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Il male dell'uomo
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Il male dell'uomo

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About this ebook

Sulla Terra il Male ha scelto l'uomo per manifestarsi e nelle epoche ha perseguito scopi sempre diversi. Un tenente della Polizia di Ipswich ed un antropologo ad Harvard ne saranno risucchiati con l'unica arma della forza di volontà a sostenerli. Un'indagine per atroci omicidi tra le case borghesi della provincia americana ed un viaggio interiore alla caccia dei propri demoni nell'Africa più lontana.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateMar 2, 2017
ISBN9788867825936
Il male dell'uomo

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    Il male dell'uomo - Gianluca Rampini

    Gianluca Rampini

    IL MALE DELL’UOMO

    EDITRICE GDS

    Gianluca Rampini Il male dell’uomo©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via Pozzo, 34

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Illustrazione in copertina di ©Adriana Maccarone

    Progetto copertina di ©Iolanda Massa

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

    Il presente romanzo è frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a cose, persone, fatti e/o luoghi realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori. Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli.

    Per segnalazioni relative a questo volume: iolanda1976@hotmail.it

    A Leonardo, sperando che un giorno mi legga.

    A Leonardo che è una delle due leggi fondamentali che governano il mio universo.

    Alla madre di Leonardo, la seconda delle due leggi.

    "Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere,

    questo mondo conoscerà la pace".

    Sri Chinmoy Ghose

    «Nessuno sta fuori dalla nera Ombra collettiva dell’umanità. (…) sarà quindi bene avere una immaginazione del male, perché solo gli sciocchi possono trascurare a lungo le premesse della propria natura.»

    C.G. Jung

    UNO Tabora, Tanzania.

    Il sole non era ancora sorto ed era già arrivato il momento di rimettersi in viaggio. Fred era riuscito ad appisolarsi solo a notte fonda. Dormire nella savana gli risultava ancora difficile. Aveva trascorso perfettamente insonne quella notte satura di rumori, richiami amorosi, echi di ruggiti in lontananza, sibili, grugniti. Spesso distanti, portati dal vento; a volte così vicini alla tenda da doversi imporre di non pensare che, alla fine, era soltanto una sottile membrana di tessuto che lo separava dal resto del mondo.

    Su un fornello da campo una pentola d’acqua stava raggiungendo l’ebollizione. Fred, intirizzito dal freddo, di potersi scaldare con una tazza di caffè solubile. Impaziente di raggiungere la meta, osservava gli aiutanti che smontavano il campo. Sapeva che indurre la fretta a un africano è quasi sempre una fatica inutile. Non perché non abbiano voglia di lavorare, è che proprio il concetto del tempo non gli appartiene e, per quanto frustrante, alla fine ci si deve adattare al loro ritmo.

    Partirono quando il sole aveva appena valicato l’orizzonte.

    Nyoka, un ragazzo di circa venticinque anni - impossibile essere più precisi a riguardo - guidava il veicolo di testa, Alex quello che seguiva, con Fred seduto al posto del passeggero. In tutto il gruppo contava otto persone: i due ricercatori americani, la guida locale e i cinque ragazzi che avevano assoldato come aiutanti.

    La piccola carovana si dirigeva lungo un sentiero sconnesso e sabbioso alla volta di un villaggio del territorio wanyamwesi. Fred sperava di incontrare un guaritore che esercitava in quella zona. Il giovane antropologo, nonostante il sole africano, era pallido.

    «Mi sembra impossibile che non ti sia ancora abituato a qualche scossone.» Alex si divertiva a stuzzicarlo. Fred era prossimo a un voltastomaco.

    «Non c’è alcun bisogno che mi ci abitui.» Senza nemmeno voltarsi agitò, come un sonaglio, una confezione di gomme contro il mal d’auto.

    «Ancora qualche minuto e potrò godermi questa scampagnata.»

    Alex cambiò discorso.

    «Non c'è nemmeno gusto a prenderti per in giro. Sei troppo serio. Come pensi di riuscire a parlare con il guaritore? Sai che prima occorre ottenere il consenso dei mukawa.»

    Fred non rispose. Sapeva bene di dover chiedere il benestare del consiglio di anziani ma non aveva un  piano su come farlo se non il rispetto e la pazienza.

    Fred e Alex nel corso delle settimane trascorse tra i villaggi nei dintorni di Tabora si erano resi conto che conoscere l’Africa non sempre coincideva con il conoscere gli africani. I loro rapporti con la comunità wanyamwesi stentavano a progredire. Quel popolo fiero non accettava di buon grado le intrusioni degli occidentali e tanto meno subiva il fascino del denaro, sebbene, come tutti in Africa, ne avesse un gran bisogno. I soldi servivano solo per ciò che aveva un prezzo, ovvero il bestiame e le donne. Per tutto il resto occorreva guadagnarsi la loro fiducia, che con il denaro non aveva niente a che fare, mettendo in atto una diplomazia basata sul rispetto degli anziani e su precise ritualità. 

    Arrivarono nei pressi del villaggio che si ergeva su un’altura appena accennata. Le capanne, costruite con argilla e paglia, erano rotonde e scure come biscotti troppo cotti in quel forno a cielo aperto, e si raccoglievano attorno a sparuti alberi. Per non apparire invadenti, fermarono i veicoli abbastanza lontano da quello che sembrava essere il centro della comunità. Nyoka, che fungeva anche da interprete, precedeva i due stranieri, mentre i cinque aiutanti rimasero presso le macchine in attesa di istruzioni.

    I primi ad accoglierli furono i bambini, giocosi e con sguardi incuriositi. Ben presto furono seguiti da un gruppo di anziani.

    Nyoka fece le presentazioni. Fred lo aveva assunto perché proveniva da una famiglia di alto rango della società wanyamwesi e conosceva l'etichetta e le consuetudini di quel popolo. Da dieci anni viveva a Tabora guadagnandosi da vivere come guida turistica ma il suo villaggio d’origine non era molto lontano da lì e, soprattutto, non era molto diverso.

    Dopo circa un’ora di confabulazioni Nyoka tornò da Fred. Sembrava soddisfatto.

    «I mukawa vi daranno ascolto e condividerete con loro il pombe.»

    Nyoka sottolineò la parola pombe.

    «Condivideremo che cosa?» Fred sapeva ancora ben poco della cultura wanyamwesi, ma conosceva molto bene la pericolosa varietà di sostanze di cui le popolazioni tribali facevano uso. Era uno degli argomenti principali delle sue ricerche.

    Alex lo spintonò con il gomito. «Birra ragazzo mio, si tratta di birra.»

    Nyoka spiegò che il pombe era una bevanda simile alla birra ottenuta dalla fermentazione del mtama, una farina speciale la cui origine non fu in grado di spiegare, perlomeno non in inglese. Generalmente i wanyamwesi preparavano il pombe in occasioni speciali, nella fattispecie era avanzato da un matrimonio che si era tenuto il giorno prima.

    All’ombra di un enorme fico selvatico Nyoka, Fred e Alex si unirono agli anziani che erano seduti in circolo attorno a un focolare spento. Un giovane a torso nudo che indossava un paio di jeans impolverati distribuì il pombe. Alex dimostrò di apprezzare quella bevanda dolciastra e alcolica, Fred si limitò a sorseggiarla.

    Fred doveva spiegare loro perché desiderava parlare con il guaritore, cercando di convincerli delle sue buone intenzioni.

    Nyoka traduceva.

    «Innanzitutto volevo ringraziarvi per avermi ricevuto.» La pausa doveva lasciare il tempo al ragazzo per la traduzione, ma questi si rivolse immediatamente a lui in inglese.

    «Signor Carlyssian, mi perdoni se la interrompo, ma questo non è proprio un buon modo per iniziare.»

    «Come sarebbe a dire? Qual è il problema?»

    «I wanyamwesi non usano mai dire grazie e non saprei come tradurlo, finirei col dire qualcosa di sbagliato.»

    La spiegazione aumentò la sorpresa dell’antropologo.

    «Come non dicono mai grazie?»

    «Nella nostra cultura non serve ringraziare. Nella vita riceviamo solo quello che ci spetta.»

    Alex intervenne con una battuta: «beh, ha tutta l’aria di essere un popolo degno dell’attenzione di un antropologo del tuo livello!»

    «Aspetta che sentano la tua storia del mamba bianco...» Fred rispose a tono.

    «Hey ragazzino, porta rispetto per gli anziani!» Alex non era il tipo che te la dava vinta. Fred avrebbe continuato volentieri, ma non voleva approfittare della pazienza dei suoi ospiti.

    «Va bene Nyoka, ricominciamo e facciamo così: io parlo, tu mettici del tuo per rendere il mio discorso accettabile.»

    Nyoka non parve preoccupato da quella responsabilità.

    «Dì loro che sono molto felice di essere stato ricevuto.»

    Nyoka tradusse.

    Uno degli anziani rispose che era sempre un piacere incontrare uomini bianchi che venivano per conoscere e non per razziare.

    Una risposta garbata di circostanza, da cui risultava evidente che quella gente serbava rancore nei confronti degli occidentali.

    «Ho viaggiato in molte parti del mondo e ho conosciuto gli anziani e i guaritori di molte popolazioni che mi hanno insegnato i segreti delle piante che servono a parlare con gli spiriti.»

    Per esperienza Fred sapeva che le traduzioni diventavano più complesse quando era necessario rendere comprensibili concetti astratti, traducibili solamente con articolati giri di parole. In questo caso poche parole furono sufficienti. 

    «Sono venuto fino a qui per sapere se anche voi usate piante particolari per tali scopi. Questo è il motivo per cui vorrei parlare con il vostro guaritore.»

    Dopo un rapido conciliabolo gli anziani risposero che si sarebbero riuniti prima di decidere.

    Fred chiese quanto tempo avrebbe dovuto aspettare, e subito si morse la lingua, rendendosi conto che quella richiesta lo faceva apparire maleducato. Uno degli anziani, senza aspettare la traduzione di Nyoka, rispose: «Bado kidogo.Tra qualche tempo.»

    «Nyoka, allora capiscono l’inglese.» Esclamò Fred, temendo di aver fatto la figura del  bianco viziato.

    «No signore ma si aspettavano una domanda del genere.»

    «Non sono mica vecchi e saggi per nulla.» Ghignò Alex.

    «Hai proprio ragione, evidentemente alcuni acquistano saggezza più di altri con il passare degli anni.» Replicò Fred all’amico che aveva parecchi anni più di lui.

    «Nyoka, un’ultima domanda, chiedigli se possiamo montare le tende qui attorno, Alex vorrà studiare la zona.»

    Accettarono senza difficoltà, indicando un grande albero di fico poco distante che offriva ombra a sufficienza.

    I due gruppi si separarono. I mukawa  rientrarono nella capanna, Alex, Fred e Nyoka tornarono ai fuoristrada dove i cinque aiutanti attendevano accucciati nella scarsa ombra che i mezzi offrivano.

    Raggiunsero l’albero e i ragazzi iniziarono a scaricare attrezzatura e tende. Al loro ritmo.

    Senza allontanarsi troppo, Alex approfittò della pausa per dare un’occhiata ai dintorni, alla ricerca di qualche traccia sul terreno sabbioso.

    Dopo meno di un’ora, quando il campo era già a buon punto, Fred vide avvicinarsi qualcuno.

    Non si trattava di uno degli anziani con cui avevano appena parlato. Indossava un abito diverso, un drappo di stoffa nero che gli cingeva una spalla e scendeva sino alle ginocchia, e stringeva un bastone alto quanto lui. Alcune zucche secche, a mo’ di contenitori, pendevano dalla cintura.

    Fred fece un cenno a Nyoka che lo raggiunse. Era stupito del fatto che gli anziani avessero deciso così in fretta. Quell’uomo aveva tutta l’aria di essere il guaritore che stavano aspettando.

    L’africano si fermò ad alcuni metri di distanza, batté il bastone a terra e lo usò per indicare Fred, come se quel segno fosse sufficiente a spiegare le sue intenzioni.

    Con voce decisa si rivolse a Nyoka il quale, un paio di volte, gli rispose senza tradurre.

    Quindi l’uomo voltò loro le spalle e tornò da dove era venuto, lasciando Fred irritato dal fatto che Nyoka avesse condotto da sé quel colloquio.

    «Dobbiamo andarcene subito, non siamo graditi.»

    Fred non si aspettava una risposta simile.

    «Andarcene? Perché?»

    «Il mwitingala ha detto che porti con te un Imbulu.»

    «Cosa porto con me? Cos’è un Imbulu?»

    Nyoka sembrava in imbarazzo.

    «Signore, sono... spiriti.» Nyoka esitò a completare la frase, si capiva che stava cercando un modo per rendere il significato esatto.

    Fred era abituato a confrontarsi con le culture primitive e le loro peculiarità, non era solito sorprendersi, ma questo gesto di discriminazione lo mise a disagio. Si prese alcuni secondi per riflettere, cercando di analizzare la propria reazione emotiva di fronte a quel rifiuto. Imprevedibile, più per la motivazione che per la sostanza.

    Per una ragione che non riusciva a cogliere, non era stupito. Nonostante fosse cresciuto nel nome di un radicato razionalismo occidentale, Fred percepiva che c’era qualcosa di vero nella rivelazione del guaritore. Da molti anni il suo cuore era velato da un’inquietudine persistente. Gli spiriti di cui aveva parlato Nyoka erano forse gli spettri che spesso visitavano i suoi sogni sin da quando era bambino?

    Per la prima volta un riflesso delle sue paure interiori appariva manifesto nel mondo esterno e si traduceva nelle parole di qualcuno diverso dalla sua stessa coscienza. Valutò la possibilità che si trattasse  di una coincidenza, una semplice scusa inventata dall’africano per liberarsi di loro. Ma questa ipotesi non fece la minima presa e scivolò immediatamente fuori dai suoi pensieri.

    Nel frattempo era tornato Alex.

    «Non possiamo rimanere.» Lo informò senza aggiungere altro.

    «Ma che diavolo. Non ho nemmeno fatto in tempo a chiedergli del mamba bianco.» Alex era contrariato, però Fred vide comprensione nel suo sguardo.

    «Lo so Alex, ma dobbiamo andarcene. Se insistiamo adesso, non faremmo altro che peggiorare la situazione.»

    «E lasci perdere tutto così?»

    «Certamente no. Devo riuscire a parlare con quell’uomo, ma troveremo un altro modo.»

    Non si stava riferendo solo alle sue ricerche, iniziava a pensare che ciò che era successo lo potesse riguardare in maniera personale.

    «E va bene, impacchettiamo tutto.»

    Nyoka salutò il guaritore. Questi prima di andarsene incrociò lo sguardo di Fred, che vi lesse un moto di compassione. Era una sua impressione, oppure era proprio quello il sentimento che aveva suscitato nell’anziano stregone?

    DUE Ipswich, Massachussets.

    Risalendo lungo il Fourmile Pond rifletteva sulla perversa ironia con cui il destino aveva sempre giocato con lui. Il cadavere all'obitorio e quello appena scoperto erano l'ennesimo sgarro che il destino gli aveva riservato. Si era trasferito in cerca di tranquillità ma la violenza lo aveva seguito. Solo la sua incrollabile razionalità gli aveva impedito di addossarsi il ruolo di menagramo. Abbassò il parasole sul lato del passeggero. Vi teneva una foto della sua famiglia. Pre-disastro. Lo rialzò quando entrò in città. Non sopportava la malinconia ma i ricordi trasbordarono, non riuscì a impedirlo.

      Quando Katy lo aveva lasciato, portandosi dietro le due figlie, Vernon aveva accusato il colpo, ma in qualche modo si era sentito finalmente libero. Libero di poter adempiere al proprio dovere senza più alcun senso di colpa. Il suo ragionamento, semplice e autodistruttivo, era che se la sua professione lo costringeva a essere un uomo solo, che almeno ciò gli servisse a diventare un poliziotto più efficiente. Il desiderio di tenere lontana la propria famiglia da un’esistenza fatta di vendette, ritorsioni, odio e depravazione era comprensibile, ed era la più pesante zavorra nella vita di un poliziotto. Nel corso degli anni questo desiderio aveva preso il sopravvento rispetto ai suoi stessi sentimenti di marito e di padre.

    La famiglia e il senso del dovere: due fondamentali valori americani. Non essere in grado di farli convivere aveva prodotto in Vernon una frattura insanabile. Aveva lasciato intenzionalmente che la situazione evolvesse da sé, che la distanza tra lui e la moglie aumentasse, fino alla definitiva rottura.

    Ricordava ancora con precisione il momento in cui la situazione aveva superato il punto di non ritorno. Lui era seduto sul divano a guardare le tv, lei in cucina a lavare i piatti. Tra di loro un senso di disagio aveva preso il posto della complicità e della familiarità. I litigi e i silenzi successivi erano solo conseguenze.

    Avere un padre assente sarebbe stato sempre meglio che averne uno in casa sempre spossato, nervoso e pessimista. Per Katy sarebbe stato meglio avere un ex marito che l’aveva amata sinceramente, piuttosto che un coniuge presente, ma emotivamente compromesso.

    Passato il travaglio della separazione, la vera tragedia per Vernon fu un’altra. Dopo due anni di vita solitaria e di totale dedizione alla causa del dipartimento, la sua motivazione e la sua volontà erano state nuovamente e definitivamente fiaccate. L’ingenua presunzione che la solitudine avrebbe giovato al lavoro aveva ben presto mostrato la sua essenza fallimentare. Forse perché le reali spinte a lottare per una società migliore nascevano dai sogni innocenti delle sue figlie, forse perché il ruolo del cavaliere solitario in assenza di una principessa da salvare perdeva tutto il suo fascino, fatto sta che un crollo nervoso lo aveva reso finalmente consapevole dei propri limiti. Dopo lunghe riflessioni, non poteva andare avanti così ma in fondo il poliziotto era l’unica cosa che sapeva fare, giunse alla conclusione che un incarico in una tranquilla cittadina di provincia sarebbe stata la soluzione ottimale.

    Si era ritrovato così a dirigere la Divisione Investigativa Criminale di Ipswich, in sostituzione del sergente Delooney, da poco andato in pensione.

    Le differenze tra il Distretto di polizia di Boston e quello di Ipswich erano tali che non era nemmeno possibile farci dell’ironia. Erano due mondi diversi e incomparabili. Più di duemila ufficiali occupavano le strade della capitale e gli uffici del quartier generale in Tremont Street, meno di trenta persone, compresi consulenti e pensionati, componevano le forze dell’ordine della cittadina costiera, che poche anse del Fourmile Pond separavano dalla Crane Beach e dall’oceano Atlantico.

    Da qualche giorno la distanza tra Boston ed Ispwich si era drasticamente ridotta. Nel peggiore dei modi. Due omicidi di inaudita violenza si erano abbattuti su quella tranquilla comunità, e sebbene Vernon fosse l’unico a poter affermare, senza vanto di esserci quasi abituato, la natura dei quei crimini era tale da rendere quella stessa affermazione totalmente inopportuna. Vernon, al contrario, era probabilmente quello che più risentiva psicologicamente per i due omicidi. Fatta eccezione, naturalmente, per i parenti delle vittime.

    Era fuggito dalle strade affollate e violente della metropoli proprio nella speranza di evitare eventi come quelli che ora gonfiavano le vendite dell’Ipswich Chronicle e spegnevano il sorriso dai volti degli abitanti. Un crescente malessere, come fetore sospinto nelle fogne dall’alta marea, si era improvvisamente insinuato tra le vecchie strade e fin dentro le case  dell’antico borgo di pescatori.

    ***

    Omicidi rituali. Non aveva alcun dubbio riguardo a questo. Omicidi seriali non causati dalle aberrazioni di una mente malata, bensì dal lucido perseguimento di un obiettivo superiore. Quindi molto più complessi da valutare.

    Vernon attendeva all’uscita della centrale. Tra le mani la cartella del caso, aperta alla pagina delle fotografie. La chiuse stizzito. Nuvole grigie guastavano la mattinata e l’umidità nell’aria faceva temere che avrebbe piovuto. Per questo motivo non potevano permettersi di tardare. La pioggia avrebbe compromesso la scena del crimine.

    Luke Stoughton non era un poliziotto d’azione. Era metodico, puntiglioso ma poco propenso ad affrontare qualsiasi variazione nella routine lavorativa. Cercava di aggrapparsi a qualsiasi commissione amministrativa pur di non dover seguire il capo.

    «Cazzo Stoughton non te lo dico più, o posi quella maledetta penna o te la ficco dove puoi ben immaginare!»

    Vernon generalmente non era così irascibile, ma Luke era in grado di portarlo all’esasperazione. Il comportamento del suo subalterno era solo in parte dettato dall’indole, in molti casi era palesemente artificioso. Lo faceva apposta.

    Vernon sapeva che Stoughton si aspettava, per anzianità di servizio, di ottenere il posto di Delooney. Il suo arrivo l'aveva usurpato di quel diritto. Il super poliziotto di Boston, viziato e borioso, aveva deciso di passare i suoi ultimi anni di carriera tra pescatori e pensionati, tra ristoranti di pesce e passeggiate lungo la spiaggia, fregandogli la carriera. Così l'aveva sentito dire a quei pochi che si prendevano la briga di ascoltarlo in ogni occasione in cui veniva stuzzicato sulla questione.

    L’atrocità degli ultimi eventi ai suoi occhi aveva come prima e gradita conseguenza quella di vendicarlo, rovinando le tranquille giornate del nuovo superiore. Vernon lo aveva capito perfettamente. Non se ne preoccupava affatto, ma lo infastidiva terribilmente che un poliziotto ponesse con tanta spudoratezza i propri interessi davanti a quelli della comunità. Per questo motivo non perdeva occasione per maltrattarlo. La sua espressione imbronciata e le sue continue lamentele non lo turbavano minimamente, abituato com’era alla giungla del distretto in cui aveva speso tanti anni della sua vita.

    Luke finalmente si decise a lasciare la scrivania. Raccolse il giubbotto dallo schienale della sedia, coprì i pochi capelli con il berretto d’ordinanza e con passo legnoso infilò la porta, senza guardare Vernon negli occhi. Teneva il busto proteso in avanti e i gomiti larghi, sembrava l’imitazione di un uomo preistorico. Vernon si era chiesto, fin da subito, come fosse finito a fare il poliziotto.

    Salirono in macchina con Vernon alla guida. Una volta nell’abitacolo, Vernon passò a Luke il fascicolo relativo all’omicidio precedente. Non era ancora sicuro che ci fosse un nesso, ma temeva di non poter nutrire molti dubbi a riguardo. L’agente Sewall, che per primo si era recato sul luogo del delitto, gli aveva sommariamente descritto la scena non lasciando molto spazio a considerazioni alternative.

    L’assassino, o gli assassini, non si erano nemmeno presi la briga di allontanarsi dalla città. Sfidandone apertamente le autorità, avevano abbandonato il corpo a meno di due miglia rispetto al precedente cadavere.

    «Apri gli occhi e stura la mente.» Lo ammonì per scuoterlo dai suoi soliti pensieri di autocommiserazione. Sapeva che Luke non era pronto ad affrontare un caso simile, ma non c’era scherno o malignità nel costringerlo a farlo. Non più di tanto. Era ora che anche lui si sporcasse le mani e, soprattutto, Vernon era interessato a cogliere le reazioni del collega, proprio perché del tutto nuovo a situazioni simili.

    «Ripassiamo: dammi i fatti salienti e la descrizione del corpo.»

    «Ecco le generalità della vittima.» Luke, metodico, era partito dall’inizio e intanto ritardava il dover voltare pagina e posare lo sguardo sulle fotografie. «Dana Clary, diciannove anni. Studentessa ad Harvard. Scomparsa da due settimane. La compagna di stanza ha avvertito i genitori che si sono rivolti alla Polizia. È stata vista l’ultima volta durante una rassegna cinematografica proiettata in un club vicino al suo dormitorio.»

    Luke sondava con la punta dell’indice le righe e i paragrafi del rapporto, come se confidasse in proprietà rabdomanti della sua appendice per svelarne i dettagli più importanti. Sembrava uno studente sotto interrogazione. Vernon guidava svelto, ma senza esagerare.  Superato il ponte in Country Street svoltò a destra osservando il campo da baseball vuoto, l’immobilità della forma senza contenuto, e poi l’erba grigia, il verde spento degli alberi, il cimitero dall’altra parte della strada. Vernon quasi dubitò di essersi svegliato nella stessa cittadina che sino a pochi giorni prima sembrava intenta a salutare la fine dell’estate con un’esplosione di colori caldi e accoglienti.

    L'autunno aveva regalato gialli screziati e i rossi vermigli che si doppiavano nei riflessi delle placide acque del fiume, su cui le tipiche imbarcazioni di legno bianco dei pescatori tracciavano pennellate liquide, dipingendo acquerelli di serenità. Erano state settimane di pura estasi visiva.

    Ma non oggi.

    Poco più avanti il Fourmile Pond, placido fiume e fedele specchio dell’umore della città, si limitava a prendere a prestito la lattiginosa vacuità del cielo, senza nemmeno fare lo sforzo di interpretarlo con qualche onda. Le barche legate ai pontili sembravano finte, nella totale assenza di corrente.

    Un breve tratto lungo Tansey Lane e poi svoltarono fuori dalla città, tra prati e macchie alberate, imboccando la Labor in Vain Road. Proseguendo in direzione del mare le abitazioni diventavano sempre più rade, rimaneva solo una manciata di residenze esclusive a spartirsi la vastità dell'orizzonte.

    La sua attenzione tornò a Luke.

    «Stiamo andando a vedere il cadavere, concentriamoci su questo aspetto, vuoi?»

    Vernon lo spinse a guardare le fotografie e a descrivergliele, avrebbero analizzato il resto in seguito.

    «La vittima è stata ritrovata completamente nuda, priva del braccio destro e della testa. La testa è stata tagliata di netto, con molta precisione, la parte del braccio rimasta attaccata al tronco presenta ferite e molti tagli di diversa profondità.» Vernon non vedeva l’espressione del collega, ma riusciva facilmente a immaginarne la bocca deformata dal disgusto e dalla rabbia. Doveva dargli atto, però, che la voce non tradiva alcuna emozione.

    «Altri particolari?»

    «Ci sono delle ferite sul fianco sinistro e sull’addome, potrebbero essere pugnalate, ma nessuna sembra essere stata mortale.»

    «Causa del decesso?»

    «Il referto del medico legale dice dissanguamento.»

    «È tutto?»

    Luke era passato ai documenti della scientifica, ma Vernon voleva che si concentrasse ancora sulle immagini.

    «Lascia stare il referto, guarda le foto. Sei sicuro che non ci sia più niente di importante?»

    Vernon sperava che Luke cogliesse l'occasione per imparare qualcosa ma sapeva di illudersi.

    L’ultima foto inquadrava il corpo che giaceva supino in mezzo all’erba, con i piedi in primo piano da una prospettiva molto schiacciata.

    «Signore, per quello che si può capire da questa foto, ci sono dei segni circolari intorno a entrambe le caviglie, poco profondi ma regolari.»

    Vernon rimase in silenzio per alcuni secondi. Cercava di inquadrare questo particolare nel contesto delle idee che si era fatto. Nel mentre, Luke sembrava nervoso come un ragazzino in attesa del giudizio dell’insegnante. Certe persone, rifletteva Vernon, rimangono sempre infantili. Si trovava di fronte a un probabile duplice omicidio e lui, per quella poca pressione che Vernon gli aveva messo, continuava a pensare solo a se stesso e alla sua reputazione di fronte a un superiore. Doveva proprio scegliere di fare il poliziotto?

    «Bene, secondo te cosa potrebbe aver causato quei segni?»

    L’alunno si prese qualche attimo per riflettere.

    «Forse era legata.»

    «Sul polso che le è rimasto, c’è un segno simile?»

    Scartabellò le immagini. Intanto la strada li aveva portati tra due grandi ville. Lungo la recinzione di un campo da tennis c’erano alcune macchine parcheggiate, tra cui due volanti della polizia e l’automobile del coroner.

    «No, signore, sul polso non ci sono segni.»

    Vernon fermò la macchina e saltò fuori. L’interrogazione era finita.

    TRE

    L’obiettivo principale della spedizione di Alex era identificare e possibilmente catturare un esemplare di Mamba bianco. Durante una precedente esplorazione nella regione di Tabora aveva conosciuto un bracconiere che sosteneva di esser stato attaccato da un lungo serpente bianco. Mentre questi era riuscito a salvarsi, il suo compagno di battuta era stato morso sul collo ed era morto poco dopo. La descrizione del rettile e dell’agonia dell’incauto cacciatore aveva solleticato l’immaginazione di Alex, che di quel serpente aveva sempre e solo sentito parlare, come di una leggenda. Il bracconiere, notando la sua eccitazione, lo aveva accusato d’insensibilità nei confronti del compagno morto, ottenendo per tutta risposta che invece era molto dispiaciuto, perché lui era sopravvissuto. Alex odiava i cacciatori.

    Ne era seguito un tentativo di rissa ma Alex, con la sua mano pesante, aveva spento ogni velleità nel cacciatore abbattendolo con un pugno alla bocca dello stomaco. Alex Athassiz aveva passato gran parte dei suoi cinquantotto anni nei luoghi più sperduti della terra, dove la natura è più ostile all’uomo. Era ancora forte ed impavido, coriaceo come i rettili che amava e studiava.

    Alex era un erpetologo, e lavorava come ricercatore presso l’università di Harvard. Aveva una moglie, Mary, che viveva a Boston e ogni volta aspettava paziente il suo ritorno a casa. Per quanto lui non condividesse il medesimo entusiasmo. Del loro rapporto non era rimasto che una confortevole abitudine.

    Negli ultimi anni si era dedicato agli esemplari più sfuggenti, quelli di cui ufficialmente non si riconosceva l’esistenza. Per mesi era stato sulle tracce del fantomatico Mokele-mbembe nelle foreste del Congo, senza però alcun risultato. Adesso la sua attenzione era stata catturata da quel rarissimo esemplare di Mamba, la cui descrizione sfumava nel mito, e che secondo la tradizione wanyamwesi faceva la sua comparsa solo in occasione di importanti cambiamenti. Nessun occidentale aveva mai avuto l’occasione di vederlo, né tanto meno di catturarlo.

    Per questo motivo, dopo l’incontro con il bracconiere, un Alex elettrizzato era corso da Stevenson, il direttore di facoltà, per chiedere il finanziamento di una nuova missione. La risposta era stata evasiva, sia perché si riteneva che il mamba bianco di fatto non esistesse, se non come esemplare albino del più comune kokoko, il mamba nero, sia per mancanza di fondi. Il direttore promise comunque ad Alex che avrebbe dato il suo consenso se avesse trovato il modo di dimezzare le spese, convinto che non ci sarebbe mai riuscito. Alex non si diede per vinto, si rivolse a musei, fondazioni private e riviste scientifiche senza alcun risultato, fino a quando, un giorno, qualcuno gli suggerì di rivolgersi al direttore della facoltà di Antropologia.

    Li trovò quello che cercava. La facoltà stava organizzando una spedizione nella stessa  zona della Tanzania. I finanziamenti anche in questo caso stentavano ad essere approvati. Aggregare le due spedizioni avrebbe fatto risparmiare entrambi gli istituti.

    Fu così che l’antropologo Fred Carlyssian e Alex Athassiz diventarono compagni di viaggio.

    Fred era un giovane docente di antropologia religiosa i cui brillanti risultati accademici, spalleggiati dall’influenza che suo padre, il senatore Carlyssian, aveva sull’istituto, gli avevano conscesso una notevole libertà d’azione. Si dedicava principalmente alle culture sciamaniche e ai cosiddetti culti cargo, ovvero come i popoli più primitivi interpretano in chiave religiosa il contatto con culture tecnologicamente più avanzate.

    La spedizione della facoltà di Antropologia in Tanzania, a cui si era aggregato Alex, mirata a studiare le sostanze utilizzate dagli sciamani africani per creare gli stati di trance necessari a entrare in contatto con dimensioni alternative della realtà.

    Durante i lunghi trasferimenti in aereo Alex si soffermava a osservare Fred mentre leggeva. Girava le pagine dei libri come fossero fumetti. Un’occhiata di pochi secondi e passava alla successiva. Divorava così decine di libri al mese. Questa stessa capacità d’immersione intellettuale lo aveva però isolato dalla realtà quotidiana. Per quanto rimarchevoli fossero le sue capacità professionali, la sua predisposizione alla socializzazione era pressoché nulla. Oltre a ciò, Alex aveva sempre l’impressione che qualcosa gravasse sulla sua spontaneità.

    Fred non avrebbe potuto essere più diverso da lui, ma questo anziché essere d’ostacolo al loro rapporto aveva prodotto una vivace e sincera amicizia. Alex era rapidamente divenuto una sorta di collegamento tra le oscure pieghe della contorta psicologia di Fred e il mondo esterno. Inoltre, la differenza di età lo portava a trattare il giovane antropologo come il figlio che lui e Mary non avevano mai avuto.

    ***

    «Chi diavolo poteva aspettarsi un contrattempo del genere. Se non sapessi che è impossibile, sembrerebbe una discriminazione culturale bella e buona.» Disse Alex. Beato lui. Magari fosse tutto così semplice. Lui e la sua filosofia.

    «Anch’io mi aspettavo un po’ di resistenza, ma non di essere cacciati via. Dobbiamo trovare il modo di tornare.»

    Fred rimase sul vago, non voleva che il suo turbamento trapelasse. Oramai si fidava di Alex, ma non avrebbe saputo come spiegare le emozioni che lo avevano travolto. Doveva prima chiarirle a se stesso. Quando entrarono a Tabora, era ormai notte fonda.

    Avrebbero dormito lì e poi si sarebbero trasferiti a Dodoma, un paio di centinaia di chilometri a sud-est, dove si trovava il quartier generale della spedizione. Il termine probabilmente era eccessivo, si riferiva ai tempi in cui le esplorazioni in Africa erano ancora un’avventura complessa da organizzare. Per Alex e Fred di fatto non era altro che un appartamento con due computer, un fax e una televisione. Più i comfort di un bagno completo di doccia.

    Fortunatamente la strada che collegava Tabora a Dodoma, anche se non completamente asfaltata, era molto più confortevole di quelle che avevano percorso il giorno precedente e il viaggio fu rapido.

    Dodoma era la capitale della Tanzania e lo si poteva intuire dalla presenza di edifici moderni e imponenti rispetto agli standard africani. In generale, era una città in crescita e dall’aspetto vivace.

    Abbandonarono la strada principale svoltando in un vicolo sul cui angolo c’era un ristorante, un vecchio edificio di legno scuro in stile coloniale, con il tetto e le ringhiere dipinte di bianco.

    Il loro appartamento si trovava al primo e ultimo piano di una palazzina moderna, grigia e spigolosa, il cui piano terra era adibito a garage e magazzino.

    Posteggiati i fuoristrada, lasciarono liberi Nyoka e gli aiutanti facendosi promettere che sarebbero stati pronti in qualsiasi momento a riprendere la strada.

    Sul tavolo del soggiorno trovarono un biglietto scritto a mano. Lo aveva lasciato Andrew, un diplomatico americano che li aiutava con le questioni burocratiche e che aveva le chiavi dell'appartamento. Un signore africano, diceva il biglietto, un sanasi, era venuto a cercarli e aveva lasciato l’indirizzo dell’albergo in cui alloggiava.

    «Strano, non trovi?» Fred si mostrò piacevolmente incuriosito.

    «Perché? Potrebbe essere chiunque, scommetto qualche grana burocratica.»

    «Non credo Alex, sanasi significa sciamano.»

    «Sciamano? Qui le cose si complicano. Prima veniamo cacciati in malo modo e ora sono gli sciamani che ci vengono a cercare?»

    «Infatti, ecco perché penso che sia

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