano solo in chiesa, dove celebrano nozze e esequie dei poveracci con fastidio, tirando via la messa e non dimenticando di farsi pagare). Ancora una volta, più di un’ipotetica mimesi fedele della realtà storica, conta nelle scelte testuali di Zola la considerazione dei diversi generi letterari di volta in volta praticati.

    Duplice, e notevolissimo, è l’interesse del quarto pezzo contenuto nel presente volume, Le tre guerre: un interesse relativo all’ideologia dello scrittore e insieme, ancora una volta, all’ambivalenza del genere letterario.

    L’attacco saggistico, aggiunto nel 1892 (dopo aver scritto il grande romanzo bellico dei Rougon-Macquart, La Disfatta), non lascia adito a dubbi sulla posizione dello scrittore naturalista: «la guerra è una triste necessità». Pesa, certo, l’atmosfera di cupo revanscismo di cui è impregnata tutta la cultura francese nei decenni successivi alla disfatta con la Prussia: dichiararsi antimilitarista, o pacifista, poteva passare per alto tradimento; ma assai più conta il positivismo provocatorio di uno scrittore che preferisce sempre dire una verità sgradevole, e accettare appunto una «triste necessità» (interpretata alla luce di un approssimativo darwinismo sociale), piuttosto che dar credito allo svenevole umanitarismo dei «filosofi inteneriti», di scuola ovviamente romantica (esemplarmente incarnati nell’odiosamato Victor Hugo): «Una menzogna è cattiva per il solo fatto di essere una menzogna». Come ribadisce la celebre Lettera ai giovani compresa nel Romanzo sperimentale, positivismo, naturalismo, scienza (e non retorica, poesia, patriottismo verboso) sono gli strumenti che, secondo Zola, avrebbero consentito alla Francia di riprendersi l’Alsazia e la Lorena.

    I tre brani narrativi che evocano appunto Le tre guerre (quella di Crimea del 1853-’56, la campagna d’Italia del 1859 e infine la sconfitta di Sedan del 1870) sono scritti in prima persona e attingono per molti dettagli all’esperienza autobiografica dell’autore; senza timore, tuttavia, di manipolarla assai liberamente. Gli studiosi hanno segnalato, non senza qualche stupore, le numerose incongruenze fra la vita dell’autore e il racconto: per dirne una, al contrario del personaggio che dice «io», Zola non era a Parigi durante le drammatiche settimane dell’assedio; e la storia dei due fratelli, Julien e Louis, non trova riscontri diretti fra le amicizie del romanziere.

    Il fatto è che le esigenze affabulatorie del giornalismo ottocentesco inventano precocemente quel tipo di scrittura, in gran voga agli inizi del nostro millennio, che nel 1977 un critico e romanziere francese – Serge Doubrovsky: inventore della parola, non certo della cosa – ha chiamato autofiction. Nello Zola cronista, l’autobiografia in varia misura romanzata invade con sorprendente disinvoltura la pagina di uno scrittore che, nei suoi testi teorici, nega quasi ogni diritto all’invenzione, dichiarando un’assoluta, quanto impossibile, fedeltà al reale; e la scrittura giornalistica offre una prima forma a motivi e temi che saranno rielaborati nei romanzi dei Rougon-Macquart (non solo nella Disfatta): così, per esempio, il racconto del reduce di Solferino, che dell’epica battaglia altro non ha visto che qualche scaramuccia e una pioggia torrenziale, sarà rielaborato in un memorabile racconto di veglia nel romanzo contadino, La terra.

    Il tema bellico ritorna nel brano successivo, L’attacco al mulino, il cui statuto letterario è assai meno ambivalente: è una novella di guerra assolutamente classica, in cui l’ambientazione lorenese e soprattutto il tono in apparenza bonario del racconto fanno pensare ai prodotti di consumo, al tempo celeberrimi, della prolifica coppia Erckmann-Chatrian (quelli dell’Amico Fritz).

    Il racconto si concentra su un unico episodio: l’assalto al mulino di Rocreuse, conquistato dai tedeschi e ben presto ripreso dai francesi – se tutti i lettori sanno che la guerra finisce malissimo per la Francia, il testo, come spesso accade, offre il risarcimento di una vittoria parziale, di un episodio di eroismo in sé concluso. E Zola non esita a mettere in scena tipi un po’ convenzionali, che tornano in moltissima letteratura (francese, ovviamente) sulla guerra del 1870, come il popolano di poche parole, ma avveduto e coraggioso (qui il mugnaio, Merlier), o l’ufficiale tedesco proverbialmente rigido e implacabile, nonostante qualche vago barlume di umanità. Inoltre, la trama fonde la vicenda militare con una storia sentimentale: il progettato matrimonio fra la figlia del mugnaio, Françoise, e il bel bracconiere Dominique, un immigrato belga senza arte né parte che suscita a lungo diffidenza fra i contadini di Rocreuse.

    Sono, questi, elementi che hanno indotto la critica – non del tutto a torto; ma nemmeno, credo, con piena ragione – a considerare L’attacco al mulino un prodotto attardato: un bozzetto bellico-rusticale piuttosto che uno studio naturalista. Eppure, un’analisi più attenta mostra che l’intento di compiacere i gusti del lettore medio è, se non assente, alquanto temperato dalle numerose modifiche, più o meno importanti, che Zola introduce nel collaudato canovaccio.

    Innanzitutto, l’eroe è straniero. Dominique che, da buon bracconiere, si rivela cecchino infallibile, fa nelle file tedesche molti più morti di tutto un drappello di soldati francesi regolari. Il fatto è che lui non combatte per un ideale di patria percepito (dai contadini di tutta la Francia; e per certi versi anche da Zola) come astratto e lontano: combatte per difendere l’incolumità della sua fidanzata e per mantenere il possesso del mulino che la ragazza gli porta in dote. Lo zelo e l’abnegazione in difesa di una Nazione che non è la sua sono nutriti dalla vista del sangue di Françoise, leggermente ferita dal fuoco tedesco; il coraggio non nasce da un’ideale o da una fede, ma da ragioni materiali: non avrebbe nulla contro i tedeschi, se questi non sparassero sulla sua donna e sul mulino del futuro suocero.

    La valorosa resistenza di Dominique, insomma, per un verso alimenta il topos dell’ingiusta sconfitta, riproposto da tanta consolatoria epica militare francese; per un altro verso invece lo ribalta: perché il protagonista non è francese; perché combatte per interesse privato, non per patriottismo. Eppure – ulteriore complicazione – il bracconiere innamorato è capace anche di eroismo sublime e assolutamente disinteressato: dopo essere fuggito per assecondare l’insistenza di Françoise, ricompare esattamente nel momento in cui i tedeschi stanno per fucilare Merlier (coincidenza, va da sé, degna di un vaudeville di quart’ordine; o appunto di una novella di Erckmann-Chatrian), e si consegna a morte certa. Di nuovo, però, non lo fa in nome di un astratto imperativo etico, bensì mosso da una privata riconoscenza nei confronti del ricco mugnaio che, contro l’opinione dell’intero villaggio, ha saputo riconoscere nel bellimbusto sfaccendato, e per di più straniero (sarebbe facile e perfettamente legittimo dare del racconto una lettura attualizzante!), qualità umane e lavorative di prim’ordine, tanto da accettare di dargli in sposa la figlia.

    Infine, il copione rusticale di amore fra i campi e difesa eroica del suolo francese si mescola in maniera assai originale a un canovaccio tragicamente romantico – e di per sé non meno scontato – di passione e morte. A nulla valgono prima l’eroismo e poi il sacrificio di Dominique: anche Merlier cade, vittima civile di «un proiettile vagante», nell’ultimo assalto, quello che consente ai francesi di riprendere possesso dell’ormai diroccato mulino, e che l’ironia feroce del narratore definisce «un bel combattimento». Cosicché, in conclusione, le grida di «vittoria» del capitano francese, a sua volta descritto secondo lo stereotipo dell’ufficiale abile, coraggioso e un po’ fanfarone, di fronte a Françoise «inebetita tra i cadaveri di suo marito e di suo padre», appaiono grottescamente stonate, configurando ante litteram uno scenario di quasi surrealista umorismo nero, e riscattando ad abundantiam ogni eventuale conformismo del racconto cui mettono fine.

    Come dell’intera Settimana di una parigina, di tre dei cinque bozzetti di cui si compongono I Parigini in villeggiatura – per la precisione il primo, il terzo e il quarto – è andato perduto il manoscritto e, in assenza di una pubblicazione in francese, la problematica inclusione nel corpus zoliano passa attraverso una ritraduzione novecentesca dal russo. Fra i pezzi compresi nella presente raccolta, è il più direttamente legato alle convenzioni del giornalismo di costume (nell’incipit, il pezzo è definito esplicitamente «questa cronaca»; e l’autore promette «una pagina strappata ai nostri costumi contemporanei»).

    Per stuzzicare la curiosità del pubblico sanpietroburghese, Zola sceglie infatti come argomento una voga relativamente recente: quella delle villeggiature di campagna, dei bagni di mare e dei soggiorni termali, che hanno avuto un primo decisivo impulso negli anni del Secondo Impero, per poi affermarsi definitivamente con la Terza Repubblica. Negli anni Settanta dell’Ottocento, lungo il corso della Senna fa furore la passione del canottaggio (si pensi alla Scampagnata di Maupassant), mentre fra le stazioni balneari e termali comincia a profilarsi una gerarchia di eleganza e snobismo, trasferendo in riva al mare (per i più giovani) o nei dintorni delle fonti curative (per malati veri o immaginari) i riti della mondanità parigina.

    Come spesso gli capita, il parvenu Émile Zola intrattiene con le mode che imperversano nell’alta società e nella buona borghesia parigina un rapporto ambivalente: per un verso ne sottolinea con ironia a tratti bonaria, a tratti feroce, i paradossi e il ridicolo – così, per esempio, nei brevi schizzi dei Parigini in villeggiatura, le guide turistiche diventano tirannici strumenti di tortura per bottegai ignoranti che si sentono in dovere di ammirare i monumenti storici della Normandia, senza avere gli strumenti culturali per apprezzarne la bellezza; così, la villeggiatura marittima è spesa esorbitante per una famiglia impiegatizia: una spesa affrontata al solo scopo di favorire il matrimonio delle figlie nubili e ormai (per l’epoca) attempatelle; così, ancora, la campagna è luogo della vuota monotonia, dove molti soggiornano per mero esibizionismo sociale: conta possedere la ‘seconda casa’ e poterci invitare i conoscenti – poco importa se poi ci si annoia a morte.

    Eppure, come informa sempre la pagina introduttiva, anche lo scrittore, appena «rientrato da un viaggio», è parte in causa: già da giovanissimo frequenta con Cézanne, con Monet, e con altri artisti squattrinati, i villaggi ancora semiselvaggi sulle rive della Senna (in particolare Gloton, dove è ambientato il quinto raccontino dei Parigini in villeggiatura); appena i primi successi gli danno qualche agio economico, prende l’abitudine delle vacanze estive; torna quando può nell’amata Provenza in cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza; si abbuffa di frutti di mare in Bretagna o in Normandia; con i proventi dell’Assommoir compra la casa di Médan; più tardi frequenterà le terme per curare i disturbi psicosomatici della moglie Alexandrine – la quale, dimentica dei (o forse, al contrario, ossessionata dai) trascorsi burrascosi di un’adolescenza bohémienne, si fa una religione della rispettabilità borghese e dei suoi riti.

    Da questo sguardo ambivalente, al tempo stesso satirico e partecipe, discende gran parte del fascino di questi bozzetti; i quali, tuttavia, scegliendo come argomento una pratica sociale ancora in parte elitaria, ritraggono una porzione limitata della società francese: dalla piccola borghesia dei commerci al pubblico impiego, fino alle alte gerarchie militari (il colonnello in pensione, tradito, alle terme, dalla troppo giovane moglie, è il personaggio più ridicolo, ma anche il più stereotipato, dell’intera serie). Fa eccezione l’ultimo brano, appunto quello ambientato a Gloton: i protagonisti sono giovani pittori, scultori, giornalisti, poeti, nel cui scanzonato vitalismo – il testo è una quasi boccacciana novella di burla – è facile cogliere un’eco autobiografica, e una vena di nostalgica elegia per una giovinezza ormai finita (Zola frequentava Gloton alla fine degli anni Sessanta; quando scrive la sua «cronaca», nel 1877, ha trentasette anni).

    Intreccia invece gli stilemi della descrizione di costume con quelli del giornalismo politico e d’inchiesta il testo successivo, Scene di elezioni: come e più che nel brano precedente, la stratigrafia della società francese adotta qui una prospettiva geografica, conducendo il lettore (quello russo, innanzitutto) nelle diverse realtà regionali, tanto che a volte il tema elettorale appare poco più che un pretesto per offrire rapidi bozzetti, non privi di qualche esotismo, della Francia profonda.

    Le elezioni cui allude il titolo sono quelle del 1877: eletto Presidente della Repubblica nel 1873, il maresciallo Mac Mahon è legittimista; la sua politica conservatrice si scontra, però, dopo le elezioni del 1876, con le decisioni della maggioranza parlamentare repubblicana e del governo progressista guidato da Jules Simon. Decide perciò di sostituire il primo ministro, con una sorta di colpo di stato presidenzial-parlamentare: il 16 maggio 1877, la nomina del conservatore duca di Broglie suscita l’indignazione della maggioranza dei deputati, che indirizzano al Presidente della Repubblica una lettera, passata alla storia come Il Manifesto dei 363 (cui fa riferimento nel suo testo anche Zola). Per tutta risposta, Mac Mahon scioglie la Camera, con la complicità del Senato (dove la maggioranza è di destra), per chiedere al popolo di affidarsi a rappresentanti più in sintonia con i voleri presidenziali (come avrebbe fatto anche Jacques Chirac centoventi anni più tardi: con esiti ugualmente catastrofici). In realtà, nonostante le pressioni prefettizie e i non sporadici brogli – di cui Zola rende conto con un misto di indignazione e divertimento –, i repubblicani si confermano maggioranza; solo nel 1879, però, quando anche il Senato passerà a sinistra, obbligato (secondo la famosa battuta di Léon Gambetta, poi ripresa nel Novecento da Charles De Gaulle) a «sottomettersi o dimettersi», Mac Mahon opterà per quest’ultima più dignitosa soluzione, consentendo alle istituzioni repubblicane di consolidarsi definitivamente.

    Zola ha da poco pubblicato L’Assommoir. Tuttavia, a dispetto di un passato da giornalista di opposizione ai tempi del Secondo Impero (e di un futuro da scrittore engagé), la drammatica crisi delle istituzioni repubblicane non sembra preoccuparlo più di tanto: se è vero che non interrompe la villeggiatura per tornare a Parigi a votare, il 14 ottobre. Negli anni Settanta, nell’autore dei Rougon-Macquart, la diffidenza nei confronti della politica prevale non di rado sull’impegno civile; e spesso la religione flaubertiana della forma fa aggio sull’attenzione per l’attualità. A proiettare a ritroso sull’autore dell’Assommoir l’immagine stereotipata dello Zola eroico dell’affaire Dreyfus si rischia un clamoroso abbaglio. Lo scrittore naturalista non solo non va a votare, nel 1877; non si fa nemmeno scrupolo di millantare di fronte al pubblico russo una conoscenza di prima mano che non aveva affatto: «racconterò semplicemente quello che ho visto accadere intorno a me, perché ho l’assoluta convinzione che il documento vero è preferibile a tutte le dissertazioni del mondo»; «è tutto vero». Il linguaggio è quello della teoria naturalista e del

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