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Ho la tua valigia
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Ho la tua valigia
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Ho la tua valigia

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About this ebook

Amanda Pirelli, giovane professionista di relazioni pubbliche, non vuole altro che vivere lontano dal dolore che la vita le ha riservato. Equilibrio e compostezza sono i pilastri intorno cui ruota la sua quotidianità. Ma a volte si sa, il destino gioca a mescolare le carte dei nostri giorni. Ed ecco come una presunta promozione si trasforma in un viaggio di ritorno assolutamente inaspettato, verso dove tutto è iniziato. Una partenza indesiderata che si arricchisce di nuovi e vecchi incontri. Ma cosa succederebbe se, dopo aver pescato dal ritiro bagagli la valigia sbagliata, Amanda si ritrovasse davanti Alessandro Costa, l'uomo che dieci anni prima le ha spezzato il cuore?
LanguageItaliano
Release dateJan 7, 2017
ISBN9788822885920
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    Ho la tua valigia - Alessia Alessi

    Alessia Alessi

    HO LA TUA VALIGIA

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Capitolo 1

    ALESSIA ALESSI

    Ho la tua valigia

    "A mia sorella,

    il mio Alter Ego. Con amore."

    Capitolo 1

    MILANO, OGGI.

    Informiamo i gentili viaggiatori che fra qualche minuto atterreremo all’aeroporto di Milano Linate, la giornata è leggermente nuvolosa e la temperatura è di sedici gradi centigradi. Nell’augurarvi un felice soggiorno, cogliamo l’occasione per ringraziarvi di aver scelto di volare con noi!

    <> sento una vocina appena sussurrata provenire da lontano, molto lontano.

    <> continua a bisbigliare. Mi piacerebbe provare a capire di quale sciagurato evento mi ritrovo a essere protagonista, ma riesco appena a collegare il cervello al resto dei miei organi vitali. Il cuore continua a battere e questo mi conferma che sono ancora viva. Al momento mi basta. <> mormoro con la bocca impastata <> apro gli occhi e mi sconvolgo nel vedere buio, solo buio e oscurità intorno a me. Una cosa assai bizzarra. Poi ricordo d’un tratto dove mi trovo e, neanche fossi programmata come un automa, sposto dagli occhi la mascherina che ho usato per far conciliare il sonno durante il viaggio. Mi rendo conto che siamo appena atterrati, che ore saranno?

    Scuoto la testa tentando invano di riprendere in mano la situazione ma, sono in volo da circa sette ore e il mal di schiena mi sta uccidendo. Osservo alla mia sinistra il viso paffutello dell’hostess che tenta dolcemente di riportarmi nel mondo dei non dormienti. Sorrido di rimando, magari in questo modo penserà di aver fatto un buon lavoro, il suo, e andrà via. Ma poi mi accorgo di quanto la situazione sia assai più ingarbugliata. Alla mia destra, infatti, corrucciati e impazienti, scorgo i volti di un uomo e una donna, bloccati ai loro posti a causa della mia dormiveglia, perché.. si, insomma, parliamoci chiaro, non stavo mica dormendo sul serio!

    Intimidita dai loro sguardi accusatori, alzo gli occhi al cielo, passo al volo le mani sulle punte del mio caschetto alla Cleopatra e mi alzo, cercando di avere un aspetto quanto più formale e pimpante possibile.

    Prelevo il mio bagaglio a mano dalla cappelliera e mi metto in coda, in attesa di scendere dal velivolo soffocante e respirare aria vera. Vabbè, si fa per dire.

    Quello che ho imparato vivendo a New York è che, di certo, dalle grandi città puoi aspettarti qualsiasi cosa, da Brad Pitt in fila da Mc Donald’s a Johnny Depp che fa jogging a Central Park, ma è chiaro che non puoi ambire al benessere dei tuoi polmoni. No, questo in una grande città non è possibile, non era possibile a New York e non lo sarà qui a Milano.

    Certo, magari sto un po’ esagerando perché, a essere sincera, io non ho mai incontrato Brad Pitt in fila da Mc Donald’s, e di questo potete esserne certi perché sono una vegetariana convinta e, si, faccio jogging ma, a dirla tutta, il massimo della compagnia di cui ho goduto durante le mie corse mattutine a New York è stata quella di Charles Stanford, il mio vicino di casa mezzo sordo. Non Johnny Depp, assolutamente no.

    Dopo qualche minuto di attesa in coda, finalmente riesco a uscire dall’abitacolo.

    <> mi augurano le hostess appena un momento prima di essere colpita in pieno da un esile raggio di sole.

    <> bisbiglio tra me e me fermandomi a fissare un punto non definito appena davanti al mio naso. L’Italia.

    L’ultima volta che ho messo piede in Italia, la mia terra natale, avevo appena compiuto venticinque anni. Quattro lunghi anni fa. D’un tratto un irrefrenabile flusso di ricordi mi investe con prepotenza e inizio a ripercorrere a ritroso le immagini di quegli anni. Dal trasloco da Genova, la città dove sono nata e cresciuta, all’università, alle notti folli. La carbonara come spuntino di mezzanotte durante le sessioni d’esame.

    A quel tempo non avevo ancora iniziato il mio percorso di disintossicazione permanente dal cibo che prevede omicidi colposi e preterintenzionali.

    Una voce si schiarisce alle mie spalle e mi rendo conto di aver, ancora una volta, creato un ingorgo. Mi appresto a scendere i gradini della scaletta dell’aereo e, col magone allo stomaco, mi avvio verso l’interno dell’aeroporto. In effetti sono grata a quei due vecchi brontoloni per avermi risvegliata dal mio salto nel passato, qualche minuto in più e tutto sarebbe diventato così doloroso che probabilmente sarei finita col piantonare i piedi a terra minacciando di incatenarmi alla maniglia se entro cinque minuti non mi avessero riportato negli Stati Uniti. Ormai New York è la mia casa.

    Giunta all’interno dell’aeroporto di Milano Linate mi precipito verso il nastro del ritiro bagagli. Certo una capatina alla toilette sarebbe assai gradita, ma decido di non rischiare una candida o di contrarre una qualche assurda malattia sconosciuta a causa dell’infinita quantità di germi presenti nei bagni pubblici.

    Il tabellone che segnala i voli già atterrati mi invita a dirigermi al nastro numero otto per ritirare la mia valigia. Solo a pensarci sudo freddo.

    A New York lavoro in una delle migliori agenzie di comunicazione sin da dopo la laurea. Il relatore della tesi mi mise in contatto con l’ufficio risorse umane e in men che non si dica venni assunta. Il trasferimento fu celere e inaspettato, esattamente come questo.

    Un mese fa sono stata convocata dal grande capo in persona. Per giorni c’ho rimuginato sopra, ma poi ho capito, doveva per forza essere una promozione. D’altronde meritatissima.

    Ovviamente, ognuno qui sa quanto la vita può essere imprevedibile. Quindi, nessuno si stupisce se vi comunico che, quel giorno, al posto della tanto bramata promozione, mi è stato semplicemente comunicato di dover seguire un progetto dall’Italia, il lancio di un brand d’abbigliamento ecosostenibile. Inutile dire che mi è piombato il mondo addosso. Letteralmente. Non sono sicura di sentirmi lusingata dal fatto di essere stata scelta per questo compito, ho sempre avuto la sensazione di essere considerata dai miei colleghi quella strana. L’Italiana che non mangia, qualche volta li ho sentiti bisbigliare in sala ristoro sul mio conto. Questo solo perché sono vegetariana. Beata ignoranza. Un’altra volta ancora ho sentito l’assistente dell’account executive parlottare con la segretaria del grande capo Credo sia l’unica italiana asociale, sono stata in vacanza a Capri diversi anni fa e… e bla bla bla. Italiana asociale, solo perché non mi unisco ai loro pranzi a base di pezzetti di pollo assassinato, impanato e fritto nel burro con contorno di gossip? Beh piuttosto consumo i miei centrifugati in uno scantinato, ma voglio dire, non è questo il caso. A dirla tutta, di tutta questa situazione, personalmente me ne infischio. Anzi, mi va persino bene così. Non sono la persona più simpatica del mondo e credo che questo si sia capito.

    Insomma, quattro settimane e due valigie dopo, mi ritrovo catapultata in una realtà che per diversi anni ho accantonato, poco entusiasta certo, ma sempre disposta a mettermi in gioco. Ok, piuttosto che tornare in Italia avrei preferito camminare a piedi scalzi sulle uova sode, a Milano soprattutto, ma il mio lavoro richiede flessibilità e una delle poche certezze della mia vita è che sono brava nel mio lavoro. Pertanto eccomi qui, armata del mio migliore finto sorriso e felice come un tacchino il giorno del ringraziamento.

    Dopo venti minuti di attesa, trascorsi a osservare orribili batuffoli di polvere qua e là, finalmente vedo la prima valigia capitolare giù dritta sul nastro che, all’istante, inizia a muoversi. Finalmente.

    Osservo i passeggeri del mio volo saltellare da un piede all’altro, tutti smaniosi di avvistare il proprio bagaglio. Ne iniziano a venir giù uno dopo l’altro. Due, quattro, poi dieci, tutti di diversi colori, alcuni a dirittura a fiori, uno a pois. Batto compulsivamente la pianta del piede sul pavimento liscio e gommoso dell’aeroporto, domandandomi il motivo per cui, da che ho memoria, decido sempre di acquistare insulse valigie blu. A volte sarebbe interessante osare, mostrare un po’ di brio insomma. Potrei optare per uno zainetto rosa, magari con delle margherite.

    Disgustata al sol pensiero, scaccio l’idea prima ancora che l’immagine di una nuova me con zaino in spalla si formi nella mia testa e, armata di salviette umidificata, afferro al volo la maniglia del mio bagaglio, sbucato fuori dal nulla. Alleluia!

    Mi piego sotto sforzo sul nastro e trascino il bestione carico di tutte le mie preziose borsette, scarpine e chi più ne ha, più ne metta. Mi viene quasi da piangere per la felicità quando mi rendo conto che il peso, che ricordavo di aver sollevato sette ore prima, era decisamente maggiore rispetto a quello che effettivamente sto trasportando. Ricordi ingannevoli. L’ansia della partenza deve avermi messo in crisi, a un certo punto ho iniziato a vedere il bicchiere mezzo vuoto. Rendetemene atto, ero impaurita.

    Una volta fuori dall’aeroporto mi dirigo verso la fermata dei taxi. Respiro a fondo, ascoltando con disinteresse le voci tutte intorno a me. Non ero più abituata a sentire parlare italiano, mi fa uno strano effetto.

    Il tassista, un signorotto tutto pancia e occhiali spessi, si offre di aiutarmi con i bagagli, salto dentro e qualche istante dopo siamo diretti in zona Garibaldi, dove l’agenzia ha affittato per i prossimi tre mesi la mia provvisoria, nuova, dimora.

    I vaghi ricordi che affiorano timidi nella mia testa sono di una Milano caotica, sommersa dal traffico, comunque ordinata e a volte un po’ troppo grigia per essere considerata piacevole.

    Un tempo l’amavo, d’altro canto un luogo è quello che è, sono le persone a rendere la tua esperienza più o meno piacevole e io, in quegli anni, sono stata davvero molto fortunata.

    Quando ho iniziato a frequentare la facoltà di comunicazione ero entusiasta. Una nuova città, una nuova indipendenza, una casa da condividere con dei coinquilini.

    Era tutto nuovo, anche se la paura di non conoscere nessuno di interessante con cui fare amicizia, qualche volta, mi ha sfiorato la mente. D’altronde era la prima volta che mi ritrovavo a frequentare un istituto privato e avevo un’idea totalmente distorta della realtà. Ok, non totalmente, ma parzialmente.

    La mia idea era quella di un ateneo pieno zeppo di stronze viziate e idioti sfondati di soldi sempre pronti a sbatterti in faccia la loro ricchezza, persino durante la scelta della carta da usare nei cessi. Beh, non era così in realtà, quanto meno non del tutto. Dopo qualche settimana di lezioni capì che si, gli stronzi che amavano la carta igienica di Vuitton sono in mezzo a noi, un po’ come si dice degli alieni, ma conobbi anche ragazzi normali e alla mano, gente tranquilla che ben presto divenne il mio gruppo studio, poi la mia classe di semiotica, infine i miei amici di sempre.

    Dopo la laurea magistrale e la partenza per gli Stati Uniti ho perso tutti i contatti e questo non mi lusinga affatto. Avrei potuto mantenere i rapporti, ma dopo tutto quello che era successo, dopo quello che la mia famiglia aveva dovuto superare, mi chiusi a riccio e presi la decisione di lasciare fuori per un po’ le persone a cui tenevo di più, per evitare che soffrissero insieme a me o del mio comportamento.

    Inutile dirvi che, giorni su giorni, sono passati anni e i miei rapporti d’amicizia, quelli sinceri di sempre, non sono mai più stati recuperati.

    Dopo aver pagato il taxi e caricato coraggiosamente le valigie sull’ascensore del palazzo che mi ospiterà nelle prossime settimane, pigio il pulsante del quinto piano, agitando le chiavi tra le dita. Il quartiere in questione è davvero impressionante. Zona centrale, fermata metro a cinquanta metri da casa (non che io abbia intenzione di usarla visto l’ingente tasso di sporcizia che la caratterizza) e tutti i servizi utili a portata di mano. C’è persino un piccolo giardinetto dove ho visto chiacchierare diverse persone a spasso con i loro cani. Tranquillo e confortevole. Che gran botta di culo che sia l’agenzia a pagare per me! Spero solo di non dovermi pentire di questi pensieri varcando la soglia di casa.

    Quando l’ascensore si apre, scopro a malincuore che per raggiungere la porta dell’appartamento devo salire ben sette scalini. Sette. La cifra mi sembra ragionevole e lo sarebbe davvero se solo non fosse che trascino con me il fardello di due ammassi di roba pesanti come un toro. Che palle!

    Armata del mio più sincero spirito di adattamento sollevo per i manici laterali la prima, quella un po’ più piccola. Non sono mai stata quel genere di persona che decide di affrontare prima il peggio per godere del meglio dopo, vado più per il criterio di gradualità, un criterio coniato da me stessa in persona secondo cui è sempre meglio agire, per l’appunto, in modo graduale.

    <> impreco con un sussurro per evitare che qualcuno si accorga della mia goffa presenza sul pianerottolo. <> continuo coraggiosa la mia attività di sollevamento pesi in procinto di raggiungere un traguardo intermedio: il terzo gradino. Non voglio nemmeno pensare che questo è solo il bagaglio più leggero e che, a onor del vero, un altro peso (non esattamente piuma) mi attende ancora in ascensore. Un momento! Ascensore? <> sbotto allarmata e, giusto il tempo di immaginare cosa di lì a poco sarebbe potuto accadere, vedo le porte dell’ascensore iniziare a chiudersi <> alzo di un decibel la voce mollando il peso medio per andare incontro al peso massimo intrappolato nel metro quadro dell’elevatore. Balzo dai tre gradini come se stessi correndo incontro al sacro Graal della giovinezza e inizio a pigiare ogni possibile tasto che ho davanti. Non faccio in tempo e rimango lì, imbambolata, a osservare l’ammasso di ferraglia scendere verso chissà quale piano. Infervorata e decisamente rassegnata, decido di aspettare che l’ascensore si liberi per pigiare nuovamente il tasto apposito a farlo risalire da me, insieme al mio bagaglio. Mi volto, decisa a completare l’opera e, come se non bastasse, mi accorgo di quanto la sfiga oggi abbia voluto premiare la mia impertinenza: il mio traguardo di tre gradini si è azzerato completamente. Durante la mia atletica corsa verso l’ascensore, la valigia più leggera è caduta, rotolando nuovamente al primo insulso maledetto gradino.

    Insomma, pare che le piccole disavventure siano tipiche dei nuovi trasferimenti. Voglio dire, non pensavo certo di trasferirmi da un continente all’altro pretendendo che tutto filasse liscio come l’olio! Anzi, a essere sincera sono persino soddisfatta della mia maratona italiana. Il volo è andato bene, ho dormito tutto il tempo. In aeroporto la mia valigia è arrivata quasi subito il che risulta essere davvero elettrizzante per una come me, abituata a ricevere le desolate scuse delle hostess in merito alla perdita della suddetta. Raramente questa mi è stata subito consegnata, quindi, sono sincera quando dico che, in fondo poteva andare peggio. Grazie al cielo, il vecchino del piano di sotto deve aver subito capito che i trenta chili di bagaglio rinchiusi nell’abitacolo altro non fossero che il frutto della mia sbadataggine (e del jetleg) quindi, una volta giunto al pian terreno, ha pensato bene di rimandare su l’ascensore. Beata gentilezza.

    Diversi quarti d’ora più tardi sono meravigliata nello scoprire l’eleganza del mio nuovo appartamento. Un piccolo corridoio in parquet conduce, dall’entrata, direttamente a un delizioso salotto arredato con un tavolino di cristallo e un bel tappeto persiano bordeaux.

    Le pareti, bianche anch’esse, confondono i contorni di un grazioso divano a due posti in pelle in bianca e.. udite, udite, davanti al televisore plasma, noto la piacevole presenza di una sedia a dondolo in legno scuro.

    Mollo le valigie e tolgo le scarpe col tacco, basso si, ma dopo un po’ altrettanto doloroso, e continuo il tour dell’appartamento. Il bagno è adorabile, noto che il parquet padroneggia su tutta la casa, dei tappeti spugnosi color magenta spiccano in contrasto col colore del legno. Una doccia bianca con un getto d’acqua impressionante, che subito mi fa venir voglia di spogliarmi, e una vasca antica con le tipiche zampe di leone a sorreggerla. Uh, interessante. Specchio enorme e illuminazione ad hoc completano il quadro, per non contare l’essenza ai frutti di bosco che percepisco venir fuori dalle boccette rotonde contenenti sali da bagno profumati. Sospiro beata e decido di passare alla cucina. Il parquet qui è stato sostituito da mattonelle chiare, lucide e molto luminose. Le pareti, rivestite da carta da parati color pastello, turchese e verde acqua con un tocco di giallo per ravvivare il tutto. Al centro un lampadario color limone riprende i ghirigori delle pareti, un tavolino in legno per quattro persone e altrettante sedie. Non è la stanza che preferisco della casa, ma d’altronde sarà persino quella che vivrò di meno visti i miei orari di lavoro, quindi non ha importanza. Manca ancora una camera ma, nel complesso, sono soddisfatta.

    <> è tutto ciò che riesco a dire non appena apro l’ultima porta, quella della camera da letto. Un ambiente spazioso e arredato con cura. Lunghe tende bianche alle finestre, un armadio gigantesco di legno chiaro, un imponente tappeto color lavanda al centro e il letto. Dio mio, il letto è… <>

    Non credo ai miei occhi, è tutto perfetto. Mi avvicino lentamente, quasi temendo di sgualcire la superficie del parquet, nonostante sia a piedi scalzi. Sfioro con la mano la morbidezza della trapunta lilla e un brivido di soddisfazione mi attraversa lungo la schiena. In preda all’emozione (e sempre all’effetto del jetleg) decido di spogliarmi e, senza nemmeno provare la meravigliosa vasca che può tranquillamente aspettare, mi fiondo sul letto, nuda come un verme, e sprofondo in un sonno rilassato e beato. Ok, come inizio non c’è male.

    A interrompere la beatitudine dei miei sogni, diverse ore dopo, è lo squillare imperterrito del mio maledetto cellulare <> borbotto ancora mezza intontita. Dove mi trovo? Chi sono? Ripeto tra me e me mentre cerco di mettere a fuoco l’ambiente tutto intorno. Rotolando tra le coperte leggo l’orario sulla sveglia elettronica, sono le otto di sera. Merda, se vado avanti così, col cavolo che smaltisco il fuso orario!

    Infastidita dal cellulare che continua a squillare senza ritegno, mi alzo barcollante e raggiungo la borsa rimasta in corridoio. Ripesco il telefono e quando leggo il nome sopra, sospiro rassegnata.

    <> è il mio capo. Si, alla veneranda età di ventinove anni, l’unica persona a utilizzare il mio numero di telefono è il mio capo. Triste no?

    Dopo una serie di domande schiette e di circostanza, del tipo Com’è andato il viaggio? Gradisci l’appartamento? e quella che più ho preferito Riuscirai a smaltire il fuso per la riunione di lunedì mattina? abbiamo messo, per fortuna, fine a questa chiamata imbarazzante, ma comunque gradita. Voglio dire, almeno so che se sparissi da un giorno all’altro, esiste qualcuno che si accorgerebbe della mia assenza.

    George Shelley è il proprietario dell’agenzia di comunicazione per cui lavoro a New York, la Shelley&Co – Communication. È un uomo alto e ben messo, ha due enormi occhi azzurri e, sebbene sembri tutto d’un pezzo, ha davvero un gran cuore. Ho iniziato a lavorare per lui come stagista. Del mio mestiere, all’epoca, sapevo solo quello che avevo potuto apprendere dai libri, ma lui mi ha tirato su come una piantina, proponendomi dei progetti via via sempre più impegnativi ma mai fuori luogo. È stato il mio mentore, e lo è ancora. Nonostante questo tra noi si è sempre mantenuto un rapporto di grande stima e collaborazione e la linea capo/dipendente non è mai stata superata. Il che è un bene.

    A volte mi domando cosa possa aver pensato quel lontano cinque Ottobre di quattro anni fa, quando misi piede per la prima volta nella sua agenzia con una maschera di forza e ambizione in volto, provando a celare un cuore distrutto e sanguinante.

    Nonostante avessi l’espressione da cucciolo di pitbull con l’animo di un barboncino infreddolito dalla pioggia, George Shelley mi diede il benvenuto a bordo della sua grande azienda e quel giorno iniziò la mia avventura newyorkese.

    Rendendomi conto dell’ora, capisco che ambire a trovare un supermercato aperto sia una pretesa abbastanza ambiziosa persino per una come me. Decido quindi di tuffarmi, metaforicamente parlando, dentro la succulenta vasca. Un bagno caldo è ciò che ci vuole. Ordinare cibo da asporto o un’orrenda pizza in un cartone non è affatto tra le mie prerogative di vita, pertanto dopo, guarderò un film d’azione dal mio iPad e a letto senza cena.

    Poco più tardi, mi lascio abbracciare dalla schiuma profumata che ricopre interamente il mio corpo pallido. Nonostante il colore scuro dei miei capelli, ho sempre avuto una carnagione cosi chiara da sembrare una finlandese. Il calore dell’acqua mi provoca dei brividi di piacere e il vapore sugli specchi cela ai miei occhi l’immagine riflessa del mio viso arrossato, pazienza. D’altronde, scorgere le mie occhiaie violacee su uno specchio, al momento, è l’ultimo dei miei pensieri.

    Non ricordo esattamente come andò quattro anni fa il mio adattamento all’orario americano, ma non mi sembra di averla vissuta cosi male. Non so quanto tempo dopo, apro gli occhi infreddolita, risvegliata ancora una volta dallo starnazzare del mio cellulare. George oggi non si sta proprio controllando. Stupita d’essere riuscita a prendere sonno immersa in una vasca da bagno, cosa mai successa prima, mi alzo in preda alla frustrazione e mi affretto a cercare un telo con cui coprirmi.

    <> sbotto nervosa al pensiero di essere stata ancora una volta ripescata dalla beatitudine del mio sonno ristoratore, anche se forse dovrei ringraziare George per la seconda chiamata visto che l’acqua era diventata così fredda che a breve sarei potuta andare in ipotermia. Esco dal bagno ancora smarrita, questa casa sarà pure adorabile, ma tutto mi è nuovo quindi.. <> strillo allo schianto del mio esile mignolo contro lo spigolo della porta a scomparsa. Maledetta!

    Nel buio della casa noto lampeggiare lo schermo del mio smartphone. Dopo aver parlato con George, devo sicuramente averlo poggiato sulla mensola all’ingresso da cui penzolano vari mazzi chiavi. Stupidamente, inizio a saltellare, un po’ per velocizzarmi, un po’ per lottare contro il dolore al piede, guadagnandomi in men che non si dica una clamorosa caduta <> impreco durante la colluttazione tra il mio candido didietro e il parquet, ma poi taccio e decido di lamentarmi dopo aver risposto.

    Raggiungo lo smartphone e mi stupisco nel leggervi un numero che non conosco, per di più italiano. Alzando gli occhi al cielo, pigio la cornetta verde e rispondo.

    <>

    <> sento pronunciare dall’altra parte del telefono con un tipico accento italiano, da quanto tempo non lo sentivo.

    <> domando all’uomo in linea.

    <> ribatte tutto alterato. La sua valigia?

    <> rispondo stizzita.

    <> <> il mio tono saccente vuole essere sicuro e imperturbabile.

    <> ma che problemi ha questo imbecille?

    <>

    <> mi canzona derisorio.

    Taccio per un istante scegliendo il malocchio migliore da lanciargli o la risposta più acida sia mai stata formulata, ma niente. Silenzio tombale. <> e riattacca. Stronzo prepotente.

    Ancora intontita per l’irruenza di quelle parole, batto compulsivamente le ciglia e cerco di capire che diavolo di problema abbia l’imbecille della telefonata. Mossa da un’irrefrenabile voglia di richiamarlo e dirgliene quattro, decido di agire come una vera adulta e, pertanto, mi accingo, col mignolo e il didietro ancora dolenti, a tornare in camera da letto per cercare di far luce su tutta questa storia.

    Quando arrivo in stanza, osservo il grande bagaglio rendendomi in effetti conto della presenza di piccoli segnali che confermano i sospetti destati da quel bruto. Non ricordo di aver mai acquistato una valigia Samsonite.

    <> borbotto esasperata scuotendo la testa <> e io che pensavo di poterlo richiamare vittoriosa e gridargli contro per i suoi modi da villano!

    Ancora non del tutto pronta a darmi per vinta, decido di aprire la valigia, certa di avere una possibilità su un milione di trovare una delle mie borse al suo interno. Infatti, non appena la apro, delle camicie ordinate, profumate e ripiegate su se stesse sono posizionate all’interno del bagaglio insieme a diversi maglioncini delle tonalità del blu, qualche pantalone e cravatte.

    Apprendo con tristezza, a questo punto, che nonostante i suoi modi del cazzo, l’uomo abbia tutte le ragioni per telefonare di sabato sera interrompendo il mio bagno terapeutico. Il bagaglio di certo non è il mio.

    Decido di non pensare alla sfiga, alla nuvola nera che si ostina a perseguitarmi e nel giro di venti minuti sono pronta, lavata e ben profumata con addosso le mutande e i vestiti del giorno prima, cioè del giorno stesso, intendo dire di oggi ma considerando il fuso.. oh cavolo, ok, lasciamo perdere!

    Avvolgo il mio corpo minuto e formoso nel cappotto di lana Max&Co che ho deciso di acquistare l’anno scorso come regalo di Natale a me stessa da me stessa. È Ottobre, ma la temperatura sembra provenire direttamente dai famigerati giorni della merla e io, con i nervi a fior di pelle, mi trovo a riportare giù dal palazzo questa dannata carcassa di bagaglio. Che rottura!

    Per fortuna il mitico George ha affittato un appartamento a regola d’arte, tant’è che pochi passi dopo sono già in metro, trascinando la mia sciagura in direzione Cadorna. L’odore pungente di chiuso e la sensazione appiccicaticcia che provo, mi fanno venir voglia di raggiungere quel maledetto uomo noleggiando una bici. Che disgusto! Mentre attendo l’arrivo a destinazione, cioè alla fermata che il despota ha stabilito come punto di incontro per restituirci le reciproche valigie, mi guardo i piedi domandandomi come sia possibile che abbia confuso i bagagli. Inoltre, nessuno dei due può sapere chi per primo abbia preso il bagaglio di chi, quindi che stesse calmo e rilassato! Comunque dopo aver dormito dieci ore abbondanti sono abbastanza in forze. Se cerca rogne, le avrà!

    La vocina della metro mi comunica che la prossima fermata è la mia, così mi alzo, i piedi ancora indolenziti, il sedere che pulsa per via del dolore e mi accingo ad uscire quando, in fondo al vagone scorgo un uomo, con la mia stessa valigia, prepararsi altrettanto a uscire. Oh, ma pensa te, dev’essere lui! Che coincidenza. Fingendo indifferenza guardo fisso davanti a me.

    Giunti a Cadorna, la metro decide di fermarsi di botto, e io, rischiando di cadere nuovamente sul culo, trascinando a malincuore il bagaglio, salto giù.

    Vedo l’uomo venire verso la mia direzione, direzione che a quanto pare prendono tutti considerando che ho vicino l’unica uscita dotata di scale mobili. Confusa da tutta quella marmaglia che mi viene incontro, decido di non rischiare l’ennesima figuraccia del giorno ed evito di tentare la fortuna. Prendo il cellulare dalla tasca e ricompongo il numero dello stronzo. Al secondo squillo, l’uomo in valigia si ferma e ripesca dalla tasca il suo cellulare. A quel punto ho la conferma che sia lui <> mi dice continuando a tenere il volto basso. Guardarlo in faccia mi risulta impossibile.

    <> borbotto con un tono da zitella acida che spero gli faccia capire d’aver trovato pane per i suoi denti. Dall’altra parte, il silenzio più totale, poi succede tutto molto in fretta. La confusione via via si smaltisce e lui alza la testa cercandomi tra i pochi passeggeri in corsa rimasti. Si avvicina e, quanto più lo fa tanto più lo vedo, lo osservo. Lo riconosco.

    Con gli occhi sgranati lo guardo mettere via il cellulare.

    <>

    <> ė tutto ciò che riesco a dire.

    Capitolo 4

    MILANO, 10 ANNI PRIMA.

    <> disse Ludovica con la faccia sognante.

    <Ciao posso ripassare con te?>> borbottò Elisa, decisamente meno sdolcinata.

    <

    <> provai a intromettermi sperando in un briciolo di considerazione.

    <> la beffeggiò di tutta risposta Elisa ridacchiando. <> ritentai la fortuna.

    <>

    <> e che cavolo! Le due si zittirono e si votarono a guardarmi con gli occhi sgranati. <> domandai provando a nascondere la mia ansia. Loro annuirono e quel gesto mi bastò.

    Dopo diversi minuti trascorsi a parlottare del più e del meno massacrandomi le pellicine delle dita, Alessandro si presentò rispettando una puntualità del tutto discutibile, ma bellissimo. Come sempre. Subito il cuore iniziò a martellarmi nelle orecchie, la salivazione si ridusse ai minimi termini e le farfalle diedero il via al loro pellegrinaggio dentro il mio stomaco vuoto. Vuoto, si, dal giorno in cui il meraviglioso sorriso di Alessandro incontrò il mio, non riuscì più a mandar giù nemmeno un cetriolino. Niente di niente.

    <> salutò sfoderando quel sorriso ammaliatore.

    <> le balbuzie divennero il mio pane quotidiano in sua presenza. Sorrisi. Si, ok, forse sarebbe stato il caso di presentarlo alle mie amiche, ma ero completamente imbambolata. Per fortuna Elisa e Ludovica non potevano di certo essere definite delle timidine, pertanto accorsero in mio aiuto. In poche parole, mi parlarono il culo.

    <> si presentò lei per prima, poi aggiunse <<…e lei è Elisa.>>

    <> che voce d’angelo.

    <> provò a metterlo a proprio agio Ludo <> intuendo a cosa si riferissero, Alessandro mi lanciò un’occhiatina complice, io quasi morì per la vergogna. Ma che diavolo?

    Comunque non ebbi il tempo di sgranare gli occhi e arrossire che lo vidi farmi l’occhiolino

    <> ribatte’ lui con tono compassionevole, della serie Ho capito, ma faccio finta di non capire. La risatina denigratoria di Elisa solleticò le mie orecchie. <> iniziò a dire, quando l’istinto mi consigliò di sganciarle un calcio allo stinco <>

    Brevi istanti di silenzio imbarazzante furono successivamente sostituiti da definizioni e autori, semiologi e qualche chicco d’uvetta, mia immancabile compagna di vita.

    Alla fine della sessione ripasso ci salutammo, decisamente più in confidenza di prima, promettendoci di rivederci di lì a una settimana per andare avanti con la tabella di marcia.

    <> bisbigliò Ludo al mio orecchio mentre Elisa mi fissava con le braccia incrociate <> disse poi quest’ultima.

    <> la incalzò Ludovica.

    <> misi in chiaro massacrandomi le dita per il nervoso.

    <>

    <> la informò la più pudica delle mie amiche con occhi sognanti.

    <> concluse indicandomi col dito.

    Alla fine quella strampalata conversazione si concluse con una pizza per cena e nessuno ne parlò più.

    Fu il lunedì della settimana successiva a dare una svolta ai miei sogni ad occhi celesti. Accettata la consapevolezza di essere, a dir poco, cotta e stracotta, trascinai il mio piccolo segreto con me senza dar a vedere nulla. Almeno ci provai.

    Quella mattina il suono della sveglia iniziò a martellarmi in testa senza darmi nemmeno il tempo di rendermi conto di che anno fosse. Un incubo.

    Alla fine, come ogni dannato lunedì, mi alzai come un robot e con gli occhi ancora chiusi iniziai a prepararmi. Quel lunedì avremmo dovuto trattenerci in università per continuare semiotica, pertanto il mio stomaco decise di non collaborare. Aspettavo quel momento da un’intera settimana e, nonostante vedessi Alessandro quasi ogni giorno, quel ritaglio di tempo dove ci incontravamo appositamente e non per l’obbligo delle lezioni, mi faceva sentire felice. Come se vivessi un perenne primo appuntamento. Patetico, me ne rendo conto.

    Quel giorno le cose iniziarono nel peggiore dei modi. Mi accorsi che il mio maledetto ciclo era tra noi e che con sé aveva portato il tipico brufolone sulla fronte. Fantastico.

    Applicai del correttore sul viso e misi del mascara, non ero una grande fan del make up, e a dirla tutta, nemmeno dell’estetista. Punzecchiare le sopracciglia con una pinzetta mi faceva un gran dolore e gli occhi iniziavano a lacrimare quindi optai per aggiustare la frangia in modo da nasconderle et voilà.

    A conti finiti uscì di casa in perfetto ritardo, con la nausea e l’ansia per l’imminente incontro. Vestita alla meno peggio. Avrei voluto somigliare a una di quelle biondone slanciate che si aggiravano per l’ateneo, vestite delle migliori griffe e con le gambe lunghe un chilometro, ma spendere tanti soldi per l’abbigliamento non mi era mai interessato molto, nonostante potessi permettermelo. Voglio dire, perché investire tanti soldi in qualcosa destinato a cambiare di anno in anno? La moda cambia e io stavo bene nei miei Levi’s. Quel giorno a parte.

    Nel pomeriggio, pallida come un cencio, raggiunsi l’aula studio dove avevamo concordato l’incontro. Ero in ritardo di dieci minuti e all’appello c’era solo lui. Ossignore.

    <> chiese subito, mettendo in chiaro quanto dovesse far pena il mio aspetto.

    <> sorrisi appena congratulandomi con me stessa per aver pronunciato una frase di senso compiuto senza le solite balbuzie.

    << Grande! Comunque ho incontrato Elisa, dice che oggi non riescono a passare e che non sono riuscite a scriverti perché non stanno funzionando i loro cellulari..>> subito capì che ero vittima di una delle loro trappole. Ma davvero? Il cellulare rotto? Di entrambe? Me l’avrebbero pagata, ma nel frattempo sorrisi.

    <> mi prese il panico e il brufolo sulla fronte inizio a pulsare sotto la pelle.

    <>

    <> e sorrisi, perché il sorriso mi aiutava a camuffare le faccine felici da scema che mi comparivano in viso, ma a quanto pare non le balbuzie.

    L’aula studio quel giorno era deserta, è possibile che il lunedì non sia il giorno preferito dagli studenti per rivedere gli appunti, ma d’altronde, persino la nobile causa che trattenne me non parlava di Saussure, ma di occhi azzurri, capelli d’oro e sorriso mozzafiato.

    Mezz’ora dopo la mia testa ci vedeva a pois, non avevo proprio voglia di stare lì a parlare di embrayage e oggetti di valore, pertanto palesai il tutto con un bello sbadiglio. Enorme. Rumoroso.

    <> oh cazzo.

    <> mi accorsi subito della gaffe fatta e sgranai gli occhi schiaffeggiandomi mentalmente <> che imbranata.

    <> mi fece l’occhiolino e mi sciolsi in brodo di giuggiole. Lo seguì. Potevo farcela.

    <> disse Mister gentilezza, con un tono di voce cosi vagamente porno che sbiancai. <> risposi con un sussurro. Di bene in meglio.

    Era come se i miei sensi riuscissero a percepire tutto, ogni briciola intorno a me venne potenziata al massimo. Riuscì a scandire perfettamente il suono delle monetine che piovevano giù, poi la bevanda cremosa che si adagiava sul fondo del bicchiere. Mi sentì una pazza, ma notai comunque tutte queste cose.

    Una volta presi i caffè andammo a sederci su delle sedie appena fuori l’aula studio. La situazione non fu tra

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