Effetto Donna
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Effetto Donna - Laura B. Salimbeni
Nota
Cap. 1 ELISABETTA
ARIETE, LA PRIMAVERA ACCENDE LA PASSIONE
Elisabetta piangeva quella sera di accennata primavera. Eravamo sedute nella sua auto e mi raccontava, piangendo a tratti, delle sgarberie del marito. Era amica di mia sorella e la conoscevo da sempre; ragazzette avevano vissuto i loro flirt, partecipando e sostenendosi vicendevolmente nel perenne scontro con i maschi.
Anche ieri è tornato dal negozio, ha posato sul letto un sacco della boutique Bonini, come sempre non si fa mancare nulla, due camicie e un maglione di cachemire. Senza nemmeno salutarmi, se n’è andato a giocare al tennis.
Cercai di sdrammatizzare ricorrendo ad una banalità, lo sai tutti gli uomini sono egoisti…
Le lacrime inondavano il suo viso e bagnavano il suo petto che ansimava nel pianto e nel racconto. Ero attratta da quei suoi gesti, spostare i capelli, lunghi e neri, dal collo per il caldo. Non avevo nulla per asciugarle quelle lacrime e feci il gesto che mi rivelò a me stessa. Strappai la mia maglietta e dal fondo ne trassi uno straccetto così le asciugai il viso. Lei si chetò, mi guardò con stupore, che fai, mi disse. E io, niente, solidarietà femminile.
Sai, non vorrei credessi che sono attaccata a queste cose, a me, un jeans e una maglietta avanzano. E’ solo per dire che mi tratta come la serva, io a casa col bambino a cucinare e lui, tutta la libertà del mondo… e non mi sembra giusto!
terminò alterandosi.
E’ il padrone della mia vita, devo solo allargare le gambe la sera a letto, poi, il resto non conta…
, esalò le ultime parole con una rabbia che finalmente esplodeva.
A quelle parole il mio stomaco si contrasse. Io ero così libera e non solo della mia vita ma dei miei pensieri, del mio futuro e allo stesso tempo mi sentii privilegiata ma sconsolata per lei. Com’era possibile che alle soglie del duemila le donne non avessero trovato il modo – pure dentro il matrimonio – di farsi valere, di contare?
Come avesse ascoltato i miei pensieri, continuò, E’ solo una questione di soldi, dei maledetti soldi. Avessi almeno un parente che potesse aiutarmi, me ne andrei domani.
Quando mi riaccompagnò a casa quella sera, una delle rare volte in cui ci vedevamo per un caffè o un gelato, restai a lungo sveglia a pensarla.
Riflettevo tra me che l’amore è ben strano, ci s’incontra, ci si innamora e le persone si costruiscono un bel muretto intorno a protezione della loro felicità, che utopia! Quello stesso muretto diviene col tempo e con le incomprensioni, le diversità di carattere, le pareti della tua dorata prigione.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali io facevo la mia vita di sempre. Elisabetta mi telefonò per dirmi che aveva avuto una discussione con Giovanni, il marito, che lui le aveva fatto capire che tutte le donne hanno dei doveri, così come lui aveva quello di lavorare e portare il denaro necessario a casa, quindi era meglio che non si facesse venire i grilli per la testa e non si montasse troppo. Così ho fatto quello che faccio sempre per riaggiustare le cose: ci faccio l’amore o per meglio esprimermi, gliela do…
Quelle parole mi fecero male, immaginai quella giovane donna piena di temperamento, allegra e solare, doversi piegare controvoglia alle voglie del marito. Per una femminista come me, era intollerabile, sfiorava la violenza. Mi disse anche che per qualche giorno non sarebbe uscita, voleva che tutto si appianasse e tornasse nella banalità più scorrevole, per il bene di tutti.
Quando si soffre per la mancanza di qualcosa e, facendo qualche tentativo per accaparrartela, fallisci, allora è ancora peggio di prima, conviene stare fermi, immobili, si soffre meno.
Io credetti al suo ravvedimento
invece era solo un vulcano che rimandava l’esplosione.
Quel magone che mi aveva fatto crescere andò aumentando man mano che Elisabetta mi mostrava la sua sofferenza, la sua frustrazione di donna.
Io passavo sotto il suo appartamento al primo piano e lei si affacciava per salutarmi. Gesti innocui per alleviare la sua solitudine. Un pomeriggio venne a trovarmi un’amica, le chiesi di accompagnarmi, avevo voglia di parlarle per sapere come stavano andando le cose con suo marito.
Così suonammo al citofono e salimmo. Elisabetta ci accolse come d’inverno un gatto randagio i raggi del caldo sole. Dopo i saluti ci fece accomodare e la conversazione partì. Elisabetta aveva un canino, Roki, lo accarezzai finché sentii sulle mie mani le sue mani: le nostre mani si accarezzavano accarezzandolo. Provai un brivido, fu come se una porta si spalancasse e si passasse dal buio alla luce più accecante. All’improvviso arrivò Giovanni, ci presentammo e stette un po’ lì con noi, guardandoci.
La sera seguente Elisabetta passò a prendermi a casa e andammo a parlare dietro il cimitero, un posto poco frequentato.
Lì al buio - e nel silenzio di tomba più assoluto - mi parlò di sé, della sua infanzia a Torino, delle violenze sessuali di suo padre. Della stupidità cattiva di sua madre, che sapeva ma che non lo aveva cacciato né dal suo letto né da casa. La odiava così come odiava il padre. La sua sofferenza mi toccava l’anima, mi faceva tenerezza e mi dava dolore.
Mi sentivo molto vicina a lei perché sapevo anche di altre donne che avevano subito violenze in famiglia, la violenza maschile si manifestava devastando innocenze e lasciando segni incorreggibili.
Elisabetta era alta più di me. Il corpo magro e slanciato, un viso da zingara con una bocca a cuore che mi faceva tremare. Era allegra, amava il sole, il mare, la vita, le persone. Ottimista e compagnona. Insomma era il ritratto della primavera, era vitale e sempre pronta a partire che fosse un luogo o una persona o un progetto, bastava dare inizio a qualcosa. Mi girai verso di lei e l’abbracciai, era lì nel buio accanto a me e ricordo che ci baciammo. Dapprima con dolcezza, sfiorandoci le labbra, poi con passione. Facemmo una gran fatica a smettere e a tornare a casa, prima delle undici, era il suo orario coniugale, prima che Giovanni torni a casa, non voglio discussioni, mi ripetesti.
Avevamo acceso ingenuamente un fuoco che avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili.
Giovanni non aveva gradito la visita di amiche a casa, (ho visto che vi toccavate le mani), pretendeva continuamente di avere rapporti in una sarabanda sessuale senza fine. Lei era disperata perché non godeva mai a fare l’amore con lui, capace solo di protratte penetrazioni. Non aveva mai raggiunto un orgasmo con lui, fingo sempre, se lo sapesse, convinto com’è di essere un grande amatore, si arrabbierebbe come un pazzo.
Lei mi telefonava e io le telefonavo quando sapevo che lui non c’era.
Arrivò un giorno che non chiamò più. Io giravo per tutta la città cercando d’incontrarla e chiederle spiegazioni. Infatti di lì a qualche giorno la incontrai. Così seppi che suo marito le aveva tolto l’uso del telefono, lo aveva nascosto. Ma nei giorni seguenti escogitò un sistema ingegnoso recuperando un vecchio apparecchio senza disco ma che lei riusciva lo stesso a far funzionare in base agli impercettibili scatti che faceva, ne contava sei ed era il sei, ne contava nove ed era il numero nove. Gli occorrevano minuti buoni per comporre l’intero numero ma così faceva per chiamarmi.
Quando ci vedemmo sentii che era nato qualcosa fra noi perché ridevamo per un nonnulla e per le mie battute che erano diventate d’un tratto tutte divertenti, io avevo un fuoco dentro che rendeva vivido tutto quanto mi concerneva. Smisi di dormire e di mangiare.
Il problema fu che era difficile avere del tempo per noi. Passavano i giorni ma più che qualche minuto la sera dietro casa sua o dietro il cimitero non potevamo permettercelo.
Una sera mi chiama tutta felice e mi informa che Giovanni inizia una nuova attività, per cui praticamente starà fuori casa tutto il giorno, ti va di vedermi domani all’alba, dalle sette alle undici circa? Il mio cuore smise di battere, il desiderio di lei aveva permeato l’intero mio corpo e la mia mente, il desiderio di lei era una nenia che sfiorava la sofferenza, giorno e notte.
L’indomani mattina, poche persone in giro, lei bella e sorridente, c’incontriamo. Senza parlare la faccio salire in macchina e, captando anche lei l’atmosfera magica, tace. Metto la prima e in pochi minuti siamo nel mio piéd-a-tèrre, nella parte alta della città. Mi fermo davanti, la guardo e le chiedo: ti va, vuoi anche tu?
Lei mi guardò con una specie di sgomento, e con un filo di voce mi rispose così, non lo so, per me è la prima volta, non lo so, ho paura.
Io le strinsi le mani e le dissi che non doveva assolutamente aver paura di nulla, ho solo voglia di abbracciarti, di sentirti nuda contro di me. Non posso farti male.
Elisabetta dopo qualche istante si sciolse nei miei abbracci e sotto le mie carezze ebbe il primo orgasmo della sua vita. Ricordo le sue lacrime di gioia, i dubbi che l’avevano assillata si scioglievano come neve al sole. Aveva avuto sempre la convinzione di non essere fatta come le altre donne, di avere dei difetti di fabbricazione, non mi sono mai confidata con nessuno. Dio com’è bello!
Ci abbracciavamo e ci baciavamo. Devo dire che imparò presto l’arte dell’erotismo, perché sotto le sue movenze e seduzioni da vera geisha, appena cominciava a toccarmi io andavo in una specie di delirio sensuale che mi lasciava stordita e senza forze. Uno stato di estasi che credo di non aver mai più provato. Pura estasi di tutti i sensi, intendo.
Elisabetta spiccava nella penombra, questo corpo magro febbricitante di passione, riusciva a mandarmi in paradiso.
Contrassi per lei una vera passione, una malattia che mi ha tenuto accanto a lei anche quando ebbi motivi per non stimarla più.
Col tempo, lei pensava solo a me e non lo sopportava più, suo marito era diventato quello che forse era sempre stato, un perfetto estraneo, estraneo alla sua vita interiore, alla sua vita sessuale. Avevamo preso una strada di non ritorno e lei non riusciva più a ricomporre il puzzle della sua vita. Io ero libera e tutta la mia vita era in questa passione divorante.
Un giorno fortunosamente la incontro e mi annuncia che deve andare a Torino da sua zia per motivi di famiglia, mi chiese di accompagnarla. Io le chiesi come avremmo fatto e lei mi disse che Giovanni lo sapeva, dunque sarebbe passata a prendermi di nascosto da qualche parte e saremmo potute stare insieme.
Durante il tragitto mi disse d’essersi confidata con sua zia, che adorava e dalla quale era adorata, le aveva parlato di noi e ci aspettava. Io mi sentii morire, non la conoscevo ed ero restia. Elisabetta mi tranquillizzò, vedrai che vi piacerete.
Mi piacque perché appena arrivammo ci fece trovare la tavola apparecchiata e una camera matrimoniale bell’e pronta. Aveva mandato via i figlioli con delle scuse e ci disse che la casa era tutta per noi.
Mangiammo un boccone e scappammo in camera. La zia ci disse che sarebbe tornata solo all’ora di cena.
Credo che ci mangiammo vive, quel letto lo scardinammo, le acrobazie le facemmo tutte, le parole più folli che raccontano il desiderio le dicemmo tutte e cominciammo a fare anche dei progetti per il futuro. Io ebbi qualche timore perché Elisabetta aveva un figlio e a sentir parlare di lasciare Giovanni mi creava ansia. Lei non lavorava anche se aveva grandi abilità manuali, sapeva ricamare e cucire, cose che aveva già fatto per un negozio di abbigliamento.
Quando