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L'omnibus del demone di stracci
L'omnibus del demone di stracci
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Ebook453 pages5 hours

L'omnibus del demone di stracci

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About this ebook

Nel 1691, il paese di Crossfall insegnò alla strega Thessaly come morire. La percossero, le spararono, la impiccarono, ma niente funzionò. Quando infine tentarono di seppellirla viva, Thessaly scatenò il campo contro di loro. Il primo uomo morì quando un soffio di vento gli strappò la carne dalle ossa. Una radice, lanciata come un giavellotto sporco di terra, uccise il secondo. Molte altre morti seguirono. Il pastore Fell impalò la strega col manico della sua stessa scopa, ma lei lo trascinò nel campo ad attendere per altri tre secoli.

Trecento anni dopo Maddy Harker ucciderà il suo violento marito Vic. Lo seppellirà nel campo come già aveva seppellito suo padre, che la molestava, anni prima. Quello stesso campo in cui lo spirito inquieto di Thessaly Cross giace in attesa.

Dopo tre giorni, Vic risorgerà... fatto di terra, ossa e odio.

Gli uomini lo chiameranno demone di stracci.

E l’inferno, e Thessaly, lo seguiranno.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJan 12, 2017
ISBN9781507168868
L'omnibus del demone di stracci

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    Book preview

    L'omnibus del demone di stracci - Steve Vernon

    L’Omnibus del

    DEMONE DI STRACCI

    ***

    REVENANT

    RESURREZIONE

    REQUIEM

    ––––––––

    STARK RAVEN PRESS

    DEDICA

    A mia moglie Belinda – Non sono altro che un vecchio spaventapasseri solitario in un vecchio campo solitario senza di te.

    LIBRO PRIMO

    REVENANT

    PROLOGO – ESTATE 1691

    Il pastore Abraham Fell abbassò lo sguardo sulla strega Thessaly Cross, respirando come se avesse corso a lungo. Si chinò su di lei, piegando le ginocchia, per porre un’altra pietra sul suo petto.

    «Ti abbiamo colpita col noce e ti abbiamo colpita col ferro», disse. «E hai sostenuto ogni colpo».

    Si piegò e raccolse un’altra pietra, senza mai toglierle gli occhi di dosso, come se fosse stata una qualche vipera velenosa che avrebbe potuto colpire in ogni momento.

    Mise la nuova pietra sopra di lei, proprio accanto alle altre.

    «Ti abbiamo sparato e la palla del moschetto ha deviato in corsa come se avesse avuto paura di affondare nella tua carne corrotta».

    Raccolse un’altra pietra, grugnendo per lo sforzo. Non era più giovane come un tempo, e non c’era da stupirsene.

    Simili visioni ti facevano invecchiare molto più in fretta degli anni che passavano.

    «Ti abbiamo impiccato con un cappio intrecciato coi capelli bianchi di una vedova, un cappio intriso nelle lacrime dei bambini, e tu hai scalciato e riso come un aquilone nel vento».

    Posò la nuova pietra, si lasciò cadere in ginocchio e ne raccolse un’altra. Stava prendendo un certo ritmo che gli rendeva il lavoro appena un po’ più facile.

    «Ti abbiamo bruciata, ma perfino il fuoco ci ha delusi».

    Era vero. Lei aveva evocato una tempesta da un cielo senza nuvole e annegato le fiamme nel gelo. Seth Hamilton, il fabbro del paese, che era stato l’unico a osare accendere la sua pira, era nero di cenere.

    «Che le pietre ti schiaccino e la terra ti inghiotta», disse Fell, poggiando un’altra pietra, cosa che le fece diventare tredici in tutto. Erano tutte di buona misura, raccolte a mano, pesanti almeno quanto il cadavere di un bambino. Avrebbe dovuto essere schiacciata dal peso sopra di lei, eppure lo sosteneva come non fossero state altro che paglia e rametti.

    «Dove hai nascosto la scopa, strega?» chiese Fell.

    «Forse ce l’hai su per il buco del culo», lo provocò Thessaly. «Ci hai guardato dentro di recente?»

    La scopa era il suo potere e Fell la temeva... anche se sapeva che non avrebbe dovuto. Era solo un oggetto fatto di salice intrecciato. La sua bisnonna spazzava il pavimento di pino della sua capanna ogni giorno proprio con una scopa simile, e di sicuro non era una strega.

    O lo era?

    Si chinò a prendere un’altra pietra.

    Thessaly gli sputò in faccia. «Seppelliscila, baciapile».

    Lui lasciò cadere la quattordicesima pietra sopra di lei. Produsse un suono secco, come se la strega Thessaly avesse fissato troppo a lungo la Gorgone. Lui grugnì per lo sforzo e lei rise della sua fatica, cosa che lo colpì a fondo nell’orgoglio.

    «Devi pagare per i tuoi crimini contro Dio e questa comunità», disse Fell.

    Thessaly sbuffò. Non fu alcun genere di suono umano. Il suo sbuffo sembrava pesante e animalesco, come quello di un cinghiale in calore.

    «Ciò per cui sto pagando è rifiutare di averti dato la mia terra», sottolineò mentre il vento faceva scuotere l’erba. «Ciò per cui sto pagando è aver stregato il tuo campo in cambio della tua cupidigia. Pago per il tuo bestiame che ha mangiato l’erba grigia. E, cosa più felice di tutte, pago per tua figlia, Fell».

    Eliza.

    Dannazione.

    Fell riusciva ancora a sentire in fondo alle narici l’odore della carne morta e putrescente. Aveva abbattuto l’ultima bestia corrotta quella mattina. L’aveva colpita dritta in fronte con la sua migliore accetta. Il metallo della lama era affondato nell’osso e si era incastrato. Era stato costretto a puntare lo stivale sinistro contro la fronte della mucca e tirarsi indietro per liberarlo. La mucca dannata non si era mossa... nessuna di loro l’aveva fatto, anche dopo che aveva abbattuto le prime due. Il bestiame maledetto era semplicemente rimasto immobile nel suo campo, col vento che suonava lento come un’arpa attraversando le loro gole grigie e flaccide.

    Aveva abbattuto sua figlia Eliza prima di iniziare col bestiame. Poi aveva bruciato ciò che era rimasto di lei e seppellito le sue ceneri nel campo.

    Il guscio che aveva bruciato e seppellito non avrebbe nutrito neppure un solo verme.

    «Era gustoso il latte, Fell?» lo provocò Thessaly. «La giovane Eliza l’ha trovato dolce?»

    «Strega!» sibilò Fell.

    Afferrò una pietra delle dimensioni di un teschio, graffiandosi la mano contro il granito ruvido e macchiandolo col suo stesso sangue. L’avrebbe affrontata con la sua pietra e il suo sangue, giurò fieramente.

    Ma prima doveva sapere.

    «Dove hai nascosto la scopa?»

    «Più vicino di quanto pensi».

    Lei sputò di nuovo. Il muco schizzò sull’erba. Il vento soffiò un po’ più forte mentre Fell lanciava la pietra. Il granito si scheggiò e produsse scintille contro la carne di lei.

    Il fattore che era in Fell temette lo scatenarsi di un incendio incontrollato. Una scintilla poteva facilmente attecchire in tempi di siccità come quello e distruggere un’intera campagna.

    «Ti maledirò, Fell. Maledirò te e tutti quelli che sono dalla tua parte». L’anziana donna iniziò a cantilenare. «Gira attorno al cespuglio di rovi, il cespuglio di sangue, la gobba; gira attento attorno all’agrifoglio, la tua ombra prenderà...»

    Gli spettatori si irrigidirono come tanti spaventapasseri rimasti fuori durante l’inverno. La paura, o qualcosa di più oscuro, inchiodò i loro piedi al terreno. Fell barcollò all’indietro dalla fossa. Il vento si rafforzò e soffiò mentre Thessaly rideva sempre più forte.

    «Padre nostro», iniziò a pregare Fell, «proteggici dall’incantesimo diabolico di questa megera».

    Thessaly continuò a ridere.

    «Non è un incantesimo, stolto. Non è nulla più che una filastrocca per bambini, Fell. Solo una filastrocca. Forse non stavo stregando il tuo campo. Forse agitavo solo la scopa per scacciare un corvo ladro».

    Stava dicendo la verità?

    Fell soffocò i suoi dubbi.

    Thessaly Cross aveva ucciso Eliza, e Abraham Fell non avrebbe avuto pace finché non avesse visto la strega morta.

    Si inginocchiò e prese un’altra pietra.

    Ma lei non restava in silenzio.

    «Le streghe non maledicono, Fell. Solo gli uomini maledicono», delirò Thessaly. «Maledicono loro stessi e la loro patetica genia».

    «Menti», disse Fell, liberando la pietra dal terreno.

    «Verità! Io dico la verità. Le streghe danzano in cerchio. Seguiamo il ritmo del tempo e dell’onda e il vento che scarnifica le ossa della terra».

    Il vento ululò. Un intrico di radici rotolò sul terreno. Fell si fece indietro troppo tardi. La radice si snodò come un serpente. Afferrò il polso di Fell e lo tenne stretto.

    «Le streghe piantano ciò che gli uomini annaffiano con le loro lacrime», strillò Thessaly. «Le streghe seminano ciò che gli uomini devono raccogliere. Sappi questo, Fell. Quando fai del male a una strega, pianti un rancore antico quanto il rimorso».

    Fell tirò la radice. Con la coda dell’occhio vide il resto dei cittadini imprigionati come conigli impauriti.

    «Sei mio Fell. Siete tutti miei. Ora vedrete com’è davvero un campo stregato».

    E poi Thessaly mise il campo al lavoro.

    Suscitò nell’erba morta una vita innaturale. Steli e viticci vorticarono come un vento di zanne, fendendo uomini e donne, che tentarono troppo tardi di fuggire.

    Il primo uomo morì a metà di un urlo, quando un soffio d’erba gli strappò la carne dalle ossa. Una radice, lanciata come un giavellotto sporco di terra, impalò un secondo uomo. Un terzo cadde sotto una valanga volante di pietre.

    Il vento divenne grigio di polvere, paglia e carne. La terra si aprì in grandi crateri simili a bocche spalancate.

    Tutti gli abitanti della cittadina morirono urlando.

    Solo Fell rimase.

    Osservò il massacro, impotente come un coniglio in trappola.

    «Le streghe seminano, Fell. Le streghe seminano e gli uomini devono raccogliere».

    La donna alzò le mani.

    Lui vide terra grigia sotto le sue unghie.

    «Devo dirti dove ho nascosto la mia scopa, Fell? L’hai indovinato? Vuoi davvero saperlo? L’ho sepolta nel tuo stesso campo».

    La scopa si alzò dritta dal ventre sporco della terra, non più lontana di un braccio da Fell.

    «Io e la mia scopa ti aspetteremo, Fell. Ti aspetteremo come un seme aspetta la pioggia. Vivi con questa consapevolezza. Ho preso tutti coloro che conosci, ma ti lascio vivere per riprodurti. Ti lascio vivere con la consapevolezza che un giorno tornerò a far visita ai tuoi discendenti».

    Fell piantò i piedi nel terreno. Pregò per avere la forza di Sansone. Lottò contro le radici.

    «Ora ti mostrerò come seppellire una strega», gracchiò lei.

    Si strinse le braccia attorno al corpo, come abbracciando un invisibile amante. La terra si mosse in risposta e un centinaio di rocce volarono dalla carne dei campi, fluttuando sulla sua tomba improvvisata. Fell liberò il polso dalle manette di radici.

    Sentì la carne che gli si staccava dalle ossa.

    «Nessun discendente! Nessuna maledizione! Oggi moriremo assieme», ululò.

    Sradicò la scopa con la mano appena scuoiata. Si lanciò sopra la strega. La sua inerzia spinse il manico della scopa dritto nel cuore di lei. Uno schizzo di sangue maleodorante gli spruzzò il volto.

    Le setole di salice della scopa si aprirono in tutte le direzioni come una stella furente. Fell vide un immagine di piccoli, inimmaginabili denti che ridevano all’estremità di ogni rametto tremolante.

    Poi la scopa lo prese.

    Gli mangiò il volto come se la sua pelle non fosse stata nulla più che un torsolo di mela. Fell sentì i brucianti rametti/verme masticargli i lineamenti. Li sentì strappare e bruciare la calotta del suo teschio. Si insinuarono nella gelatina del suo cervello e morsero i suoi pensieri.

    Ebbe il tempo per un ultimo urlo.

    La scopa divorò anche quello. Inghiottì ogni boccone del dolore e del terrore di Abraham Fell mentre lo trascinava sempre più in basso nella fossa assieme alla strega. Le pietre stavano ferme sopra di loro come mani pronte ad applaudire. Thessaly lo spinse lontano da sé. Quasi lo spinse fuori dalla tomba.

    «Vivi, Fell. Lascia che la carne ricresca sul tuo cranio spaccato. Striscia lontano dalla soglia della morte. La mia maledizione resta. Questa terra diventa troppo fredda per me. Aspetterò te e i tuoi discendenti nelle viscere dell’inferno».

    «No!» Fell si gettò di nuovo su di lei. «La maledizione termina qui».

    Si spinse in avanti. Sentì la scopa infiltrarsi e succhiare attraverso la gabbia delle sue costole. Si spinse ancora più vicino, impalandosi col manico. Il legno di salice si frantumò dentro di lui. Lo inchiodò alla figura di Thessaly che si agitava. Sentì le sue ossa contorcersi sotto di lui come lombrichi nel terreno.

    Per poco lei non si liberò.

    Si morse un labbro, strappando carne grigiastra. Il dolore spezzò la sua concentrazione. Lasciò che il suo incantesimo e le rocce sopra di loro cedessero. La tomba, la scopa, la strega e Fell vennero completamente sepolti.

    Per molto tempo, niente si mosse.

    La luna sorse come un lento fantasma, illuminando come una lanterna il campo del massacro.

    Una piccola forma grigia emerse dalla tomba di pietra. La pelle grigia e glabra riluceva sotto la fredda luce lunare, come la pelliccia di un ratto nato morto.

    Strisciò via nell’oscurità che circondava il campo.

    Una civetta solitaria bubbolò impietosa.

    ... preeeesto...

    CAPITOLO UNO – Trecento anni dopo

    * 1 *

    Sto per morire, pensò Maddy

    Ed è tutta colpa mia.

    Fissò il suo riflesso nella finestra della cucina buia e gli occhi morti di sua madre le restituirono lo sguardo. C’era una domanda negli occhi fantasma in quella finestra.

    Che farai adesso, ragazza?

    Maddy non avrebbe saputo dirlo.

    Vic era in piedi al centro della cucina, ad agitare le braccia come un mulino a vento umano. Zigger passò quatto dietro i suoi piedi, guardando in alto con occhi pallidi come lune marce, sperando di farsi dare del cibo.

    Di nuovo.

    «Che cazzo stavi pensando?» urlò Vic.

    Maddy sentì che le ossa le si allungavano giù attraverso le assi del pavimento fino alla terra della Nuova Scozia. Le sentì mettere radici, prepararsi a produrre semi. Cosa stava pensando? Avrebbe dovuto scappare mezza dozzina d’anni prima.

    Ora era in trappola.

    Proprio come sua madre.

    Vic continuava a urlare, una delle poche cose che sapeva fare bene. «Torno a casa un po’ in ritardo e tu fai una cosa del genere? Che stavi pensando?»

    Maddy non era pentita di ciò che aveva fatto, solo dell’averlo fatto in modo così stupido. Era arrabbiata. Avrebbe dovuto sapere che avrebbe causato problemi. Si disse che doveva restare più calma possibile.

    Guardò il suo riflesso mentre rispondeva.

    «Un po’ in ritardo? È quasi mezzanotte. Avresti potuto telefonare».

    «Il telefono da Benson era rotto. Qualcuno ci ha messo dentro una cazzo di lumaca».

    Vic aveva sempre una bugia pronta. Dio, non ne poteva più. Era stanca di molte cose. Il matrimonio con Vic era stato divertente all’inizio, ma il divertimento era sparito presto. Vic era diventato più gretto fin da quando le aveva messo quel suo guinzaglio di zircone cubico attorno al dito.

    «Non eri da Benson», gli disse. «Eri alla taverna, a spenderti lo stipendio. Probabilmente ti sei fatto un paio di balli con la gonna più corta del posto, ci scommetto».

    Vic fece un sorrisino consapevole.

    Era un tale bastardo puro.

    Non cercava neanche di nasconderlo.

    «Un uomo ha il diritto di rilassarsi. E poi, ero da Benson, a bermi una tazza di caffè».

    Lei non ne poteva più di discutere, ma che altro poteva fare? Divorziare? Non poteva aspettarsi gli alimenti. Vic avrebbe riso e se ne sarebbe andato e sarebbe finita lì... e lei sarebbe rimasta a vivere del sussidio statale.

    Non se ne parlava.

    Sarebbe stata morta e sepolta prima di piegarsi a quello.

    «Sento odore di bourbon», commentò, rimpiangendolo all’istante.

    Gli occhi di Vic si assottigliarono come lastre di vetro tagliente.

    Maddy aveva appena passato il segno.

    «Forse il tuo naso è rotto e senti gli odori sbagliati», suggerì lui. «Può succedere».

    Stupida. Non aveva avuto intenzione di farlo arrabbiare. Avrebbe dovuto fermarsi in quel momento... solo che non voleva fermarsi.

    Si rilassò e si preparò ad abbassarsi.

    Di solito riusciva a schivare il primo paio di colpi.

    «Avresti potuto telefonare», obiettò. «È un ristorante pubblico. Avresti potuto chiedere a Jack di usare il telefono del bancone. Non gli sarebbe spiaciuto».

    Vic travolse il suo discorso. «Non dire idiozie, ragazza. Jack Benson non lascia mai usare a nessuno quel telefono, a meno che la cucina stia andando a fuoco».

    «Avresti potuto provarci».

    «Lasciamo perdere. Il mio ritardo non è una scusa per quel che hai fatto».

    «Si era raffreddata», spiegò lei per la decima volta.

    «E a che serve il microonde?»

    «Il microonde è rotto, proprio come il telefono pubblico».

    Lui quasi si mise a ridere. Peccato che non lo fece. Sarebbe finta lì, ma il vecchio Zigger attaccò ad abbaiare. Vic diede un calcio al segugio, proprio nelle costole. Il cane guaì per protestare.

    «Taci, cane».

    Prendere a calci il cane avrebbe dovuto farlo raffreddare un po’, solo che Vic non funzionava così. Un po’ di violenza lo caricava come un attizzatoio spinto nel fuoco.

    «Mi serve solo di sapere che stavi pensando», chiese lui, tornando alla sua collera come un cane all’osso. «Fare una cosa simile».

    «Si era raffreddata», ripeté lei. «Si era raffreddata, ero stanca ed era quasi mezzanotte. Bisognava dar da mangiare al cane. Se avessi portato a casa del cibo per cani come ti ho chiesto, non avrei dovuto dargli il tuo».

    «C’era una partita di hockey in TV», obiettò Vic. «Non capisci?»

    Alzò la voce all’ultimo come un bambino ferito. Per poco Maddy non si mise a ridere. Era così ottuso. Non riusciva a capire che si stava comportando da testa di cazzo. Per poco non rise, ma ridere adesso avrebbe significato cercarsela.

    Non aveva tendenze suicide.

    Non ancora.

    Cercò di fare pace.

    «Ascolta Vic, c’è del salame nel frigo se vuoi. Qualche sottaceto e della salsa se ti vanno. Sarò felice di friggerne un paio di fette e farti un panino».

    «Non voglio del salame puzzolente e ne ho abbastanza delle tue conserve. Voglio la mia cena, cazzo, e la voglio adesso».

    Al sicuro sotto il tavolo, Zigger abbaiò di nuovo. Scattava sempre, da quando i suoi occhi erano andati. Il suo abbaio rimbalzò sulle pareti grigie e scrostate della cucina finché non sembrò che l’intonaco dovesse spaccarsi.

    «Zitto!» urlò Vic, calciando il tavolo e il cane sotto di esso.

    Non lasciarti provocare, si disse Maddy, ma qualcosa stava crescendo dentro di lei, diventando più grande ogni istante che passava.

    «Pensavo la stessa cosa», attaccò, cercando ancora un modo per cambiare argomento.

    Quell’attimo di disattenzione fu tutto ciò di cui Vic aveva bisogno. La afferrò per il mento e le fece girare a forza il viso per guardarla negli occhi.

    «Cosa pensavi, Maddy? Cosa pensavi? Cosa hai mai pensato nella tua vita dimenticata da Dio?»

    Spinse il suo volto più vicino a quello della moglie, torreggiando sopra di lei. Non ne aveva davvero bisogno. Vic era tutto grande, un totem di uomo, tutto fronte e mento incorniciati in un bosco di capelli neri e annodati. Già stare accanto a lui faceva sentire Maddy piccola. Era una specie di lenta erosione che le scavava l’anima nel profondo. Ogni anno, Vic la faceva sentire un po’ più piccola, come se la stesse tagliuzzando finché non ne sarebbe rimasta che un’ombra.

    A volte sentiva di non essere altro che una marionetta che danzava appesa ai fili.

    «Se avessi imparato a pensare, di certo non vorrei saperlo», continuò Vic.

    La cosa dentro di lei crebbe ancora. Ogni respiro la tagliava come un coltello per il pesce, il cuore le batteva come un percussionista folle. È un attacco di cuore, pensò. Sto avendo un attacco di cuore.

    «Maddy? Mi stai ascoltando?»

    Oh, Dio, sono felice che sia finita. Può seppellirmi dove gli pare.

    Non mi importa.

    Zigger abbaiò e sfrecciò sul pavimento della cucina.

    «Taci, cane», ringhiò Vic. «Non basta che hai mangiato la mia cazzo di cena?».

    Maddy strinse gli occhi. Sentì un lampo di luce blu esploderle nella testa, come il botto di apertura di uno spettacolo di fuochi artificiali.

    Oddio.

    È un ictus, pensò. Un ictus o un attacco di cuore, o magari un qualche tipo di aneurisma.

    Qualunque cosa fosse stata, non poteva essere peggio della vita con Vic.

    Proprio allora Vic schioccò le dita a un centimetro dai suoi occhi, richiamandola dalla soglia della sua morte immaginaria.

    «Ehi!» le urlò.

    Maddy aprì gli occhi, diventando di colpo vigile.

    «Mi stai ascoltando?»

    Lei lo fissò. Non era un attacco di cuore, ma di certo era qualcosa. Un puntino di luce blu si aprì di botto davanti al petto di Vic. Maddy sapeva che la luce doveva essere arrivata da qualche parte dentro di lei. Non era nulla di ciò che aveva pensato. Era piuttosto qualcosa che sentiva.

    Il puntino fluttuò all’altezza del cuore di Vic, intermittente come una lucciola blu.

    «Allora?»

    Lei vide un’opportunità e la colse.

    «Si era raffreddata, Vic. La tua cena si era raffreddata e le costolette di maiale erano unte e ho immaginato che fossi da Benson ed è un ristorante perciò dovevi aver cenato, perché non l’hai fatto?»

    La cavalleria giunse così velocemente. Diede la colpa a lui. Lo fece mettere sulla difensiva. Avrebbe funzionato. L’aveva intrappolato nella sua bugia e fatto sentire come se avesse dovuto nascondere l’intera cosa.

    L’aveva battuto di nuovo.

    Non le importava. Non lo notò neanche, non sul serio.

    Era troppo occupata a fissare la luce blu, chiedendosi che cosa fosse. Forse non veniva da lei. Forse era qualcos’altro. Uno di quei mirini al laser che si vedevano nei film. E se ci fosse stato un cecchino fuori, nell’oscurità del campo, a prendere di mira la cucina? A prepararsi a sparare? L’avrebbe disturbata vedere Vic essere fatto a pezzi da un fucile?

    Decise di aspettare per scoprirlo.

    «Mi stai ascoltando, ragazza?»

    Lei annuì vagamente, incantata dal puntino blu.

    Vic roteò gli occhi per il disgusto. «Svegliati, cervello di paglia! Gesù Cristo, sembri una specie di sonnambula. Mi stai ascoltando, ehi?»

    «Sto ascoltando, Vic».

    Solo che non stava affatto ascoltando. Non ascoltava da anni. Vic non aveva proprio niente di nuovo da dire. Per quel che riguardava il loro matrimonio, aveva smesso di crescere molto tempo prima.

    La luce blu si espanse. Era come guardare il vecchio televisore di papà, spegnendolo al contrario.

    «Non mi stai ascoltando. Cristo. Non so davvero perché mai ti ho sposata. Tuo padre aveva ragione, lo sai? Sei stupida e brutta».

    Quello le fece male.

    «Non sono brutta, Vic. Forse sono stupida, ma di sicuro non sono brutta».

    Era vero. Maddy era sempre stata carina. Non una stella del cinema, certo. Era carina in modo duro, come erba di campagna in piena fioritura. Capelli biondo paglia, dritti come lo sputo di un mendicante, e occhi che suo padre chiamava blu fiordaliso. Una gobbetta sul ponte del naso, all’ingiù come la curva di un fiume. Fianchi sottili per via del lavoro e delle preoccupazioni, ma vivere con Vic avrebbe reso così qualunque donna.

    «Sei più magra di uno stelo d’erba, e se quelle tette arrivano più vicine a terra lasceranno delle sgommate quando cammini».

    Era una crudele verità. I seni di Maddy si avvicinavano di più allo stomaco ogni anno. Quasi nascondevano la fila di cinque piccole cicatrici rotonde che Vic chiamava i suoi buchi delle costole. Ma cosa poteva farci?

    Inchiodarle?

    «È la legge di gravità, Vic», spiegò. «Prima o poi cadiamo tutti, non posso farci nulla. Solo i problemi risalgono».

    Lei fissò il punto blu, guardandolo crescere. Vic non sembrava notarlo affatto, non importava quanto si ingrandisse. Il punto iniziò a cambiare come se stesse prendendo forma.

    «Ricominciamo», si lamentò Vic. «Se facessi un po’ di lavoro qui intorno, invece di sognare a occhi aperti, potrei tornare a casa con un umore molto migliore».

    Quella era una bugia sfacciata. Vic non sapeva come essere di buonumore a meno che fosse ubriaco, e anche quella non era affatto una garanzia.

    La chiazza blu prese forma. Sembrava una specie di bambola di pezza, che si ingrandiva costantemente. Vic diede un colpo al tavolo di pino a scopo di enfasi. La saliera e la pepiera tremarono nel loro contenitore di legno.

    Maddy non se ne accorse.

    Era troppo occupata a fissare l’immagine blu che fluttuava proprio tra lei e Vic.

    L’immagine blu fluttuante di suo padre morto da tempo.

    «Quanto ancora permetterai a questa scorreggia con le gambe di cavarsela con merda del genere?» chiese a Maddy il suo defunto padre.

    * 2 *

    Helliard Jolleen guidava una Mercury, proprio come suo padre. Due diverse sfumature di rosso spruzzate su una pelle rosso-marrone chiazzata di ruggine. Duane la chiamava Mimetica Marziana. A Helliard piaceva di più immaginarla come fiamme o sangue.

    Oggi era fiamme E sangue.

    Helliard era sicuro di una cosa.

    Qualcosa che suo padre gli aveva detto molto tempo prima.

    «La morte è tutto attorno a te, ragazzo. Ti aspetta dietro il prossimo angolo per saltarti addosso quando meno te l’aspetti. Credi in questo e crescerai forte. La prima cosa che devi imparare è non temere la morte».

    Il padre di Helliard, che una volta aveva suonato la chitarra con Hank Snow e poteva colpire la fica di una pulce incinta, aveva insegnato a suo figlio il ritmo e come uccidere.

    «Finché sei vivo, Helliard, puoi combattere, eh? Ora, molte persone dicono combattere, ma vogliono dire colpire. Io non intendo dire colpire. Colpire è per le ragazzine che giocano. Quando dico combattere, intendo dire uccidere. L’uomo che inizia uno scontro pronto a uccidere non lo si può battere. Perciò devi imparare a uccidere, e uccidere è proprio come una canzone country. Ha un suo ritmo, facile come respirare, facile come ballare, che tu gli spari, li accoltelli o li picchi fino a mandarli all’inferno».

    Era la verità di papà e una dannata bugia.

    Helliard ora lo sapeva per certo.

    Cazzo!

    Fece girare la Mercury rossa, facendo rovesciare metà delle patatine fritte di Duane Telford sulla sua barba.

    «Cazzo, Helliard!» imprecò Duane, cercando di cacciarsi il resto delle patatine in bocca. «Stai cercando di uccidere un uomo?»

    Duane era un inutile grassone. Di solito, Helliard non gli avrebbe prestato la minima attenzione. Ma quel giorno, dopo aver visitato quell’ospedale, Helliard si sentiva parecchio a est del solito.

    «Chiudi quella cazzo di bocca, Duane. E comunque mangi troppo. Quello stomaco sarà la tua morte, lo giuro».

    Helliard si tolse un ciuffo di capelli rossi dall’occhio. Quei capelli erano un altro regalo di suo padre. Diceva che era il carattere dei Joleen che sanguinava.

    «Cazzo, Helliard. Da quando sei tornato da quell’ospedale sei più scortese di un’ascia arrugginita. Che cavolo ti è preso?»

    Helliard pensò all’ospedale. Pensò a suo padre. Pensò a ciò che aveva avuto paura di fare.

    Non riusciva a gestire nessuna di quelle cose.

    «Chiudi quella cazzo di bocca prima che ti dia un calcio in culo e te lo faccia arrivare nei denti, Duane».

    «Beh, cazzo, Helly, mi hai fatto buttare quasi tutte le patatelle», si lamentò Duane, raccogliendo e mettendosi in bocca le briciole più grosse che aveva sulla barba.

    «Patatine, Duane. Non patatelle. Si chiamano patatine. E poi, mangi troppo, cazzo».

    «Sto crescendo», disse Duane.

    «Mi stai facendo saltare i nervi, ecco cosa stai facendo. Ora chiudi quella maledetta bocca del cazzo, va bene?»

    Duane fece silenzio. La gente faceva sempre silenzio quando glielo diceva Helliard, perché Helliard era un duro.

    Oh, sì.

    Sfilò una sigaretta Export-A dal pacchetto nella tasca della camicia. Aprì con uno scatto il suo accendino Zippo e lo accese senza perdere un colpo. Era così che a Helliard piaceva fare le cose, lisce e dure, senza pensarci.

    Solo che adesso non si sentiva tanto duro. Non dopo aver visto il suo papà in un letto d’ospedale senza più carne sulle ossa di un legnetto per il fuoco, a implorarlo di trovare le palle per prendere Cazzone e...

    «Cancro del cazzo».

    Una crescita, l’aveva chiamata suo padre. Come se fosse stata qualche cazzo di erbaccia.

    «Gesù».

    Papà gli aveva dato l’accendino per il dodicesimo compleanno. Si diceva che fosse della Seconda Guerra Mondiale. C’erano delle incisioni sopra. Dicevano COSÌ RACCOGLIERAI in grandi lettere ornate, tutte curve e archi che gli ricordavano i ganci appesi nei mattatoi. D’antiquariato o no, l’accendino funzionava davvero bene.

    Si accendeva al primo colpo, ogni volta.

    Niente merda di plastica al butano per Helliard.

    Inspirò a fondo dalla sigaretta e fece un paio di colpi di tosse per schiarirsi le vie respiratorie. Avrebbe dovuto smettere con quella merda. Era stato il fumo a uccidere suo padre. Prima o poi il vecchio tabacco ed erba avrebbero fatto sapere a Helliard che il suo conto era scaduto da tempo.

    Cazzo.

    Aspirò di nuovo. Soffiò il fumo addosso a Duane per il gusto di farlo.

    «Merda di cavallo, Helly!»

    Il dottore aveva dato a suo padre tre mesi di vita. Lui aveva detto a Helliard che doveva restare nei paraggi e tenere d’occhio le cose.

    Col cazzo.

    Restare nei paraggi, guardare un uomo morire, era troppo simile a restare nei paraggi a guardare la tua casa che bruciava dopo che era esplosa la tanica della benzina.

    Helliard si rimise in tasca l’accendino. Toccò la pistola, infilata nella cintura di cuoio. Era una vecchia grossa Ruger Blackhawk. Troppa pistola, la chiamava papà, ma Helliard la chiamava Cazzone, perché faceva un buco del cazzo in tutto ciò a cui sparava. Avrebbe potuto fare un buco

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