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Le origini del socialismo algerino
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Le origini del socialismo algerino
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Le origini del socialismo algerino

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Con la fine della Seconda Guerra Mondiale inizia il disfacimento degli imperi coloniali, destinati  ovunque a cadere sotto i colpi di lotte più o meno cruente. Nel 1962, dopo 132 anni di occupazione, anche l’Algeria conquista la propria indipendenza dalla Francia, dopo sette anni di lotta sanguinosa, riscrivendo la propria storia e inaugurando la stagione del socialismo.

In queste pagine si ripercorre l’ascesa del più radicale leader della rivoluzione algerina, Ahmed Ben Bella, e l’affermazione del suo governo; giorni “di entusiasmi, euforia, illusioni, fiducia nell’avvenire” cui l’autore, giovanissimo, prese parte in quanto corrispondente permanente inviato ad Algeri. 

Sono passati cinquant’anni, da allora, ma le valutazioni stilate al tempo dei fatti narrati, risultano efficaci e valide; Elio Rogati ci accompagna in un viaggio straordinario, facendoci partecipi di una svolta epocale, testimoni delle rocambolesche vicende di un Paese bellissimo, che non ha ancora trovato il suo equilibro ma che può dirsi orgoglioso dell’esempio che rappresenta per quelle nazioni che ancora cercano la via dell’indipendenza.
LanguageItaliano
Release dateDec 28, 2016
ISBN9788856781113
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    Le origini del socialismo algerino - Elio Rogati

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8111-3

    I edizione elettronica novembre 2016

    Introduzione

    Il primo luglio 1962 finiva dopo 132 anni la presenza coloniale francese in Algeria e il 3 luglio successivo veniva proclamata l’indipendenza.

    Finivano anche sette lunghi anni di guerra tra i rivoluzionari del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) da una parte e i francesi dall’altra.

    Trionfava la prima rivoluzione, quella per l’indipendenza, e cominciava la seconda, quella per l’edificazione del nuovo Stato.

    A dir la verità l’espressione presenza coloniale è in parte impropria in quanto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Algeria era diventata una terra di peuplement, dipartimento d’oltremare, ma terra di Francia a tutti gli effetti.

    I francesi d’Algeria erano chiamati pieds-noirs. Secondo la versione più accreditata era stato questo il soprannome che gli indigeni avevano dato, nel 1830, alle prime truppe di invasione che calzavano stivaletti neri, mentre gli algerini andavano scalzi o tutt’al più in sandali. L’espressione fu poi estesa ai coloni civili, ai quali si aggiunsero con il tempo anche spagnoli e italiani.

    Tutti insieme questi immigrati avevano trasformato l’Algeria da terra desolata in un Paese civile e organizzato: avevano costruito strade, ponti, ferrovie, banche, scuole, università, cinema, teatri, radio, televisione, giornali ecc. ecc.. Il Paese lo sentivano come loro: lì erano nati, lì erano sepolti i loro morti. Era la terra dei quasi due milioni di pieds-noirs che detenevano tutto il potere politico, economico, sociale, culturale, senza troppo preoccuparsi degli algerini che da sempre vivevano su quel territorio in posizione subordinata.

    Per questo, quando il primo novembre 1954 partì la rivolta di una élite di rivoluzionari raggruppati nel FLN, che reclamavano l’indipendenza, gli europei pensarono si trattasse solo di un pugno di criminali da eliminare con azioni di polizia. La parola indipendenza non faceva parte del loro vocabolario perché l’Algeria era francese e doveva restare francese. Nessun dubbio. Anche a Parigi la pensavano così.

    Ma il vento della storia soffia libero dove vuole. E non tiene conto dei sentimenti. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale erano crollati tutti gli imperi coloniali nel mondo. Toccava ora all’Algeria.

    La lotta è stata cruenta ed è durata sette anni. Gli algerini hanno utilizzato le tecniche della guerriglia e del terrorismo contro le quali nulla ha potuto fare l’esercito francese, abituato alla guerra classica. E negli ultimi due anni – quando era chiaro che il Governo di Parigi avrebbe concesso l’indipendenza – i pieds-noirs, raggruppati nell’OAS (Organisation de l’armée secrete) hanno combattuto da soli – perché lasciati soli e abbandonati da tutti - utilizzando le tecniche dei loro avversari: assassini mirati, bombe al plastico, tortura.

    Hanno torturato anche giovani ragazze, poi è stata la volta del direttore del quotidiano comunista Alger Republicain che, salvatosi malconcio, raccontò la sua triste esperienza in un libro La question, che suscitò in tutta Europa un’ondata di sdegno e condanna morale per l’OAS.

    I pieds-noirs hanno dovuto combattere anche contro lo stesso esercito francese che, dopo gli accordi di Evian del marzo 1962 che prevedevano l’indipendenza dell’Algeria, aveva smesso di dare la caccia ai rivoluzionari del FLN e se la prendeva con quelli dell’OAS.

    Brutta e ingenerosa sorte quella dei pieds-noirs: combattuti dagli algerini, rifiutati dalla Francia, sono stati costretti a fuggire nel giro di pochi mesi abbandonando in Algeria tutto quello che avevano costruito nei decenni, perfino le tombe dei loro morti. Navi e aerei in partenza per la Francia presi d’assalto. Lacrime, disperazione, suicidi. Una tragedia immane. Fu negato loro in Francia perfino il diritto all’accoglienza, eppure erano francesi che tornavano sulla loro terra da dove erano partiti tempo addietro i loro avi. Era crollato un mondo.

    La figura peggiore la fece l’esercito francese che sentiva ancora l’onta della sconfitta subita nel 1954 a Dien Bien Phu, in Vietnam, che era costata alla Francia l’abbandono definitivo di tutta l’Indocina. I militari francesi aspettavano l’occasione per rifarsi, per far vedere al mondo che erano ancora la grande armata che aveva costruito un impero. Per loro l’Algeria si presentò come l’occasione tanto attesa. Ma non fu così. In Algeria persero ancora. Nei loro manuali non c’era scritto che per battere il terrorismo ci volevano tecniche nuove e un diverso tipo di addestramento.

    Il 13 maggio 1958, di fronte ai tentennamenti e alla debolezza della quarta Repubblica francese, quattro generali, tra i quali il più decorato di Francia, Salan, organizzarono ad Algeri un putsch per portare al Governo di Parigi il generale Charles de Gaulle con la speranza che garantisse per sempre che l’Algeria sarebbe rimasta francese. Purtroppo per loro e per i due milioni di pieds-noirs, de Gaulle si accorse ben presto che l’obbiettivo non poteva essere realizzato e intavolò trattative prima segrete, poi ufficiali, con alcuni leaders del FLN da anni nelle prigioni francesi. L’accordo fu raggiunto a Evian nel marzo 1962: la Francia concedeva l’indipendenza ma in cambio conservava lo sfruttamento delle immense risorse petrolifere e di gas del Sahara e l’uso del poligono atomico di In Ekker dove de Gaulle stava costruendo la famosa force de frappe (poligono più tardi spostato nella Polinesia francese).

    Tra il marzo e il luglio 1962 circa un milione e ottocentomila pieds-noirs fuggirono dall’Algeria abbandonando tutto: case, terreni, auto, ville ecc., un esodo biblico. Gli algerini entravano nelle case abbandonate sfondando la porta e le facevano proprie con tutto quello che c’era dentro. Si appropriavano delle auto e di ogni altra cosa: bottino di guerra.

    Cominciava così l’avventura dell’Algeria indipendente. Ed è in quel momento che è nato il socialismo. La scelta ideologica era già scritta in diversi documenti del FLN. Del resto tutte le ex colonie che hanno lottato per l’indipendenza hanno fatto quella scelta (molto spesso a parole) appoggiandosi ai paesi socialisti, in contrapposizione ai dominatori capitalisti dell’occidente. In Algeria comunque solo la fuga dei coloni europei permise la nascita spontanea dell’autogestione in agricoltura. I fellahs (contadini) che erano rimasti senza padrone dovevano scegliere: o smettere di coltivare i campi e morire di fame, oppure organizzarsi e continuare il lavoro riunendosi in comitati di gestione. Certo mancava il know how del vecchio proprietario e molti errori furono commessi per ignoranza e imperizia. Ma ormai la scelta socialista era nei fatti, nata da una situazione di emergenza che a poco a poco toccò anche gli altri settori produttivi. Il primo Governo Ben Bella riconobbe e ufficializzò la scelta.

    Il Governo di Ahmed Ben Bella (uno dei sette leaders storici della rivoluzione e il più radicale, per cinque anni detenuto nelle carceri francesi) durò due anni circa, considerando anche il periodo in cui fu eletto Presidente della Repubblica. Ma il suo pugno di ferro e il palese tentativo di instaurare un potere personale gli costarono l’inimicizia degli altri capi algerini. Ben Bella fu deposto e arrestato nel giugno 1965 con un colpo di Stato organizzato dal suo Ministro della Difesa, il generale Houari Boumedienne che era stato il capo dell’esercito algerino che durante la rivoluzione era rimasto vigile oltre le frontiere della Tunisia e del Marocco. Ben Bella fu trasferito in una località segreta del deserto, liberato ed esiliato solo nel 1980. Cercò qualche anno dopo di tornare alla vita politica ma senza successo. L’11 aprile 2012 si ebbe notizia della sua morte: una vita spesa in carcere, prima dei francesi, poi dei suoi connazionali, infine in esilio.

    L’opzione socialista è continuata anche se in forme un po’ diverse per alcuni anni; poi si sono imposte scelte miste o solo capitaliste.

    I capitoli che seguono si riferiscono al periodo del primo Governo Ben Bella e raccolgono valutazioni e riflessioni da me scritte al termine del mio mandato di giovanissimo corrispondente permanente della stampa inviato ad Algeri, unico giornalista italiano in pianta stabile per due anni e mezzo.

    È stata quella un’esperienza professionale e umana molto interessante, anche se pericolosa. Nella guerra civile esplosa tra algerini nell’estate 1962 dopo l’indipendenza sono spariti duemila europei. Vendette personali. E la stampa europea non era guardata con simpatia.

    Avevo affittato per caso un appartamentino in un palazzo della rue Desfontaines che solo successivamente si scoprì essere stato il rifugio segreto del capo dell’OAS, generale Salan, prima della cattura e la condanna a morte da parte di un tribunale francese (condanna commutata nel carcere a vita da De Gaulle che aveva meno decorazioni di Salan). I muri e i tramezzi trasudavano armi e plastico. Sconosciuti sono entrati più volte nel mio appartamento mettendolo a soqquadro, senza rubare nulla. La mia auto è stata danneggiata e l’insegna Presse strappata.

    Ero a due metri dal giovanissimo Ministro degli esteri algerino, Mohamed Khemisti, quando fu assassinato poco fuori della hall del Parlamento di Algeri. I colpi di pistola mi sono passati vicini. Prima di essere ucciso, l’ultima intervista ad un giornalista straniero Khemisti la concesse a me e pubblicata su Il Messaggero di Roma (riguardava i rapporti tra la nuova Algeria e il Mercato comune europeo). E raccolsi anche una delle prime interviste del successore, anche lui giovanissimo: Abdelaziz Bouteflika (Presidente della Repubblica nel momento in cui scrivo).

    Ho lasciato intatte le valutazioni di fondo di allora non solo perché le ritengo ancora valide ma anche per restituire al lettore, a così tanti anni di distanza, l’atmosfera che si respirava in quei giorni, fatta di entusiasmi, euforia, illusioni, fiducia nell’avvenire.

    Le cose purtroppo non sono andate sempre bene. Alle elezioni generali del 1989 vinsero gli estremisti islamici del FIS (Fronte islamico di salvezza). Ma anche in quella occasione intervenne l’esercito ad annullare le votazioni. Sono seguiti dieci anni di massacri feroci compiuti dagli estremisti musulmani entrati in clandestinità e dai militari a caccia dei primi.

    L’Algeria, che dall’inizio del terzo millennio gode di relativa tranquillità, è un Paese bellissimo: dal fascino del Sahara con le sue oasi – prime fra tutte Gardaia e Ouargla – fino giù a Tamanrasset (dove fu trucidato il Pere de Foucault), all’Hoggar con le sue antichissime incisioni rupestri, al Tassili N’Ajjer con le caverne piene di dipinti che rappresentano animali che vivono solo in zone ricche di acqua: una prova, secondo i geologi, che il Sahara un tempo era un grande mare.

    E poi le montagne della Cabilia romana con i suoi abitanti berberi – razza diversa dagli arabi –che si dice siano gli eredi degli antichi conquistatori latini. Le pianure dell’Algerois e dell’Oranese, le spiagge bianchissime e le rocce a strapiombo sul mare. Un Paese ricco di petrolio e di gas, non completamente stabile all’interno, che guarda con preoccupazione alle gesta del Califfato, nel timore di subirne i contraccolpi.

    Elio Rogati

    Novembre 2016

    Capitolo I

    Dal Programma di Tripoli alla Carta di Algeri

    Per molti anni l’Algeria è stata al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e ha fatto battere milioni di cuori con pulsazioni violente ed opposte. Sembra una terra fatta apposta per suscitare i sentimenti più vivaci, siano quelli dei coloni europei che hanno difeso a denti stretti il loro paradiso perduto, siano quelli degli Algerini che non hanno indietreggiato di fronte al prezzo sempre più alto che era loro imposto per raggiungere l’indipendenza, siano quelli di milioni di esseri che in ogni parte del mondo hanno visto nel dramma algerino il coronamento dei loro sogni o la concretizzazione dei loro timori. Gli oppressi hanno gioito, come fosse la loro, di ogni vittoria della rivoluzione algerina; gli oppressori, al contrario, l’hanno risentita come una comune sconfitta.

    La lotta del ‘Fronte di Liberazione Nazionale’ algerino può essere considerata come il prototipo della lotta per la libertà nel secondo dopoguerra caratterizzato, tra l’altro, dalla fine degli imperi coloniali. I Cinesi di Mao, quando volevano portare un esempio del loro ideale di guerra all’imperialismo, citavano il caso dell’Algeria. E non a torto, se si pensa che la terra che fu già di Giugurta e Massinissa è stata la sola, tra tutte le ex colonie del nostro secolo, a pagare come prezzo della libertà un milione e mezzo di vittime, due milioni di persone chiuse nei campi di raggruppamento, mezzo milione di vedove di guerra, trecentomila orfani di cui trentamila completi e migliaia di ettari di terre bruciati al napalm.

    L’Algeria è diventata indipendente il 1 luglio 1962 (ma la festa nazionale è il 3). Per l’umanità è finito un incubo. Al passato gli Algerini guardano soltanto per trarre insegnamento, non motivi di vendetta, e per additarlo agli altri ‘dannati della terra’, di cui parlava Frantz Fanon, affinché ne seguano l’esempio e scuotano gli ultimi gioghi coloniali.

    Anche dopo l’indipendenza, l’Algeria ha continuato ad interessare il mondo. A nostro avviso l’interesse è anche maggiore. I paesi neo-indipendenti che, per larga parte, non hanno saputo risolvere i loro problemi per mancanza forse di coraggio, forse di uomini audaci, hanno guardato più volte all’esperienza socialista algerina come ad un modello da imitare o respingere a seconda dei frutti che essa avrebbe dato. La cooperazione franco-algerina, d’altro canto, forniva l’esempio di una coesistenza non solo pacifica ma amichevole tra un paese rivoluzionario ed uno capitalista. L’Algeria si trovava pertanto in una posizione favorevole per svolgere il ruolo di tratto d’unione tra il mondo nuovo nato dalle rovine degli imperi coloniali e quello detto occidentale e per favorire il riavvicinamento tra gli stati rivoluzionari e quelli borghesi. La costruzione del socialismo algerino apportava forze ed idee nuove al movimento socialista mondiale. Infine la politica decisamente anticolonialista di Algeri sia in Africa sia, così si sperava, nell’America Latina, faceva presagire un acceleramento della fine dell’epoca della decolonizzazione.

    Il prestigio di cui ha goduto l’Algeria post-indipendenza e l’interesse da essa suscitato sono considerevoli. Il presente libro vuol essere un modesto contributo ad una migliore comprensione della nuova Algeria e costituisce allo stesso tempo una testimonianza della quotidiana esperienza da noi fatta – come giornalista inviato ad Algeri come corrispondente permanente — nel periodo più difficile ed incerto: quello della ricerca della via da seguire, della nascita del regime socialista e delle sue prime realizzazioni. Tale periodo va cronologicamente dal 3 luglio ’62, giorno dell’indipendenza, al 21 aprile ’64, giorno di chiusura del primo congresso di pace del FLN; ideologicamente dal Programma di Tripoli alla Carta di Algeri; concretamente dal settembre ’62 al settembre ’63. È infatti ai dodici mesi da ultimo indicati, che coincidono con la vita del primo Governo Ben Bella, che abbiamo prestato più particolarmente la nostra attenzione. Non ci siamo interessati, se non con pochi riferimenti imposti dalla chiarezza dell’esposizione, della cosiddetta crisi dell’estate del 1962, perché a nostro avviso quella crisi è stata come lo scoppio del bubbone che da molto tempo maturava in seno alla rivoluzione algerina. In questo senso essa appartiene più al periodo della lotta che a quello della nuova Algeria. I difficili problemi sollevati dalla riconversione del FLN da movimento di guerra in movimento di pace, cioè in partito politico, dell’ALN (Armé de Liberation Nationale) e delle ‘wilayas’ (distretti militari) in un esercito regolare e moderno fondato sulla disciplina di caserma; il libero gioco degli ‘appetiti’ inevitabile al momento della ‘raccolta’ dei frutti; il contrasto delle personalità, sono stati gli elementi-base di quella torrida estate algerina in cui il popolo dava prova di maggior saggezza dei capi sfilando per le strade al grido, non di ‘viva questo’ o ‘viva quello’, ma di: ‘vogliamo un governo’, ‘sette anni di sangue sono sufficienti’, ‘no alla guerra civile’, ‘un solo eroe: il popolo’, ‘l’Algeria ha bisogno di tutte le buone volontà, nessuna esclusa’, ‘con l’unità abbiamo vinto il colonialismo, uniti costruiremo il nuovo Stato’, ‘viva la mistica dell’unità’, ecc.

    Abbiamo anche prestato un’attenzione relativa agli avvenimenti successivi al settembre ’63 perché essi, sia la crisi della Cabilia che gli scontri di confine con il Marocco, costituiscono l’epilogo di una situazione nata anteriormente all’elezione di Ben Bella alla presidenza della repubblica.

    Il periodo del primo Governo Ben Bella, che va dal 26 settembre 1962 al 15 settembre 1963, è a nostro avviso quello più interessante perché in esso l’Algeria, tra successi, errori ed esitazioni, ha finalmente trovato la sua via. Un periodo, come dicevamo all’inizio, incerto sia sul piano dell’azione che su quello ideologico, che ha visto la nascita del regime socialista, il varo della costituzione, la fine del provvisorio. L’esperienza compiuta sotto il primo Governo Ben Bella è stata decisiva per la scelta definitiva del sistema e dell’ideologia, di cui fa fede la ‘Carta di Algeri’ approvata nel corso del primo congresso di pace del ‘Fronte di Liberazione Nazionale’. Con questo congresso la maggior parte dei problemi è stata chiarita, almeno sul piano teorico; la situazione è pertanto divenuta, sotto certi aspetti, più semplice e naturale. Ma come e perché è nato il nuovo sistema lo si può capire solo analizzando i dodici mesi del primo Governo algerino.

    Non è stato facile mettere ordine in un periodo fluido per presentare al lettore un quadro il più fedele possibile della situazione. Le lacune erano inevitabili.

    Per molti mesi l’Algeria libera ha svolto per alcuni osservatori politici e migliaia di persone il ruolo di un cavallo da corsa sul quale si sono fatte le scommesse e che troppo spesso è stato dato perdente. Quel cavallo ha però dimostrato di essere di buona razza, di saper fare la sua corsa e di saper giungere al traguardo. Lo scetticismo è diventato interesse e in alcuni casi ammirazione. Si sa che quando un puledro vince, il merito non è tutto suo, ma va in buona parte all’allevatore e al fantino che hanno saputo allenare la bestia e sfruttare al massimo le sue risorse. Nel caso degli Algerini, i quali ci perdoneranno questo paragone non troppo ortodosso, allevatore e fantino si identificano, tra gli altri, con Ahmed Ben Bella, al quale va il merito di aver cercato di interpretare le aspirazioni della maggior parte del suo popolo e di aver guidato quest’ultimo su una via suscettibile di risolvere i più urgenti problemi.

    In Tunisia si parlava di Bourghibismo; in Algeria si potrebbe parlare di Benbellismo, per lo meno per i primi sedici mesi successivi all’indipendenza. Se l’Algeria si è a poco a poco ‘benbellizzata’ è perché tra i suoi abitanti non esisteva un solo Ben Bella, ma ne esistevano per lo meno otto milioni, cioè l’ottanta per cento dell’intera popolazione (il Presidente algerino ha citato in qualche occasione la cifra di 12 milioni di abitanti, ma secondo i calcoli più recenti alla fine del 1963 esistevano nel paese poco più di l0 milioni di anime), che pensava allo stesso modo del suo capo e che avrebbe agito nella sostanza come lui. Quell’ottanta per cento costituisce la massa dei fellahs algerini, dei contadini, i quali hanno sopportato il peso maggiore della guerra dimostrando, come scriveva Frantz Fanon, che ‘solo la classe contadina è rivoluzionaria’ perché essa ‘non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare’ e perché essa scopre prima degli altri ‘che solo la violenza può dare certi risultati’ e può vincere il colonialismo il quale ‘non è una macchina per pensare o un corpo dotato di ragione, ma la violenza allo stato naturale e non può quindi inchinarsi che di fronte ad una più grande violenza’.

    Era naturale che i fellahs algerini, che avevano sopportato il peso maggiore della lotta di liberazione, raccogliessero anche i frutti maggiori dopo l’indipendenza.

    Il socialismo di Ben Bella costituisce l’atto di risveglio alla vita e alla dignità dei contadini, per i quali il cambiamento è stato radicale. Al tempo dei coloni i fellahs erano considerati poco più che macchine semoventi e si sentivano ripetere che la virtù migliore era quella di lavorare e obbedire senza pensare. Dopo l’indipendenza essi si son visti affidare addirittura la responsabilità della gestione; da oggetto sono diventati soggetto.

    Il socialismo di Ben Bella è nato, ha fatto le prime prove, ha riportato i primi successi nei campi. Dopo, è stato esteso alle altre attività economiche ed ha investito un po’ tutti gli aspetti della vita nazionale. Ma anche qui l’autogestione, che costituisce l’essenza stessa del regime socialista algerino, non è stata inventata dal capo. Sono stati i contadini che l’hanno creata allorché, partiti i coloni europei nella primavera e nell’estate del 1962, decisero di mettere in comune le proprie forze per assicurare la continuità delle colture e dei raccolti.

    Il Governo di Algeri non ha fatto altro che legalizzare una situazione di fatto preesistente e dare ad essa un’organizzazione politica e ideologica.

    Così, quasi inconsapevolmente, quasi come rimedio urgente ad una situazione di emergenza, è nata l’autogestione algerina che significa, in parole povere, gestione dell’unità economica da parte dei lavoratori stessi.

    Coloro che criticavano il sistema algerino non tenevano conto del fatto che l’unica via lasciata ai fellahs dopo la partenza del padrone europeo, era quella di rilevarne le funzioni per assicurare la continuità della produzione. Cos’altro avrebbero dovuto fare? Incrociare le braccia in attesa di un improbabile ritorno del ‘colono’, e gettare così il paese in una crisi economica ancora più grave? Oppure garantire con il sudore della fronte le colture e i raccolti per farne beneficiare l’antico proprietario scappato dall’altra parte del Mediterraneo?

    Se i fellahs hanno scelto

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