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L'egoismo del respiro
L'egoismo del respiro
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L'egoismo del respiro

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Colton Miller, trentaquattrenne senza famiglia né ricordi del passato, indole fredda, lucida e pragmatica, ci porta nel suo mondo, fatto di disprezzo per il conformismo e per le persone egoiste che fanno dell’immagine il proprio vanto, ma celano segreti viziosi e conducono una vita improntata all’ipocrisia.

Colton sfoga i suoi sentimenti di rabbia repressa e ribrezzo uccidendo, togliendo lentamente la vita, sentendola sfuggire tra le sue mani, carpendo ogni singolo istante degli ultimi respiri delle sue vittime.

Ma improvvisamente qualcosa irrompe nella sua vita, cambiando e scombinando i suoi piani: l’amore.

Pur continuando la sua attività di killer, Colton inizia a provare emozioni inaspettate. Al contempo ricordi dai contorni sfocati iniziano a emergere dal passato…

La sua esistenza poi prende un’ulteriore svolta quando da carnefice si ritrova coinvolto in un mistero dalle tinte drammatiche e cruente: Colton diventa preda, minacciato e spiato.

L’egoismo del respiro ci conduce in un viaggio intrigante e sconvolgente. Colpi di scena, emozioni travolgenti e ritmo incalzante fanno da contorno a una lettura che toglie il fiato.

"La gente possiede tutto, possiede l’indispensabile per sopravvivere, eppure si ostina a desiderare di morire, perché la sua esistenza non è abbastanza appagante. È questo che mi spinge a uccidere le persone."
LanguageItaliano
Release dateJan 15, 2017
ISBN9788867932887
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    L'egoismo del respiro - Giada Strapparava

    @micheleponte

    Giada Strapparava

    L'EGOISMO

    DEL RESPIRO

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    "L’egoismo fa parte della tua natura, se non arrivi a un punto in cui il tuo io si dissolve nell’universale, non puoi essere davvero altruista.

    Puoi fingere, ma io non voglio che le persone fingano. L’egoismo fa parte della tua natura, lo devi accettare. E se fa parte della tua natura deve avere una funzione essenziale, altrimenti non esisterebbe affatto.

    È grazie all’egoismo che sei sopravvissuto e che ti sei preso cura di te stesso, altrimenti l’umanità sarebbe scomparsa da tempo.

    Prova a pensare a un bambino che nasce privo di egoismo; morirebbe.

    Infatti anche mangiare è egoista, anche respirare lo è; milioni di persone sono alla fame e tu stai mangiando".

    Osho

    1

    Mi piace la pioggia. Le gocce rimbalzano sull’asfalto, ricoprendo i vetri come lacrime impazzite e rincorrendosi con la più totale indecisione da un palazzo all’altro. Molte volte avrei voluto essere così, sfuggente e impetuoso, ma mi limitavo a dar sfogo solo ai desideri più intimi e indiscreti.

    Colton Miller era il mio nome, avevo trentaquattro anni e mi trovavo a Sacramento; una città statunitense, capoluogo della contea e capitale della California.

    Sì, mi trovavo, perché in realtà non avevo una dimora fissa. Non rappresentavo il classico individuo che tornava a casa la sera, cullato dal profumo di un pasto caldo e dall’affetto di una famiglia calorosa, che lo attendeva sulla soglia della porta per riunirsi in quel sacro nucleo d’amore e di bisogno. No, io ero racchiuso nella mia sfera d’odio e presunzione. Credo che nessuno possa capire il mio egocentrismo, ma cosa posso aspettarmi da un ammasso di lobotomizzati, che non fanno altro che seguire uno schema prefissato: crescere responsabili, lavorare e creare profitto. Andare quindi in chiesa e sposarsi con una donna per sfornare una schiera di rampolli, che rappresentano solo il prodotto dell’ignoranza e del conformismo sociale.

    Non ero sposato, per molto tempo avevo avuto solo relazioni con puttane trovate nei pub dei centri più malfamati e nei quartieri più squallidi di Sacramento; in realtà amavo le storie con loro, perché duravano giusto il tempo di acconsentire e cibare il mio desiderio.

    Erano solo carne. Carne malleabile. Carne fatta a perfezione di donna.

    Mi piaceva conoscerle, o meglio, afferrare la loro più profonda fiducia. Molte volte offrivo un bicchierino di Whisky o di Mint Julep, ma non mi scomodavo troppo, in fin dei conti dovevano solo assecondare i miei istinti, niente di più.

    Una volta soddisfatte ed estirpate le mie esigenze, quelle donne le eliminavo, le uccidevo lentamente, quasi per ascoltare con godimento il loro ultimo sussurro, una preghiera di supplica a quella fine inaspettata. Devo riconoscere però, che era più eccitante sentire le loro vene scoppiarmi tra le mani mentre le soffocavo gradualmente, che non vederle svolgere il loro lavoro. La donna rappresenta per me solo la perfetta incarnazione della frivolezza e ipocrisia umana, non ha nulla da offrirmi, sono io che decido quanti minuti in più dare alla sua inutile esistenza.

    Sono sieropositivo: ho l’AIDS.

    Ne ero venuto a conoscenza qualche anno prima. Da allora, il mio obiettivo era avere rapporti sessuali con più donne possibili. Non volevo andarmene da solo, non volevo essere egoista e morire corroso da questo virus senza far conoscere la sofferenza agli altri. In un anno spostai la mia residenza più volte: un giorno mi trovavo in una comoda e avvolgente roulotte, il giorno dopo in una camera d’albergo situata nei paraggi dell’autostrada di Fresno, affondata nel traffico.

    Cambiai identità diverse volte, non ricordo bene. Quel giorno mi chiamavo Colton Miller, il giorno dopo potevo essere chiunque altro.

    Mi esaltava questo essere nessuno, mi garantiva la più totale incolumità. Mi sentivo come una di quelle foglie dorate d’autunno: precipitavo sul terreno umido, provocando un soffice rumore, e poi lasciavo che il vento trasportasse la mia essenza leggera. Non conoscevo la mia meta e nemmeno la mia origine, ma sapevo che ero stato creato per vagare come una foglia nei marciapiedi, nelle strade e nei parchi, aspettando solamente la neve.

    2

    Colt! Due cheeseburger con doppio formaggio e un Taco Bell per i Ramirez. In fretta, ragazzo mio!

    L’Hall Bar era un ritrovo alla buona, allestito con colori esuberanti e caldi. Il soffitto era piramidale, composto da travi di legno saldate e trattenute alla base. Era un arcaico circolo per vecchi ubriaconi, con problemi di placche di colesterolo nelle arterie, convinti della loro salute di ferro. Dicevano spesso che preferivano morire con un boccale pieno di una bella bionda che gli gironzolava nello stomaco, piuttosto che cercando di curarsi con una tisana al finocchio ed erbe da cavallo.

    Uno in particolare, Tom, diceva spesso che in un modo o nell’altro si doveva morire; non siamo immortali, e lui preferiva concedersi il lusso dei vizi tanto poi, come diceva, tirava le penne comunque. Era preoccupante lo stato di salute di Tom, a quarantadue anni aveva già alle spalle due blocchi renali e un infarto, che come marchio gli aveva lasciato un pacemaker bello imponente nel petto. L’alcol non era il suo unico vizio: sale, formaggi speziati e piccanti, cibo messicano e maiale. Diceva spesso che era amabile il suono del grasso che scoppiettava sulla brace; molte volte pensai a come in realtà il suo fegato si stesse logorando, dilaniato da tali assimilazioni deleterie. Ma non credo che per Tom questo particolare fosse rilevante.

    Diceva spesso che era Dio che gli aveva dato la possibilità di vivere nuovamente, attribuendo al suo cuore la possibilità di amare di più.

    Il Signore mi ha reso più grande e più colmo d’amore per il prossimo! recitava, portandosi le dita tozze sulla pancia.

    A parte queste rare illuminazioni divine, Tom era un animale da palcoscenico: un uomo buono, quasi ingenuo per l’esattezza. Si divertiva a fare commenti su tutti e a scompigliare i capelli a David Chol, un quattrocchi originario del Nevada, che aveva sempre attorno a sé uno strano tanfo di formaggio. Tom veniva spesso in cucina a infilarmi la mancia nella tasca del grembiale e a rubarmi un po’ di salsa piccante. Più di una volta pensai che si mangiasse anche il cucchiaino.

    Era un buon cliente, e fondamentalmente questo era ciò che contava.

    Il formaggio era rovente e la piastra tintinnava ogni volta che una gocciolina di salsa precipitava.

    Certo signore. Tra cinque minuti è tutto pronto!

    Bill Hall era il mio capo, un soggetto che non passava di certo inosservato. In effetti, era abbastanza strambo: sia in inverno che in estate, gironzolava sempre con i pantaloni alla pescatora, e faceva abbastanza senso vederlo che si attorcigliava i ciuffi di peli bianchi delle caviglie, fino a formare delle pseudo treccine.

    Quel giorno indossava delle infradito hawaiane e una camicia a quadri turchese. Non era affatto un tipo elegante e raffinato, ma ricordava più un qualcosa di rustico e rozzo… Lo definirei un cavernicolo dei poveri. Ogni volta che sorrideva mostrava la finestra a due ante fra i denti rimasti, ma era simpatico e ci sapeva fare con le persone. Mi divertivo a preparare i Taco Bell, era uno dei cavalli di battaglia del locale.

    Posizionai i due cheeseburger e il Taco sulla mensola delle ordinazioni e suonai il campanellino per avvisare il personale: arrivò Jessica, la cameriera. Studiava ancora al college e desiderava con tutto il cuore frequentare il corso di giardinaggio più ambito della Contea. Aveva un debole per i rettili – cosa assai strana per una ragazzina amante del rosa – ma ogni tanto la vedevo indossare dei bracciali nuovi, realizzati con i denti rielaborati di qualche strano essere squamato. Jessica lavorava all’Hall Bar da circa tre mesi, ma doveva ancora comprendere che era normale che i clienti le osservassero in maniera compulsiva quel seno così giovane e polposo. Lei li riteneva pervertiti e lazzaroni; ma povere bestie, abituati agli squallori di mogli che si ritrovavano, era abbastanza comprensibile.

    Colton, sei stato velocissimo! Caspita, spero non mi mettano in cucina con te, perché ti rallenterei solo il lavoro! sorrise e si spostò una ciocca di capelli, che le scivolò sul viso.

    Sorrisi pure io. È tutta questione di allenamento e di memoria per le ricette.

    Sarà… sistemò la penna nella tasca del grembiale ma io credo che con tutto quel formaggio brucerei l’intero panino, altroché! inclinò la testa, quasi aspettandosi una consolazione.

    Vedrai che è solo questione di pratica. Toccherà pure a te, signorina, un giorno! mi asciugai le mani appiccicaticce di pollo e preparai una teglia sul fuoco.

    Be’, spero che quel giorno arrivi più tardi possibile. La scorsa settimana ho rischiato di incendiare la cucina nuova di mia madre. Volevo farle una sorpresa, ma ho combinato un disastro!

    Mmh… be’… strizzai debolmente l’occhio sì, direi che decisamente non sei pronta per stare ai fornelli con me! ridemmo insieme.

    Prese i piatti e andò a servire due signori al centro del locale. I capelli ricci e neri come la pece si mimetizzavano con la divisa da lavoro, anch’essa scurissima. Era ancora una ragazzina, mi pare avesse appena compiuto i diciannove anni, ma aveva un animo ferreo, duro e sapeva tranquillamente tenere testa a un adulto.

    Il mio turno era finito. Di solito il venerdì staccavo all’una, ma raramente lì dentro si rispettavano gli orari e quando lo facevo notare a Bill, lui improvvisava una risata da babbeo imbarazzato promettendomi un aumento. In realtà, quel lavoro mi serviva e dovevo farmelo andare bene. Operavo lì da circa un anno, o forse un po’ di più, e l’aumento non lo avevo mai visto.

    In compenso mi offriva sempre il cibo del locale, era molto disponibile riguardo le ferie e mi telefonava per farmi gli auguri nelle festività: mi voleva bene. E mi ripeteva spesso che ero il figlio che non aveva mai avuto. In realtà non mi conosceva, non sapeva chi ero. Non ancora.

    Nessuno lo sapeva, nemmeno io.

    3

    Mi trovavo nella mia Chrysler Voyager nera. I sedili erano ricoperti di tessuto antimacchia, mi era comodo dato l’enorme quantitativo di rifiuti che coltivavo al suo interno: recipienti di bibite e cannucce, fazzoletti inzuppati di salse e scatole di cioccolatini ormai vuote. Diciamo che dopo aver saziato il mio istinto di morte, dovevo compiacere anche il mio povero stomaco. Non era la prima volta che prendevo di mira delle persone che non fossero prostitute, mi rendeva più sereno l’idea di posare le mani su coscienze meno mediocri. Era da circa una settimana che studiavo la coppia di nascosto: li vedevo andare a fare compere, andare al lavoro, recuperare il giornale e dare da bere ai fiori. Il giorno prima, di pomeriggio, li avevo seguiti all’interno del supermarket dietro l’angolo, e ho avuto la conferma dell’assoluta ignoranza femminile quando ho visto la donna preferire il pancake con sciroppo d’acero al bacon fritto. Credo fossero coetanei, sulla trentina. Lui il classico uomo d’affari, impegnato con contratti e segretarie, lei una casalinga patita di Modern Family. Non avevano figli e nemmeno un cane. Forse, la loro convivenza era fresca e dovevano ancora maturare le loro vive iniziative. Mi eccitava ancor di più l’idea di infrangere speranze fiorenti e spumeggianti, come se mi sentissi partecipe dei loro progetti.

    Erano le tre e trentuno. Fuori la pioggia continuava a scendere, l’aria si fece più fredda e pungente, come dei piccoli aghi ribelli senza pietà. Indossavo una tuta molto semplice, senza fronzoli, avevo bisogno di sentirmi comodo e di non farmi notare; inoltre, avevo sempre con me uno zainetto, lo sistemavo ogni volta con cura affinché non mi impedisse o rallentasse i movimenti. Uscii in silenzio dalla mia Voyager. La villa era parecchio lussuosa e i muri erano coperti di legno pregiato. Al mio passaggio, notai la cura dedicata all’orto. Cercai di scrutare la divisione degli ortaggi, grazie alla fioca luce proveniente da un lampione situato nelle vicinanze; notai la grazia dei piccoli filetti d’erba tagliati dolcemente.

    Qualcosa di utile la sa fare allora, questa donna affermai, camminando nel sentierino di pietra bagnata che conduceva alle gradinate d’entrata.

    Il vento ululava senza restrizioni e accorgimenti, come se volesse partecipare anche lui all’evento prossimo: era ansioso ed euforico. Riuscivo a stento a leggere il nome sulla targhetta dorata, posizionata accanto alla porta. Avvicinai il viso e lessi: Famiglia Richatdson.

    Nome non comune. Meglio così, saranno i primi a essere ricordati nel mio curriculum.

    Cercando di non fare rumore, mi cambiai con estrema cautela: calzai delle scarpe con la suola liscia e infilai le altre all’interno dello zaino, poi indossai i guanti e una speciale retina sui capelli, per evitarne la caduta accidentale. Ci sapevo fare con le serrature, anche a occhi chiusi. A quell’ora i miei agnelli erano immersi nel sonno più profondo, non avvertirono nemmeno l’arrivo del loro salvatore.

    In verità, non assassinavo così casualmente.

    Non volevo combattere il crimine o l’ingiustizia, e nemmeno punire i trasgressori; la mia era più una faccenda personale. Non mi interessava difendere i deboli, punendo le persone cattive, quando uno dei mali fondamentali ero io. Non uccidevo gli innocenti: non per clemenza o compassione, ma perché non dovevano offrirmi nulla. Non avevo motivo di prendere la loro vita. Non vi era gusto ad attaccare un incolpevole, non perché fosse eticamente o moralmente sbagliato per me, ma perché non mi lasciava nulla. La morte, per un peccatore, è un limbo tra la sconfitta e la vergogna.

    Non ho mai premuto un grilletto. Odio le pistole, sono così incorporee, non mi permettono di avvertire la carne, il dolore, la vergogna e la speranza. Non vi è contatto con un’arma da fuoco, non vi è attrazione né tantomeno gusto. Gli sposini Richatdson, inizialmente, li notai un po’ per noia e un po’ per curiosità. Cominciai a tenerli d’occhio dopo il turno del pomeriggio all’Hall Bar. Finché una notte, mentre mi stavo sintonizzando con la radio per ricevere le informazioni meteo, notai l’uomo uscire in modo sospetto dal suo fuoristrada avorio. Era l’una e ventisei, ma di solito rientrava non più tardi delle sei e trenta per cenare con la moglie. Le luci della casa erano spente; probabilmente la signora Richatdson aveva deciso di coricarsi dopo aver ricevuto un messaggino in cui il marito la avvertiva del ritardo a causa di un’improvvisa cena o riunione di lavoro. L’impegno di lavoro, era in realtà rappresentato da un’austriaca in miniatura con le labbra colme di silicone.

    La donna si trovava all’interno di un Suv nero parcheggiato sul lato opposto della strada e lo chiamò con un sibilo leggero. Sorrisero entrambi, poi l’uomo si avvicinò all’autovettura con fare deciso e spavaldo. Ebbi come la sensazione che lui volesse essere osservato. Insomma, evidentemente sapeva che la moglie era a conoscenza della tresca, altrimenti non avrebbe lasciato la macchina nel parcheggio della casa né tantomeno si sarebbe incontrato con l’amante così vicino all’abitazione. L’uomo si guardò attorno, con fare circospetto, dopodiché entrò nel Suv. Sembrava che non si vedessero da tempo. Ci fu un bacio, esigente, quasi provocatorio. La riunione dunque andò a gonfie vele, chissà se era stato promosso.

    4

    La porta si aprì, fortunatamente gli ingranaggi non causarono alcun rumore e la mia entrata fu silenziosa. Regnava un profumo di vaniglia misto ad arancio amaro. L’aria dolciastra che respiravo mi coccolava i polmoni.

    Da una finestra in fondo al corridoio irruppe la scia di un lampione solitario, che illuminò i soprammobili alloggiati di fianco a me. Vidi molte foto dei coniugi insieme, sorridenti; percepivo quell’amore possessivo e passionale, ma allo stesso tempo inaffidabile, di un uomo che adorava le donne e non si faceva bastare la propria. Fino a prova contraria, non era nemmeno migliore di me: venerava il piacere della carne. La signora Richatdson probabilmente era al corrente dei molteplici tradimenti subiti, ma forse trovava comunque la voglia e la forza di nominarlo marito di fronte a un bel mucchio di dollari.

    Avanzai guardingo, e notai che sulla mia destra vi era il bagno. La mia curiosità fu conquistata da una mutandina della donna, taglia S, di pizzo trasparente, stesa tra gli altri panni. La toccai quasi con incertezza e meraviglia, era morbida e delicata come un batuffolo di cotone. Me la posai sul viso e ne respirai l’essenza di donna, il profumo di menta piperita e rosa. Per un istante, immaginai di fare l’amore con lei, volevo provare la sensazione di toccare una carne ancora pura o perlomeno, che si avvicinasse maggiormente alla purezza.

    Riposi quella deliziosa biancheria con amorevolezza e girando il capo notai la camera da letto, proprio di fronte a me, semiaperta. Potevo udire il ritmico russare del marito, alternato ai dolci e scanditi respiri profondi della moglie. Raramente mi era capitata l’occasione di avere a disposizione due vittime; non mi aveva mai interessato la quantità delle anime che uccidevo, desideravo solo cogliere l’essenza dell’istante e appagarmi, ma con loro era diverso: ormai era diventata una questione personale. Volevo riconoscere com’era veder tramontare la linfa vitale di un amore commediante.

    Estrassi dallo zaino due siringhe contenenti un veleno prodotto dal ragno Argiope Appensa, che avrebbe avuto la facoltà di immobilizzare totalmente i fasci muscolari. Le mie molteplici vite passate mi hanno dato cognizioni che, più di una volta, si sono dimostrate utili.

    Le calzature che indossavo non facevano rumore e non producevano impronte. Mi avvicinai alla parte terminale del letto. Dalla finestra entrava la luce dei lampioncini che delimitavano le aiole all’entrata. I corpi erano molto vicini tra loro: lei, rannicchiata in posizione fetale, lui accanto con le gambe più distese. Tolsi il cappuccetto dalle due siringhe, le afferrai entrambe tenendo i pugni ben saldi e, in un movimento veloce e simultaneo, gliele conficcai a livello del polpaccio.

    Si svegliarono. Presi dal panico, urlarono e si rizzarono in piedi per tentare di fuggire. L’uomo mi scagliò la prima cosa che gli capitò a tiro, ma un cuscino di piume d’oca non faceva poi così male. A differenza degli altri veleni, questo tipo aveva un’azione quasi immediata: pochi istanti dopo, caddero entrambi sul pavimento.

    Chi diavolo è lei? strillò impaurito il marito Come cazzo è entrato in casa mia?!

    La donna riprovò ad alzarsi, senza risultato, poi riprese a urlare.

    Signorina, i suoi tentativi di fuga sono inutili. Vi ho appena iniettato nel sangue un concentrato altamente paralizzante. Tra pochi istanti perderete sensibilità anche nella parte superiore e nel tratto orofaringeo.

    Chi è lei? Lei è pazzo! esclamò di nuovo il marito.

    Vede signore, io non vi ho cercati... Insomma, la mia propensione e l’insaziabile istinto mi hanno indicato voi come promessi sposi del glorioso altare della morte. Diciamo che, ho un certo sensore per queste cose.

    Io non so chi sia lei disse furioso il marito, mentre una vena sulla tempia cominciava a pulsare visibilmente, le conviene sparire da casa mia immediatamente!

    Guardò in basso, verso le sue gambe. Immaginai fossero diventate un peso morto. Poi, l’uomo rialzò il viso: questa volta, le lacrime affiorarono in superficie, come un istinto incontrollato.

    Porca puttana! È uno scherzo?

    Un singhiozzo acuto provenne dalla donna. La prego! Non ci faccia del male, la supplico! si toccò a fatica l’addome, con sguardo greve La prego! Sono incinta!

    5

    La voce della donna cominciava a farsi sempre più sottile e impalpabile, come quando nei sogni si viene inseguiti dalle tenebre della propria immaginazione e si urla talmente forte che dalla bocca esce solamente aria, trasformata in paura.

    Ma io non vi voglio far del male, voglio solo liberarvi dall’indelebile vincolo che pesa su voi gente comune. Voglio solo liberarvi dalla morsa della monotonia e dall’abitudine. Non capisco questa ingratitudine.

    Presi due sedie. Desideravo che il marito fosse il principale spettatore della morte della donna che non si era fatto bastare. Li legai entrambi, non perché potessero fuggire, ma perché i loro corpi risultavano molli e flaccidi. Come di consueto, pensai a tutto: con la dose iniettata sarebbe stato impossibile avvertite dolore, a meno che non gli avessi somministrato una dose massiccia di adrenalina in vena, in modo da far loro percepire ancor più nitido il momento dell’addio.

    Il terrore pervase i loro occhi. Li avevo posizionati proprio uno di fronte all’altra: che fortuna possedevano, e non se ne rendevano nemmeno conto. Mi sentivo lusingato ed emozionato a essere partecipe di quel momento così intimo, in effetti una lacrima di commozione ci sarebbe stata.

    Vedevo lacrime amare sul viso del Signor Richatdson: lacrime di un uomo che era caduto in basso, trasportando con sé la moglie, il loro futuro… e il loro bambino. L’egoismo. Forse, alla vista della sua fresca mogliettina prossima alla morte. Accarezzai i capelli della donna. Mi ricordavano la seta, morbidi e levigati, erano puliti e freschi. Mi lasciai trasportare da quell’onda di dolcezza spumeggiante, fino a sradicarle un’abbondante ciocca color oro. Nessun grido. Non poteva, solo un viso paonazzo, invaso da fiumi di lacrime. Deve essere terribile sapere che si sta morendo.

    Spogliai la donna, le tolsi la vestaglia ricamata con contorni beige e una maglia a righe. Non ero intenzionato a violentarla, non mi interessava, puntavo al simbolo del suo valore di donna e di futura mamma ormai sciupato: il suo seno. Lo accarezzai dolcemente, osservando lo sguardo della mogliettina terrorizzata. Il marito assunse un’aria ferita, come se non avesse mai immaginato la sua donna in mano ad altri uomini, come se non avesse tradito la sua femminilità già troppe volte. Come se non fosse già stato troppo egoista. L’egoismo.

    Passai delicatamente il coltello sul suo piccolo seno destro: non ricordavo un seno così puro da anni, ma non mi feci paralizzare dalla sua bellezza e tagliai la parte più sporgente. Lei aveva perso il suo io di donna, la sua femminilità; era stata tradita e umiliata dal proprio uomo, volevo riprodurre tutto ciò simbolicamente. Il sangue colava e non avevo intenzione di perdere tempo, mi misi dietro alla donna, proprio di fronte al marito.

    Le appoggiai le labbra sul collo. Sentii i battiti del suo cuore galoppare come cavalli nel vuoto, percepivo le vene pulsare e la sua pelle profumare di latte. Le presi delicatamente la testa tra le mani, con il coltello lacerai piano e in profondità la sua gola e sentii il sangue caldo, come la sabbia che da bambino calpestavo sulla spiaggia, che scendeva sulle mie dita. Era il sangue di una donna persa e mai ritrovata.

    Il dolore e il terrore che sporgeva dagli occhi del marito, mi esprimevano il rimorso dei suoi peccati; il peccato di non essere stato in grado di rinunciare al sapore di carne nuova, di non essersi accontentato di ciò che possedeva. Le persone non sono mai in grado di accontentarsi.

    Con una pugnalata, penetrai il cuore del marito. Ogni persona, in punto di morte, reagisce in maniera diversa: amo cogliere i particolari e le diversità di quel momento. Ora la sensazione era più calda, più rovente, quasi insostenibile.

    6

    Mi sentivo molto meglio. Ero soddisfatto.

    Mi diressi verso l’uscita, lasciandomi alle spalle una casa che profumava ancora di vaniglia. Raggiunta la macchina, mi sedetti comodamente togliendomi guanti e retina, e mi cacciai in bocca cinque cioccolatini al pistacchio seguiti da un hot-dog. Dopo il lavoro, avevo sempre molta fame: impiegavo molte forze, soprattutto mentali. Sorseggiai un goccio di caffè decaffeinato insieme all’ultimo boccone del panino. Accesi la macchina e me ne andai. Alla radio, passavano Beautiful Boy di John Lennon.

    «Close your eyes, Have no fear, the monster’s gone, He’s on the run and your daddy’s here... »

    Le note, accompagnate dalle parole, presero forma all’interno dell’autovettura. Pensai alla vita. Pensai a com’è insoddisfacente, nel suo piccolo, e a come ci riduce in polvere. Pensai all’egoismo che caratterizza ognuno di noi, a come ci rende miseri e insignificanti, e a come vogliamo sentirci liberi in un sistema che ci porta a diventare un prodotto preformato, dei cavalli addestrati e domati, mai liberi di galoppare senza meta nelle praterie. Le persone non trovano mai uno stato di soddisfazione, ogni individuo crede di essere l’unico a provare dolore in base all’andamento della propria vita, l’unico a soffrire. Gli uomini non si accontentano più delle emozioni e dei sentimenti, sono diventati tutti materialisti, ipocriti, non c’è valore nei gesti o forse, non c’è mai stato.

    «... before you go to sleep, say a little prayer every day in every way. It’s getting better and better... »

    Le persone finiscono troppo spesso per chiamare la morte, molti la cercano a causa di un licenziamento, perché la poesia al concorso non è stata accettata, o per una mancata sufficienza al compito in classe. Non capiscono che dono è la vita e cosa tengono tra le mani, non comprendono l’infinita meraviglia che giace nel loro respiro, in un battito di ciglia. La gente possiede tutto, possiede l’indispensabile per sopravvivere, eppure si ostina a desiderare di morire, perché la sua esistenza non è abbastanza appagante. È questo che mi spinge a uccidere le persone.

    Pensai alla mia morte. Pensai a come sarà ritrovarmi in uno scheletrico letto d’ospedale, con i muri color cenere corrosi dal tempo e una flebo colma di farmaci. Morirò solo, lentamente, non avrò nessuno che mi accompagnerà a chiudere gli occhi per l’eternità. Mi sentirò consumare la carne e sopprimere il cuore, e ci sarà solo il mio odio in quel momento a tenermi l’animo caldo. Immaginai. Arriverà un’infermiera di mezza età a posarmi sul petto crocefissi di legno e rosari, come per farmi capire che dovrebbe esserci qualcuno ad accompagnarmi e a tendermi la mano. Scossi energicamente la testa. Non ci sarà l’inferno per me, ci sarà solo il vuoto, un infinito viaggio nel vuoto in cerca di qualcosa che possa appagarmi nuovamente.

    7

    Ore quattro e quarantacinque. L’aria era particolarmente elettrica e fresca, e il cielo sembrava decorato con milioni e milioni di lucette lampeggianti, che si divertivano a formare costellazioni e a farsi ricordare con un proprio nome. Al sabato non lavoravo, era il mio giorno libero, ma molte volte Bill storceva il naso perché gli avrebbe fatto comodo la mia presenza; la birra che veniva offerta dalla casa era ottima e l’Hall Bar il sabato si riempiva sempre. Ma quello era il mio giorno di riposo stipulato nel contratto, e io ci marciavo spesso sopra dicendogli che lo avevo dedicato periodicamente a visite mediche e controlli, per disturbi vari che mi inventavo al momento.

    Ancora mi apparteneva il caldo e lussuoso odore del sangue della neo sposina tradita; percepivo sotto le mie dita le tremende pulsazioni delle sue vene, coperte da quel dolce profumo di latte.

    Proseguii dritto, fino alla prima traversa a destra, dove girai ed entrai in un parcheggio di un vecchio supermarket scadente, ormai chiuso. Parcheggiai e spensi il motore. Scesi dalla macchina e mi sistemai nei sedili posteriori, facendomi spazio tra contenitori di pollo fritto, avanzi di ciambelle ricoperte di glassa e bicchieroni vuoti di Coca-Cola. Mi girai rannicchiandomi dalla parte dello schienale, impregnato di un profumo sensuale e accattivante, indossato da una puttana che avevo trovato qualche giorno prima in un pub non molto distante da lì.

    Ricordavo ancora bene le sue fattezze. Era una donna dell’Est Europa: lunghi e ondulati capelli color nocciola con qualche riflesso più chiaro, occhi smeraldo sfumati di blu e due grosse labbra carnose e tiepide. Non contando i suoi tacchi dodici, direi che era più o meno della mia statura. Ricordavo ancora quanto fosse particolare; diciamo che, a differenza delle sue colleghe più volgari, lei aveva quel tocco di finezza e di romanticismo molto raro, nei gesti e nelle parole. Era vestita con un tubino color pece che sfilava morbido lungo i fianchi, decorato con simpatici fiocchetti a livello del petto. Con lei era stato un rapporto diretto, molto probabilmente perché plasmata per catturare la più completa fiducia della sua preda.

    Alla fine della serata trascorsa con lei all’interno della mia automobile, avevo deciso di portarla sulla riva del fiume Sacramento. Non c’era stata una vera e propria conversazione, è stramba l’idea di intavolare una discussione con una prostituta. Di cosa si potrebbe parlare? Di viaggi o di lavoro? Della misteriosa Area 51? Le avevo fatto molti complimenti, dapprima cortesi, poi sempre più sfacciati: le piaceva. Lei era tranquilla, non le faceva paura trovarsi in un luogo completamente isolato e appartato con un uomo che poteva attaccarla da un momento all’altro. Ecco, ancora una caratteristica della gente comune che non riesco a comprendere: la completa capacità di fidarsi.

    Il genere umano tradisce, tradisce essenzialmente per egoismo, le persone sono consumate dall’amor proprio. Anche il più completo degli individui cercherà di appagare prima i suoi desideri, e solo dopo quelli altrui. Siamo affamati di egoismo e di un inesauribile bisogno di ricercare il nostro benessere: in fondo, fino a prova contraria siamo animali.

    Le avevo accarezzato i lunghi capelli. Sapevo che lei, come tutti, doveva ricevere il suo premio, il suo ringraziamento per aver dato fiducia al mondo. Era questo il suo peccato.

    Ero dietro di lei, il suo capo era appena al di sotto delle mie labbra; nei suoi capelli percepivo un profumo dolce, come di latte e zucchero. Avevo provato a immaginarmi il ricordo

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