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La ragazza coi tarocchi e altri racconti newyorkesi
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La ragazza coi tarocchi e altri racconti newyorkesi

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“La ragazza coi tarocchi e altri racconti newyorkesi” è insieme un viaggio e un omaggio, tra cronaca e fantasia: nasce da esperienze vissute dall’autore e propone New York con gli occhi di chi si lascia affascinare da entusiasmo, vitalità e internazionalità che la città statunitense ispira.
La Grande Mela è sfondo per storie e descrizioni, tra spirito di osservazione e libertà di invenzione, anche con personaggi differenti: 14 testi di prosa nel segno della libertà narrativa e stilistica, per unire esperienze ed emozioni a partire da un diario di viaggio tra monumenti e ricordi, frenesia e arte, sguardi e grattacieli.
Un viaggio in 14 tappe, suddivise in due blocchi temporali: il primo inizia da una giovane donna nella folla di un’estate newyorkese, il secondo da una nuova ricerca di lei per ricreare ricordi. In mezzo, incontri con giovani e artisti tra le maschere che intrattengono i turisti a Times Square, un angelo sulla cima dell’Empire State Building, un volto della storia al Metropolitan Museum e un volto di eternità; a Central Park, i pensieri ispirati intorno al mosaico “Imagine” e quelli di una ragazza sulla pista di ghiaccio; nel reticolo metropolitano anche una rapina per amore, suggestioni legate all’arte e anche a musica e teatro, fino alle “vite in vetrina” e ai piani interrati dei cuochi di ogni domani, oltre a uno sguardo sull’oggi. Storie e incontri, persone e pensieri: un viaggio tra quotidianità e fantasia, tra le strade di una capitale del mondo.
LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2017
ISBN9788826062143
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    La ragazza coi tarocchi e altri racconti newyorkesi - Fabrizio Brignone

    Ringraziamenti

    ​La ragazza coi tarocchi

    Felpa fucsia, gonna nera e rosa, calze e scarpe nere, zainetto scuro. Capelli biondi, occhi castani e pelle chiara. Sguardo senza troppo colore. L’aveva già notata prima, in un altro punto di Times Square. Ora la vede, all’incrocio tra Broadway e la 45ª, ferma e statuaria su un marciapiede sottile, quasi a piano strada. Le punte dei piedi appena fuori, le braccia mollemente incrociate sull’addome, mentre la mano sinistra stringe una pochette blu e bianca. La gonna si muove appena, ogni tanto, un po’ per il vento caldo di fine agosto, ancor più per la gente che passa. Un fiume di gente intorno, centinaia di persone che ogni secondo attraversano a piedi e in auto e vanno ovunque. Lei, invece, sta lì: nel caos frenetico di una serata estiva nel cuore di New York, quella ragazza appare immobile, ferma quasi quanto i palazzi che la circondano.

    Lui si siede su una panchina, accanto a due anziani che stanno cenando con un pretzel, sotto una pianta che sembra avere fiori dello stesso colore di quella felpa. Un’espressione vegetale non semplice da riconoscere e definire, un verde metropolitano; una presenza di natura urbana, quasi come lei. Che è ancora lì, ferma: ogni tanto muove le labbra, sembra parlare a qualcuno, ma qualcuno che non c’è e che non è nemmeno lei stessa.

    Nella confusione della serata lui si distrae un attimo e lei se ne sta andando: la vede che attraversa piano l’incrocio, raggiunge l’altro lato della strada a passi lenti, quasi dovesse stare attenta a non incontrare nessuno, a non pestare piedi altrui, a non spostarsi troppo, a non muoversi velocemente. Va oltre l’incrocio, giunge appena dall’altra parte e attraversa di nuovo, questa volta alla 45ª; si muove senza fretta in direzione del Flatiron, attraversa un isolato e mezzo, e dopo un po’ si sposta più avanti. Lui non vuole perderla con lo sguardo, si alza: il tempo di un altro centinaio di persone, un altro giro di colori al semaforo, e poi la segue a passo veloce, i suoi occhi non la abbandonano. Un attimo di affanno. Lei continua con il suo incedere stanco, con il suo passo lento è già andata di là.

    A un certo punto è di nuovo ferma, le braccia sul petto. Allunga per un attimo il braccio destro in avanti, quello con cui tiene la pochette (o che altro): lo sposta appena, e da lontano potrebbe quasi sembrare un suo modo di chiedere l’elemosina, ma non lo è, perché poco dopo ritira il braccio. Chissà che cosa sta pensando, si domanda intanto lui.

    Passa di fianco gente che grida, gente che offre biglietti per gli spettacoli di Broadway, gente che sta fotografando. Persone che stanno facendo di tutto, poliziotti che vigilano nei pressi, giovani con i costumi di Spiderman, Batman, Wonder Woman, Iron Man, Captain America, Super Mario, Woody, Spongebob e altre personificazioni della fantasia. Set senza sosta, e lei è sempre là con la sua felpa fucsia con su scritto New York in scuro. Di fianco qualcuno improvvisa una partita a scacchi per strada, sul tavolino di un bar; intanto c’è chi continua a scattare fotografie, chi si muove, chi telefona, chi parla, chi corre. Tutti fanno tutto e lei non fa niente. Tutto il mondo sta girando vorticosamente e lei è ferma.

    Non c’è nessuno vicino alla ragazza: i passanti, vedendola ferma, cercano di evitarla. Ha lo sguardo rivolto a sud; forse leggermente imbronciato, più inespressivo che imbronciato. Non dice niente, non ascolta niente, ogni tanto sembra muovere le labbra ma non è così: l’unica cosa che si muove della sua figura è quella corona di punte rosa sulla gonna nera, nel vento di New York. Un vento che fa impazzire tutti, che agita tutti. Tutti tranne una giovane donna cui lui non sa dare un nome.

    Adesso la si vede sotto uno dei marchi mondiali di profumi e cosmetici, lei che non emana nulla, nemmeno un’emozione, la più piccola. Neppure una delle tantissime sensazioni che tutto intorno si leggono su facce di qualunque età e tipo. Ogni tanto muove le labbra, il suo sguardo è rivolto in avanti. Anche il labbro superiore sembra seguire la linea che parte dagli occhi, persi nel vuoto, in direzione sud. Forse sta cercando la Statua della Libertà, forse sta cercando la sua, di libertà: chi può dirlo? Nemmeno lei lo dice a se stessa, a quanto pare, perché nulla la coinvolge, nulla dice e nulla fa. Non c’è niente che la possa turbare né smuovere: solamente uno sguardo incrociato pochi minuti prima, con lui, e in un attimo sembra avergli detto tutta la sua solitudine, tutta la sua follia forse, paura e mancanze. Atlante sotto il peso delle assenze, lei che si sente troppo fragile, troppo stanca; lei che non ne ha più voglia, che non ha più voglia di niente, mentre tutti intorno hanno voglia di tutto.

    Tutti intorno danno l’impressione di avere la vita in sé: solo lei sembra essere spenta, non averne, non volerne raccontare. Solo lei appare ferma nel tempo che corre. Lei sola in tutto questo caos, nel formicaio umano, e tra migliaia di vite che si muovono solo la sua è ferma. Solo lei non si muove e non dice niente, non dice niente a nessuno, mentre chiunque qui parla con chiunque altro, presente o lontano, telefonando, scrivendo, fotografando, instagrammando e facebookando. Tutti stanno cercando di raccontare qualcosa per qualcuno. Tutti per dire io c’ero, con una fotografia a immortalare l’attimo (e magari anche a sostituirlo e quindi a rinunciarvi, nella fruizione dell’attimo stesso, intenti più a voler registrare che ad assaporare). Lei c’è ma non c’è, presente per nessuno.

    A venti metri da lei passa una Ferrari, unico segno rosso in mezzo al fiume giallo dei taxi newyorkesi e in mezzo al nero delle limo.

    Lei con la sua felpa fucsia, invece, quasi delega a quel colore l’unico cenno di una femminilità pressoché nascosta sotto una coltre di anonimato, zittita dal rumore assordante dei suoi pensieri. Non si volta, non parla, non cerca nessuno, non viene cercata da nessuno. Non viene mossa da niente, nulla la scuote. Lei è sola con la sua solitudine, è sola con tutto il suo futuro che forse non c’è, o che comunque non dà cenni di sé.

    Poco dopo la ragazza riprende a muoversi, qualche altro passo, sempre in direzione sud. Sembra non sappia dove sta andando. Tutta la gente che passa potrebbe spostarla ovunque, in qualunque posto, mentre lei si muove appena, di pochi metri. Continua con il suo passo lento, senza emozioni come il suo volto. Senza nessuna presenza di sé. Sembra non poter sparire nel traffico newyorkese, forse ne avrebbe anche voglia.

    Attraversa piano, tutti le passano intorno. Sull’incrocio allunga le braccia lungo il corpo per qualche istante, poi le riporta su, di nuovo verso il petto, come se stesse pregando, come in posizione fetale, come se fosse pronta per tornare indietro da qualche parte perché qui non è mai stata o comunque non si è mai sentita al suo posto.

    Probabilmente sta cercando il suo posto nel mondo, come tanti altri; mentre qui tutti sembrano sentirsi al centro del mondo e in pace col mondo, lei è l’unica fuori posto, l’unica fuori contesto, l’unica fuori senso. L’unica per cui tutto questo non abbia alcun senso, perché in fondo non c’è nulla di quello che lei vuole, qui. Però, che cosa vuole veramente, nella notte di New York? Nella notte di Times Square, dove tutto è colore e rumore, immagini e saluti, voci che si rincorrono? Dove tutto è il contrario di tutto e va bene così com’è? Non c’è niente che non vada, nulla è fuori posto in lei, eppure la si vede fuori posto. Nota stonata nel concerto jazz della capitale del mondo.

    All’incrocio poco dopo la 43ª si ferma davanti a un piccolo bar, interrompe la sua corsa senza corsa né meta. I suoi passi stanchi si riposano a un tavolino. Non parla con nessuno, non vuole niente; solo quell’oggetto in mano e quello zainetto ne fanno una chiocciola che trascina con sé la propria casa. Il fucsia e il nero dei suoi vestiti sul rosso del tavolino. Sta cercando qualcosa nelle tasche. Rimane seduta e non fa niente. Non c’è nulla per lei.

    Lui continua a osservarla, in effetti nemmeno lui ha da fare. Si sente un po’ Cnn e un po’ guardone, ma è troppa la curiosità calamitata da quella figura e da uno sguardo di mezzo secondo. Lui che spesso, alle persone che più gli ispirano ammirazione vorrebbe entrare negli occhi e nei pensieri, sostituirsi un po’ nella loro testa per capire che cosa c’è, quali visioni, quale sentire, quali emozioni. E lei sicuramente, in quel momento, tra le tante vite che si stanno intersecando in Times Square, è una delle più originali in assoluto. Una vita rara, pur apparendo vuota e inespressiva. Una sfera di cristallo opaco, dentro cui possono agitarsi le onde più alte e le correnti più forti dalle profondità oceaniche, senza che se ne possa vedere alcunché da fuori.

    Nella sua calma e assenza, lei si rivela un contrasto violento con tutto quel che le sta intorno, con quel caleidoscopio impazzito che proietta immagini in ogni direzione. Se sta recitando è bravissima, altrimenti potrebbe essere semplicemente disperata.

    Mentre ognuno intorno si sente padrone di questa città, dove anche l’asfalto dei marciapiedi luccica, lei non è padrona di niente. A malapena, ha in prestito dal resto del mondo lo spazio che sta occupando e l’aria che respira.

    Poco più in là una band di giovani si esibisce in strada: mentre rimbalzano i riff di Welcome to the jungle dei Guns N’ Roses (colonna sonora non inappropriata per il primo incontro con una città così), tanti si fermano a guardare, altri allungano il passo. Qualcuno sta correndo, qualcuno è bloccato dal traffico rallentato per lavori.

    Lei rimane lì, continua a guardare davanti a sé, padrona solo di se stessa e del proprio destino, mentre intorno nessuno sembra notarla, nessuno la guarda, nessuno la capisce. Nessuno la ascolta perché lei non parla. Tutto intorno a lei si muove, ma lei rimane immobile, sospesa.

    Lui, spettatore incuriosito dall’attrice di queste scene, senza farsi notare gira intorno al palazzo di fianco, in un’altra direzione. Vorrebbe quasi cambiare aria, ma lei in fondo un po’ lo attira con le sue domande e parole non dette. Ritorna vicino a quel punto e lei è ancora seduta al tavolino, lo sguardo perso nel vuoto. Non fa niente mentre tutti intorno stanno facendo qualcosa: due o tre, cinque cose insieme, mille azioni in contemporanea che moltiplicate per migliaia di persone fanno milioni di gesti e segni dell’umanità.

    Nella piena torrenziale e universale di tutto il flusso operativo e semiotico che si sia mai prodotto a tutte le latitudini, convertito e concentrato e riversato al centro di questa striscia di terra, lei non fa nulla. Isola più di Manhattan stessa, è l’unica ferma in tutta Times Square. Si sta toccando lo zaino, ma per il resto non fa nulla. Prigioniera di una fissità che appare ai limiti della volontà. O, per assurdo, la sua massima espressione.

    È ancora seduta, stavolta le braccia sono sulle gambe; guarda davanti a sé, ogni tanto si sfiora il viso con una mano. Guarda il mondo che passa. Sfiora, oppure sfida, l’eternità? Anche la domanda più irreale ha diritto di cittadinanza di fronte a una persona così originale, tanto isolata da ciò che le sta intorno da non farsene assorbire e invece emergerne come macchia su un quadro. O piuttosto come il quadro stesso su una parete bianca.

    Nessuno le è estraneo quanto lei stessa, o forse ha già visto tutto e nessuno è senza segreti ai suoi occhi. In questa città che accoglie milioni di persone da centinaia di luoghi, da migliaia di città, da tutti gli angoli del pianeta, lei a prima vista è la più apolide, una non-persona da un non-luogo. L’unica davvero straniera in questa metropoli, l’unica estranea al consorzio umano.

    È l’unica che non abbia un posto nel mondo perché non lo vuole. E non protesta, anzi non la si vede né la si sente. Forse in questo momento vorrebbe essere trasparente, vorrebbe non esserci, essere nessuno. Vorrebbe che non si notasse nemmeno la sua felpa fucsia. Ma tanto, a lei, che importa della gente che vede una felpa fucsia e una gonna nera nella notte nera di una città che ha tutti i colori? Che la vede ma non capisce nulla di quello che c’è?

    Non si muove nemmeno quando una coppia griffata, passando, tocca il tavolino. Un sorry, occhiate distratte, lei non alza lo sguardo; anche se le è stato spostato un punto di appoggio sembra non muoversi. Non ha reazioni, non le importa nulla di quelli che passano con borse in mano, non si cura minimamente di chi sta telefonando, chattando, fotografando e usando tutta la tecnologia possibile e immaginabile nel palmo di una mano, ultimi ritrovati dell’evoluzione che già ci ha portati nel domani senza nemmeno lasciarci il tempo di imparare l’oggi.

    Chi si mette in posa, con le luci della città sullo sfondo; chi si mette da qualche parte, tranne dove c’è lei, che non ha nessuno intorno e a quanto pare non vuole nessuno intorno. Sembra stia facendo di tutto per non esserci, lei che vorrebbe essere ovunque altrove in questo momento, mentre tutti altrove vorrebbero essere qui, ora, al posto di una qualsiasi tra queste decine di migliaia di persone. Tutti vorrebbero avere la fortuna di trascorrere un po’ di tempo in questo incrocio, in questo doppio triangolo magico che ricorda un immortale incontro dipinto di due dita, scintilla di vita. A lei, invece, sembra non importare assolutamente, per nulla, tutto quello che le succede intorno. Non arrivano alle sue orecchie tutte le lingue che si parlano lì. Lei non è di nessun posto, lei non è in nessun posto, lei non è qui anche se di qui non si è ancora mossa. Lei è una statua, una macchia fucsia e nera su una tappezzeria talmente cangiante da assorbirla fino a renderla trasparente e invisibile.

    Ancora un attimo e la ragazza riprende i propri passi, ritorna indietro lungo il tratto già attraversato, mentre lui si lascia distrarre al passaggio di due strani soggetti: uno porta sulla spalla destra un pappagallo grande e dai colori vivaci, l’altro ospita sulla propria testa un gatto nero con qualche macchia bianca. E alle estremità opposte, per i tanti corpi in transito, la varietà più abbondante: gente scalza e ragazze con tacco 12, infradito e mocassini, scarpe di ogni foggia e fantasia.

    Adesso lei è ferma con le gambe incrociate. In questa città dove tutti parlano con tutti, dove tutti chiamano tutti, dove tutti stanno chiamando un taxi o una persona amica dall’altra parte del mondo, lei non chiama nessuno e nessuno chiama lei. In questa città dove tutti vogliono apparire meglio di quello che sono, dove tutti fanno o comprano qualcosa per essere migliori, dove tutti hanno qualcosa, lei non ha niente. Solo i vestiti e lo zainetto, quel pacchetto in mano e il proprio sguardo. In questa città

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