Mexican Taxi
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Mexican Taxi - Francesco Spano
me.
Bar Canadian
Se mi alzo un poco posso vedere la Senna attraverso i ricci di un ciccione seduto di fronte a me. È dicembre, e a dicembre il suo colore non ispira salute. È un verdognolo malato. Uno scorrere lento e insalubre.
Notre Dame come sempre è stracarica di turisti che fanno foto tutte uguali. Nel salotto di un giapponese ci sarà la stessa foto appesa nel salotto di un italiano. Sono le facce a cambiare, ma neanche più di tanto.
Sono seduto in Francia, a Parigi, in un bar. Un bar canadese. Che cazzo ci faccio in un bar canadese? Bevo birra, caffè e guardo partite di hockey, potrei rispondere.
La verità invece, anche se è difficile da ammettere, è che sono un romantico. E un abitudinario.
In questo stesso bar venni l’anno scorso con Camilla. Adesso invece sono solo. Camilla è tornata in Messico, mentre io sono pieno di scadenze da rispettare per poterla riabbracciare al più presto.
Parigi, insomma. E un bar canadese. Accanto a me legge il giornale una ragazza sui trentacinque, che sembra uscita direttamente da un film degli anni Ottanta. Maglione enorme a righe orizzontali, jeans che le arrivano allo stinco, scarpe da ginnastica bianche e un biondo estremo. È sciatta, senza trucco e con in mano una tazzona di caffè.
Di fronte, accanto al ciccione, uno spilungone di due metri uccide un piatto di patatine fritte con litri di maionese. Il ciccione dai capelli ricci, invece, dà il primo morso al terzo hamburger.
Mi guardo intorno, e tra i tavolini non scorgo neanche un negro. Cameriere asiatiche, mazze da hockey, tavolini in legno, fuori la Senna. Neanche un negro. O nero, oppure di colore, o africano. È che non so più come dirlo.
Come diavolo lo devo dire?
Mia nipote è mulatta, il ragazzo di mia sorella è nero come una notte senza stelle.
Come diavolo lo devo dire?
Un amico che quando si affronta il discorso premette sempre Io non sono razzista
, direbbe scimmie
o negri dimmerda
. Fatto sta che non ce n’è neanche uno. Strano.
Strano, perché Parigi è come la maglietta della Juve. Metà bianca e metà nera. Se per strada ti fermi a osservare le mani strette delle coppiette che camminano, sembra di rivedere le vecchie pubblicità Ringo Boys dei tempi migliori.
In Italia non è così. Da noi li vedi solo vendere accendini o cappellini con l ’elichetta incorporata.
Il livello d’integrazione qua in Francia è superiore, a quanto pare. Poi, qualche anno fa, la rivolta nelle banlieue. Tutto a ferro e fuoco. E l’integrazione? Che fine ha fatto? Cosa cazzo ci stanno vendendo?
Diciamo così: Parigi, a parte le rivoluzioni, è una città integrata. Libertè, egalitè, fraternitè. Blu, bianco, rosso e un casino di nero.
Non dovrei dilungarmi con questa storia del nero, o del negro. Il fatto, in realtà, è che vorrei scriverci su un racconto. Un racconto sui negri. Qualcosa a favore dell’integrazione, oppure fiotti di razzismo estremo. Mi è venuto in mente ieri notte tornando a casa, in macchina, con il cervello solleticato dalle bollicine di una ragionevole sbronza a champagne.
Iniziammo a bere verso le otto e mezza. Un’intera famiglia congolese mi aspettava per cena. Aspettavano lo zio
. A quanto pare, in Congo, lo zio è sacro. Potrebbero lavarti i piedi e il culo perché sei zio. Se gira un bambino nero vicino a una casa di negri, e se tu sei nella casa di colore insieme a bambini di cui sei inevitabilmente zio, allora sei zio anche del bambino che corre fuori dal palazzo. Zio.
Fatto sta che sono entrato nel giro degli zii sacri perché mia sorella ha conosciuto e ha fatto una figlia con un ragazzo di Point Noire, in Congo. Point Noire esiste anche da noi in Sardegna. Punta negra, una spiaggia del litorale algherese. Point Noire si affaccia sull’Oceano Atlantico. Chissà se anche laggiù l’acqua è ghiacciata, o se si vendono occhiali Dolce e Gabbana sulla spiaggia. Magari qualche italiano che smercia Rolex contraffatti chiamandoti capo
oppure amico
.
Si sono conosciuti in un ristorante turco. A Parigi. Si strafogavano di kebab e sorridendosi con pezzi di carne tra i denti si sono innamorati. Ricordo ancora mio padre quando in una battuta infelice gli dava della pecora nera della famiglia.
Non sorrise. Non se la prese. Semplicemente non capì.
Arrivammo verso le otto... Le cosiddette banlieue. Mia sorella portava in braccio la bambina. Io e la pecora nera ansimavamo con in mano buste piene di pezzi di uno stereo. Non chiedetemi il perché, dello stereo intendo. L’ascensore non funzionava e sgambettavamo fino al sesto piano tra piscio, sigarette e mozziconi di spinelli. Il tanfo era sopportabile, lo erano meno le scarpe che si appiccicavano a ogni scalino. Gnac, piscio, gnac, piscio, gnac, piscio.
Suoniamo il campanello. La porta rossa blindata si apre.
Si è aperta da sola? Non vedo nessuno.
Sento tirare i pantaloni all’altezza del ginocchio, abbasso la testa e ci sono due occhioni scuri e una manina nera che mi tasta le gambe. Benny, un bambino di quasi due anni, e accanto a lui Merchè, tutta treccine e calzamaglia rosa. In un attimo ci viene incontro un numeroso esercito di negri. L’armata nera che avanza contro l’uomo bianco che è giunto a invadere e colonizzare anche quell’angolo di Africa ritagliato nel paese colonizzatore. Sono circondato. Braccato. Non vedo nessuno. Mi sento stringere da tutte le parti e baciare le guance, e ripetere il mio nome da sconosciuti con pelle scura.
Dalla penombra dell’ingresso veniamo trasportati nell’abbacinante luce di un salotto dignitoso, in cui borbotta nobilissimo un televisore ultrapiatto di 52 pollici.
Cazzo, sono finito al cinema!
Riesco a prendere coscienza del mio corpo e delle sagome che mi si affollano intorno. Mi rilasso.
Lui è Fefè, il cugino di mio cognato. Ha i capelli corti, la pancia grossa e una maglietta rossa a maniche corte. Mi parla in francese e respira con quel cazzo di naso enorme, e io non ci capisco un cazzo.
Lei è Pierrette, la moglie di Fefè. Ha i capelli esattamente uguali a Claire Robinson, ed è avvolta in un largo vestito tipicamente africano.
Lui è Jaures, un altro cugino, ala destra di una squadra di serie C dei dintorni di Parigi.
I bambini sono quattro. Il piccolo Benny, la bella Merchè e Gracy e Prisnel, più grandicelle e con il naso del padre, Fefè.
Sprofondo impaurito nel comodo divano in pelle verde.
Mi guardo intorno per prendere confidenza con l’ambiente. Sulle pareti fanno bella mostra di sé foto grandi come poster. Gigantografie del matrimonio di Fefè e Pierrette. Fotomontaggi di loro due in abiti elegantissimi ma dai colori improponibili (tipo abito rosso fuoco e cravatta giallo canarino), proiettati dentro paesaggi tropicali, sospesi per aria tra due palme in una ipotetica spiaggia del sud.
Non sono solo, Benny e Merchè mi si sono attaccati come piattole, una al collo e l’altro alla gamba, stringono e ridono, li immagino come zanzare e posso già sentire la fottuta febbre malarica che mi consuma fino alla morte.
Credo che Fefè abbia notato il mio disagio e apre un’anta magica dell’armadio sacro. Brillano bottiglie e bottiglie di champagne, le stesse bollicine meravigliose, penso, che solleticarono le palle del Re Sole, e accentuarono le voglie clitoridee di parecchie giovani sozze alla Bastiglia.
«Cazzo, comprano sempre uno spumantino di merda e oggi che ci sei tu lo champagne!»
Mia sorella si lascia sfuggire una verità che rivela la sacralità che comporta il grado di zio.
Inizio a stare meglio: sono amato, coccolato, nessuno mi vuole mangiare, i cannibali resistono solo in una piccola comunità di indigeni in Indonesia.
Appena entrato, avevo subito notato che Fefè si era lasciato sfuggire un benvenuto e qualche altra parolina in spagnolo.
«Come mai parli spagnolo?»
Respira forte e con quel suo nasone enorme, si piega in avanti, mi riempie il bicchiere di champagne, e inizia a raccontarmi in spagnolo (lingua che capisco notevolmente meglio, nonostante la mia discendenza sia macchiata da una orrenda erre moscia francese che tradisce l’origine d’oltralpe) i motivi del perché padroneggi anche quella lingua oltre che il francese, quattro o cinque dialetti africani e un good morning niente male, in inglese.
Quando aveva undici anni partì per Cuba, da solo. A quanto pare Congo e Cuba avevano relazioni che comprendevano interscambi di bambini piccoli e neri da iniziare alla promiscua arte di riempirsi gli occhi di gambe sbucciate di alcune delle troie più povere del mondo.
Me lo immagino fermo, piccolo e nero come un cucciolo di pantera con la candela al naso, indurita da un vento polveroso, che guarda le tette di una giovane puttana comunista.
Mentre racconta, il suo tono di voce si alza fino quasi a urlare, e lui ride, fino quasi a crepare. Poi, improvvisamente, riempie ancora il bicchiere, e continua.
Finite le superiori ha studiato informatica in un politecnico.
«E perché te ne sei andato?»
Mi rendo conto di aver appena pronunciato la tipica domanda che potrebbe aprire ferite disumane nella memoria di una persona, oppure bagnare gli occhi di perline che, come palle magiche, racchiudono il proprio passato.
Oppure potrebbe scaturire un semplice Fatti i cazzi tuoi!
Niente di tutto questo. La sua risposta è ingenua e segue un altro pieno al bicchiere, e il botto di una nuova bottiglia.
«Cuba non è una terra fatta per viverci, Cuba è terra di vacanza, un mese al massimo e poi via. Cuba è invivibile, povera e repressiva».
Quelle parole, dette da un congolese, mi fanno sussultare, non riesco proprio a immaginare Cuba peggio del Congo. Tra le palle dell’albero di Natale che si erge di fronte a me, mi fisso su una. Compare la faccia di un Che Guevara incazzato più che mai. "Cazzo, stronzo di un negro dimmerda urla da dentro la pallina.
Sono venuto fino al tuo paese dimmerda, fatto di mangia banane del cazzo, per lottare per stronzi come te, la mia terra adottiva rossa e rivoluzionaria ti ha dato da mangiare per anni, e tu ti permetti di dire che Cuba è una cazzo di terra fatta solo per grossi stronzi in giacca che vengono a fottere le nostre donne! Brucia, negro!"
Chiudi il becco, comandante!
Vacanza o non vacanza, Fefè partì per Parigi, a lavorare fuori da un supermercato, a tenere in ordine i carrelli della spesa. Cuba