Ispàntu. Racconti
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Ispàntu. Racconti - Pietrino Pischedda
Racconti
PRESENTAZIONE
Questo mio libro di racconti è stato pubblicato in versione cartacea nel luglio del 1998 presso WM Group Srl di Atripalda (AV) per AETAS Edizioni Internazionali, Roma.
In memoria del carissimo amico Editore di AETAS, Giamberardo Berardelli, riporto tra virgolette, l’introduzione da lui curata per quella prima edizione:
«Ispàntu: meraviglia… Una parola della lingua sarda ricca di significato. Meraviglia per il sole che nasce lievemente dalle onde, quando l’alba perlacea irrora della sua luce morbida un paesaggio singolare, pieno di contrasti. Meraviglia per la singolarità caratteriale di taluni, che sfocia talvolta nella stranezza, meraviglia per la capacità di comprensione, di tolleranza e anche di genuina bontà della gente comune, perfino nelle situazioni in cui essere buoni
non è cosa facile. È una Sardegna ricca di umanità, quella descritta nel libro, di sicuro la più vera, la più amabile e amata. Indubbiamente originale e indovinata la trovata
dell’autore di basare ciascun racconto su una espressione tipica della lingua sarda, quasi che le parole possano incarnare la realtà della vita quotidiana e incarnarsi in essa, farsi eco e allo stesso tempo suggestione di pensieri, atteggiamenti, momenti esistenziali.
Pietrino Pischedda mostra di possedere uno stile narrativo personale, attento a cogliere le sfumature caratteriali dei personaggi, come fossero frammenti di humanitas da conservare, da non disperdere senza rimedio nelle nebbie della disattenzione.
Non è facile sfuggire al fascino dell’atmosfera sospesa di Ite este suzzessu ista notte!, una storia minima (vi si racconta la storia di Lughìa, una donna che tutti in paese considerano santa) che riesce tuttavia a prodigiosamente restituire un momento di preziosa congiunzione tra la realtà terrena e quella ultraterrena, tra tempo ed eternità.
Ed è impossibile non essere toccati dalla figura dell’Imboligosu, ambigua e inquietante, così come quella di Tilippu l’abbudegadu, un disgraziato che si consola gonfiandosi di cibo, e che arriva a farsi quasi sbudellare dal filo spinato, nel tentativo di procurarsi un piatto di lumache.
Il lettore potrà scoprire nelle pagine del libro altre storie e altri personaggi non facilmente dimenticabili, perché felicemente descritti con l’inchiostro più efficace: quello della verità». (Giamberardo Berardelli)
Il significato delle parole in lingua sarda è nelle Note, alle pagine 65 – 66.
I fatti e i personaggi di cui si narra in questo libro sono immaginari. Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è del tutto casuale.
Alla dilettissima Lea
Temporis Fructus
SU KABBANUi
Curvo per gli anni e per la fatica, una mattina gelata d’inverno, poco prima che spuntasse l’alba, nonno Antoniii Rimundu s’avviava, cavalcando l’asinello, verso un suo podere non molto distante dal centro abitato.
Le strade di Suni, piccolo paese di un migliaio di anime, nel cuore della Planargia, quasi all’estremità della provincia di Nuoro, non erano illuminate. Come potevano nella miseria del dopoguerra?
Il pallido incipiente affacciarsi dell’aurora faceva intravedere una sagoma nera che, al dondolio della cavalcatura, rendeva ancora più suggestivo il paesaggio all’intorno.
Il vegliardo, avvolto nel suo kabbanu, appena lasciava scorgere la faccia allungata con il naso imponente ma dignitoso. Quel manto nero, pesante, col cappuccio fratesco, faceva di lui un notabile. A me bambino sembrava un cavaliere antico.
Era saggio e tutti in paese gli portavano rispetto e accorrevano a lui per avere consigli. Era gentile, amichevole e, allo stesso tempo, schivo e pudico. Tutto casa e campagna. Non amava andare, come altri, nel crocevia del paese a passar tempo.
Gli uomini che facevano crocchio sempre nello stesso punto, ricoperti anch’essi da quel cappotto nero, nelle giornate invernali, assomigliavano alla compagnia della buona morte. Una massa nera, nera come la miseria che nel periodo postbellico aggrediva impietosamente quasi tutte le case. Chi possedeva su kabbanu non era un miseraccio. A quei tempi averne anche solo uno era un lusso. E mio nonno era un agiato proprietario terriero, che poteva indossarne uno per la campagna e i giorni feriali e un altro per le feste comandate.
Nell’ora in cui egli usciva, di buon mattino, il paese era ancora immerso nel sonno. Nei cortili delle abitazioni di tanto in tanto si poteva udire il canto mattutino del gallo col suo chicchirichì.
Tiuiii Antoni Rimundu – così era chiamato comunemente dai più giovani – era uno tra i pochi a recarsi in campagna così presto.
Arrivò a S’Alusi quando già albeggiava. Il terreno si adagiava in una vallata amena, ricca di frutteti e atta al raccoglimento. Il silenzio era di quando in quando interrotto dai passi frettolosi dei contadini trainantisi dietro il giogo dei buoi con l’aratro di legno. Il podere era un Eden incantevole. Vi scorreva in mezzo un ruscello copioso e anguillifero. C’era anche una sorgiva con una volta di rovi, accessibile soltanto da un lato.
Qui accanto il vecchio era solito sedere per consumare il pasto a colazione e a pranzo e dissetarsi attingendo l’acqua con la ciotola di sughero. Qui, dopo la fatica, si sdraiava avvolgendosi con la sua magica coperta nera. Il freddo pungente dell’inverno, che anche in Sardegna, nell’entroterra, si fa sentire, non lo scalfiva minimamente, perché si trovava come in una casa calda e accogliente.
D’intorno si respirava il