The Blue Goose, La spilla
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Book preview
The Blue Goose, La spilla - Antonia Pescatori
Ringraziamenti
Nota dell'autore
Benvenuto, caro lettore!
Innanzitutto, grazie per aver scelto di dedicare un po' del tuo tempo alla lettura di questo romanzo.
Volevo precisare che tutto, qui dentro, è frutto della fantasia dell'autore, per la precisione la mia, di fantasia. Nomi di persone, di oggetti, di mezzi, di luoghi, ovviamente persino i fatti narrati qui. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti veramente accaduti è puramente casuale.
Amelia, la nostra protagonista, ogni tanto ricorda delle trame di alcuni libri che ha letto, riassumendole in poche parole. La maggior parte di questi sono libri veri, per questo metterò le note con i titoli e gli autori, nel caso possano interessarvi. La storia dell'Oca Blu e la bambina invece è mia, in realtà è più una filastrocca che una storia vera e propria. Forse prima o poi la scriverò.
Nel libro ho utilizzato dei termini medici, forse in modo inappropriato od errato, chiedo subito venia per questo, fingiamo siano licenze poetiche?
Questo piccolo romanzo è un'opera prima, Vi chiedo di chiudere un occhio, durante la lettura, nel caso incontraste qualche errore. Spero non li chiudiate entrambi!
Ora Vi lascio alla storia di Amelia, buona lettura,
Antonia
"Vieni con me, bambina
disse l'oca blu, scuotendo la codina
ti insegnerò a volare
Va bene
rispose la bambina
sistemandosi la gonna
ma svelta, che si fredda il tè"
L'oca blu e la bambina, di Antonia Pescatori
"But who can decide what they dream,
and dream I do"
Taking over me, Evanescence
Capitolo 1,
La seduta
A lei capita mai di fare un sogno ricorrente, dottore?
No, ma se vuole mi racconti il suo, Amelia. È nuovo o è uno dei soliti?
E uno dei soliti, dottore, ma non mi sembra di avergliene mai parlato prima.
Allora, mi racconti pure, Amelia.
"Si, d'accordo. Mi trovo sempre in un posto che conosco, che sia un parco, una casa con un grande giardino, e devo attraversarlo. Fuori, in giardino, nel parco, ci sono delle bestie feroci, sempre felini. Veri felini, animali veri.
Felini veri, di grossa taglia. Leoni, per lo più. Io li vedo, li sento. Sono terrorizzata. Com'è possibile, mi chiedo, abbiano deciso di tenere degli animali così pericolosi liberi? Perchè proprio ora che devo attraversare questo posto, loro sono li? Ho paura, nel sogno. So che anche loro mi hanno vista, che mi possono fiutare. Mi incammino comunque, consapevole che mi seguiranno. Inizio ad accelerare il passo e mi sento braccata. Li vedo arrivare, li sento correre e ruggire dietro di me. Corro anche io. Avvisto la mia meta, la porta, il cancello della salvezza. Sono a pochissimi metri, un ultimo sforzo, corro più veloce, non mi volto mai, mai. Poi improvvisamente, mi ricordo, e attenzione dottore, mi RICORDO che loro, i leoni, le tigri, gli animali che mi stanno inseguendo, non vogliono farmi del male. Sono miei amici, sono li per me. Mi fermo, mi volto. Mi vengono incontro, si avvicinano. Allungo una mano, per toccarli, e sono in pace. Penso che non ci sia nulla di più bello, di così perfetto, della sensazione della pelliccia ruvida fra le mani. Sfrego il viso nella criniera, inspiro l'odore selvatico. Allora, e solo allora, mi sveglio."
Bel sogno,
dice lui. Davvero. Molto emozionante. Denso di significati ancestrali, metafore. Vuole che lo analizziamo?
lo guardo e, come spesso mi accade durante una delle nostre sedute, vorrei colpirlo forte in testa con il vaso di tulipani di cristallo che si trova sul tavolino accanto alla sua poltrona. Per distogliermi dai propositi violenti, lascio vagare lo sguardo su e giù per la stanza. Lo studio è molto freddo, scuro, sterile. Non ci sono finestre, si trova al piano interrato di un palazzo di quelli antichi, uno dei pochi rimasti, piccoli gioielli incastonati fra i grattacieli e le vetrate dei negozi. Pochissimi mobili, sulle pareti i diplomi e le lauree, un tavolo enorme, due poltrone e un piccolo tavolino da tè, sul quale troviamo l'obbrobrio di cristallo e una brocca con due bicchieri. Nella brocca, riempita per metà, acqua. Niente ghiaccio. La temperatura è ottimale. Le poltrone sono vintage, di pelle verde, grandi braccioli. Ti siedi, e le trovi scomode. Trovi la giusta posizione nel momento esatto in cui la tua ora di analisi finisce. Bello, vero? In effetti, penso, tutto qui ti da la sensazione che funzioni, che vada bene per un tempo stabilito, scaduto il quale restare ti sarà impossibile. La poltrona diverrà scomoda, la temperatura si abbasserà o si alzerà, l'acqua finirà. La stanza si accartoccerà su se stessa e ti inghiottirà, gettandoti nelle viscere infernali della terra. Pensieri positivi, mi dico, e rispondi al dottore, mi dico.
Gli rispondo, cercando di mantenere un tono il più neutro possibile. Liscio come l'acqua, tiepido, comodo.
No, no, era solo per raccontarlo a qualcuno,
mi trovo a dire.
Sembra sempre così reale, così vero. Una volta tutti i miei sogni erano così, mi facevano sentire bene. Mi lasciavano una bella sensazione anche da sveglia. Ora non ne faccio quasi più, di bei sogni così.
Il dottor Blande sospira, alza un sopracciglio e mi dice la solita frase con cui giustifica le mie piccole lamentele.
Sono le sue medicine, Amelia. Abbiamo aumentato la dose perchè durante le sedute del mese scorso si era lamentata di sogni così vividi e macabri da impedirle di prendere sonno. Se vuole, possiamo provare a diminuire il dosaggio e vedere come va.
Il dottor Blande è un uomo molto affascinante, devo ammettere. Occhi azzurri e penetranti, sorriso sornione, fisico massiccio, sembra più un marinaio che uno psicologo. Credo che lui lo sappia e gli piaccia apparire per ciò che non è. Oggi indossa pantaloni neri abbastanza larghi, una maglia leggera con lo scollo a V. Tutto rigorosamente nero. Non l'ho mai visto indossare nessun altro colore, da quando vengo qui. Mi chiedo se lo faccia perchè anche io vesto prevalentemente di nero, ultimamente. Forse lo fa per mettermi a mio agio, per quanto lo si possa fare con una donna che è convinta di non essere umana, o per lo meno non totalmente.
Amelia?
Mi chiama lui, riscuotendomi dai miei pensieri.
No, Dottore, no. Va bene così. Per il momento, almeno.
Ma certo, Amelia. Per il momento. E, mi dica, il resto come va? Sta uscendo di casa? Vedendo persone? Ha provato a fare l'esercizio delle dieci parole?
Vorrei mentirgli , dirgli si, certo, esco tutti i giorni, faccio lo stupido esercizio delle dieci parole, ceno fuori, incontro persone.
Ma sto zitta. Non ho voglia di ammettere un altro fallimento.
Amelia, oggi proverà, me lo promette?
Sospiro, faccio un cenno col capo.
A lei ne ho dette molte più di dieci, Dottore.
Si,
sorride lui, Si, ma noi ci conosciamo. Ora la seduta è finita, mi prometta che per la prossima seduta avrà delle novità da raccontarmi.
D'accordo, dottore. Lo farò.
Perfetto!
Il suo sorriso sornione non si estende quasi mai agli occhi, noto ora, mentre mi tende la mano e mi accompagna verso la reception. Lì trovo ad attendermi una ragazza molto carina, coi capelli rosso fuoco ed un fiume di lentiggini, che mi porge il mio cappotto e la mia borsa. E la mia ricetta dei medicinali. Lei è la seconda persona con cui parlo di più, in questo momento. Si chiama Claire , avrà circa 25 anni, lavora qui da poco più di un anno e fa il turno della mattina, proprio quando vengo io. Indossa sempre le maniche lunghe, anche d'estate. Non che qui faccia poi caldissimo. Sorride sempre, è gentile. Non mi fa domande. Questo è sempre un punto a suo favore. A volte mi offre del tè, mentre aspetto il dottore. Non è quasi mai in ritardo, prende sempre gli appuntamenti in modo che i suoi pazienti non si incontrino mai, per evitare che si sentano giudicati, che si agitino più del dovuto. Se i suoi pazienti sono tutti come me, penso, ha fatto proprio la scelta giusta.
Pesco dalla tasca l'assegno con il pagamento delle sedute mensili, Claire lo prende e lo mette in una piccola cassetta rossa che tiene sotto il bancone e compila la mia ricevuta con una grafia impeccabile, nitida, chiara.
Le faccio i complimenti, come sempre.
Sorrido al dottore, che mi dice che è per questo che l'ha assunta. Io,
commenta, scrivo da cani.
Saluto entrambi.
Arrivederci, Amelia
dice il medico.
Arrivederci, Miss Amelia
dice Claire.
Arrivederci, dottor Blande. Arrivederci, Claire.
Esco dallo studio, la massiccia porta si chiude alle mie spalle. E' di legno intarsiato. Spesso mi fermo ad osservarla, la porta. È ricoperta da una lamina argentata, sembra un'enorme grata nei cui quadrati vi sono degli intagli, tutti uguali per dimensioni ma di disegno diverso. È ipnotica. Vorrei avvicinarmi di più, ma temo che possano aprirla e trovarmi li fuori con la faccia da pesce lesso mentre ammiro gli intarsi. O che nel frattempo arrivi un altro paziente, che mi veda e si agiti. O che mi faccia agitare. Quindi mi volto, e percorro il corridoio.
Prendo l'ascensore. Salgo al piano terra. ci sarà un taxi ad aspettarmi, come sempre.
Capitolo 2,
Il gioco delle dieci parole
Mi chiamo Amelia. Ho 28 anni. Vivo da sola, in un appartamento in un palazzo situato nel 4 anello della periferia nord della città. L'appartamento è abbastanza grande, molto bello, lussuoso. Vivo qui da circa due anni, prima abitavo nel palazzo dei miei genitori. Loro sono morti in un incidente circa una decina anni fa. Non erano molto affettuosi, ma erano piuttosto ricchi. Molto, molto ricchi. Sono stata cresciuta dalla servitù, cortese ma mai affettuosa, gentile ma mai empatica. Non sono andata a scuola, ho studiato a casa, col programma. Da circa due anni a questa parte ho sviluppato una strana psicosi, come la chiama il mio psicologo. Una rivelazione, la chiamo io. Nella mia mente si è fatta strada, come un bruco nella polpa di una mela, si può dire, la convinzione di non essere umana. Almeno non completamente. Di essere una specie di bioautoma. Un manichino con ricordi innestati. È iniziata con dei sogni molto strani, con la sensazione, al risveglio, di essere una delle persone che avevo sognato. I miei ricordi sono freddi, grigi. Non ci sono sentimenti, in essi. Sono vuoti, come fatti di vetro, non provo nulla quando ci penso. Come se non fossero veramente miei. I sogni invece sono vividi, densi di emozioni. Poi, pian piano, i ricordi riaffiorano, il vuoto si riempie, le altre Amelie lasciano il posto a me, ai miei ricordi grigi e freddi. Mi chiamo Amelia. Ho 27 anni. Ho 28 anni. Vivo da sola, in un appartamento