Il fiume
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Book preview
Il fiume - Danilo Bottiroli
Danilo Bottiroli
IL FIUME
Romanzo
GDS
Danilo Bottiroli
Il fiume
Immagine copertina Rondini
di Carlo Bottiroli
Editrice GDS
Via Pozzo 34
20069 Vaprio d’adda-Mi
www.gdsedizioni.it
Ogni riferimento a cose, luoghi, persone a nomi e altro è da ritenersi del tutto casuale.
Per alcuni contenuti questo romanzo è consigliato ad un pubblico adulto.
Introduzione
Il fiume
racconta la storia di una famiglia costretta, negli Anni Settanta, a lasciare la casa nell’Appennino, a seguito di un’alluvione, per trasferirsi in città.
Qui la famiglia Fasulo vive nuove storie, dettate dal bisogno e dagli stimoli di un ambiente ben diverso da quello della montagna.
Tutti i personaggi mutano, mutati da un altro fiume: quello delle esperienze nella società dei consumi.
Sembra che il loro vivere e le loro metamorfosi siano dettate da un destino già scritto, lo stesso che li ha allontanati dall’Appennino; sembra che la Natura abbia anima e volontà e che decida ineluttabilmente per loro, come un presagio di morte che addirittura si manifesta in una visione infantile di Michelino, l’ultimo dei Fasulo.
Non si sa se sia davvero questa la verità o se più semplicemente il fiume, come la Natura tutta, percorra il proprio cammino indifferente alle tragedie degli uomini.
Per alcuni contenuti la lettura di questo romanzo non è adatta ai minori.
Tutti i personaggi, i luoghi e i fatti raccontati sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autore: ogni eventuale riferimento alla realtà è puramente casuale.
Dedico questo libro alle persone che ho perduto.
Dedico questo libro alle persone che si sono perse.
L’autore
I
La casa aveva i muri con le pietre a vista e stava giù a valle, così in basso che alle quattro del pomeriggio era già buio: il Sole illuminava solo i borghi appesi più in alto lungo le pendici o sulla vetta del monte.
In quasi tutte le stagioni si accendeva la stufa a legna appena rabbuiava, a volte persino d'estate, se non per scaldarsi per togliere l'umidità.
La casa stava lì, a valle, perché c'era il torrente a pochi metri, ma la luce scarsa e i vapori del rio impregnavano tutto rendendo appiccicosi abiti e lenzuola, tingendo i muri di muffa, inacidendo il vino.
A poco serviva il rito quotidiano di mamma Alfonsina che spalancava le finestre nelle ore più calde per spazzare via l'umidità e non di rado capitava che una folata di vento, di quello indiscreto che corre nelle gole e nelle conche dell'Appennino, facesse sbattere tutto spaccando i vetri.
Allora papà Dino, quando tornava dai boschi o dai pascoli, bestemmiava, tirava fuori il mastice e montava un effimero vetro nuovo.
D'inverno, se la notte si lasciava spegnere la stufa perché intanto i giacigli si scaldavano con il prete, l'umido si solidificava in cristalli che brillavano alla luce fioca di un abat-jour o di un lampione lontano sulla strada che portava via da lì. Michelino si svegliava spesso in quelle notti, un po' per il freddo che pungeva nonostante le coperte di lana tessuta fitta, un po' perché gli piaceva ammirare i muri che brillavano inventando forme come in un caleidoscopio.
La casa era grande.
Aveva un'enorme sala dove si mangiava tutti insieme accanto alla stufa economica che esalava vapori di cibo antico e buono; c'era il primo televisore in bianco nero degli anni Settanta, ma restava spento durante i pasti e si accendeva solo dopo cena, quando non si giocava a carte, ma si vedeva solo il Primo canale e neanche sempre, a volte spariva l'immagine o, come per una beffa, quando si vedeva bene se ne andava via l'audio e Dino cristava e lo spegneva; il bagno era stato aggiunto da poco, lui e zio Mario l'avevano costruito ricavando due tramezze in un ampio corridoio che collegava la sala ad un'altra stanza, ma Dino non si era mai abituato ad usarlo e continuava imperterrito ad utilizzare la latrina giù nel campo, ci scendeva puntualmente la sera e la mattina, il rotolo di carta sotto il braccio o semplicemente un giornale vecchio e tutto finiva nella fossa biologica e il vento portava via gli odori in altre direzioni, perché apposta l'avevano messa lì, la latrina; la stanza oltre il corridoio non era riscaldata e veniva utilizzata come dispensa: sul tavolo al centro, negli scaffali e appese al soffitto erano conservate cibarie di ogni tipo, dai barattoli con verdure sottolio o sottaceto ai formaggi, ai salumi, le taniche di olio e le damigiane di vino brusco, persino il pane che si faceva una volta alla settimana nel forno appena fuori da casa e lo facevano anche per quelli di qualche paese vicino che lo pagavano poche lire. Le camere da letto erano al piano superiore: c'era quella di Dino e Alfonsina con il letto grande in ferro battuto e il materasso di lana, due comodini ai lati che facevano pendant con la cassettiera e l'armadio a quattro ante, di legno pregiato, forse noce, decorati e con i pomelli d'ottone; sopra i comodini erano appese le stampe di San Giovanni e di San Pietro, al centro della parete l'effigie grande della Madonna; un'altra camera da letto era per i nonni, Anselmo e Maria, mentre nella stanza più piccola, con i letti a castello, dormivano i figli: Michelino, appunto, che era il più giovane e aveva sette anni, Valeria ormai quattordicenne e Alfonso, il primogenito, quello che contava maggiormente nella forza dei suoi vent'anni.
Avrebbe voluto più figli, Dino, soprattutto maschi, ché nei campi servivano sempre, ma quelli gli aveva dato la natura; ad Alfonsina sembrarono giusti e li amava ognuno a modo proprio: Michelino perché era il più piccolo e il più viziato, Valeria perché era quella che le stava accanto, nelle faccende domestiche ma anche solo per complicità femminile, Alfonso perché era un gran lavoratore ed aveva un carattere forte, temprato e affiancava Dino nella conduzione degli affari familiari, sempre con il dovuto rispetto che si doveva al padre.
Anselmo e Maria erano ormai molto anziani, ma lui non mancava di rimarcare spesso la sua posizione di capostipite e Dino e Alfonso lo lasciavano fare, tanto poi decidevano loro; lei, invece, era mite e, nonostante qualche screzio inevitabile occorso in passato con la nuora, era diventata quasi la seconda mamma di Alfonsina e, per quel che riusciva, dava ancora una grande mano in casa, soprattutto in cucina.
Una volta, a cena, nonno Anselmo partì con uno dei suoi discorsi che, dopo, avrebbero tutti commentato con un Eh, ormai è vecchio
e disse che dovevano andarsene da lì, che c'era qualcosa che non funzionava, che dovevano cambiare casa.
E cos'è che non va?
gli aveva chiesto Dino.
Non lo so, ma c'è qualcosa che non va
aveva risposto lui.
Finì lì, quella volta e le altre nelle quali il nonno insistette su questa idea di andarsene.
Accanto alla casa c'erano il fienile e la legnaia; sotto, una piccola stalla per custodire le tre vacche da latte e fuori nell'aia razzolavano galline e altri pennuti buoni da fare le uova e, poi, al momento giusto, il brodo o l'arrosto.
Nella porcilaia c'era solo un maiale ed ogni anno, dopo Natale, era un maiale nuovo e il vecchio si trasferiva nella dispensa.
Dietro la casa un ampio campo procedeva in discesa fino al torrente e a monte ci avevano fatto l'orto, c'era qualche filare di uva bianca e il resto era lasciato ad erba per fare il fieno.
Avevano poi qualche pascolo verso la vetta dove in estate tenevano le Scottone per conto di un amico allevatore che li ripagava in carne e pochi denari; alcuni boschi di faggio e rovere che il nonno aveva ereditato erano destinati a legna da ardere o per la falegnameria che Dino si era fatto in un piccolo locale accanto alla stalla, vuoi per arredare la propria casa, vuoi per arrotondare vendendo qualcosa ai pochi turisti che passavano, perché era bravo a lavorare il legno e si era sparsa la voce.
Si può dire che avessero tutto, almeno per sopravvivere, perché i soldi, comunque, non erano mai molti e servivano per lo più per comprare qualche vestito e le scarpe o da mettere via in dote per Valeria che cresceva ogni giorno di più e non si poteva fare a meno di notare quanto stesse diventando bella e desiderabile.
Alfonsina si era accorta che la domenica alla messa certi ragazzi del paese guardavano sua figlia con occhi eloquenti e un giorno si era permessa di chiederglielo: C'è qualcuno che ti piace?
No, mamma
aveva risposto Valeria con candida semplicità e lei ci aveva creduto.
Dino, invece, più di una volta aveva preso per il braccio qualche ragazzetto e stringendo forte con la sua mano che sembrava un badile, si era limitato a pronunciare un Lascia perdere
, ma sapeva che non sarebbe durata e si rassegnò alla speranza che, quel giorno, sarebbe stato un ragazzo a posto, magari anche benestante, di certo un lavoratore, perché essere lavoratori, come lui, era una garanzia.
A Valeria piaceva il figlio del sindaco, un biondino con il ciuffo che studiava fuori, faceva le Superiori in un paese a cinquanta chilometri: si alzava la mattina alle sei per prendere la corriera e al pomeriggio tornava dopo le tre, a volte soltanto a cena.
Lo vedeva di rado per il paese, giusto appunto la domenica a messa o all'oratorio quelle poche volte che il prete faceva andare i ragazzi per aiutarlo o solo per giocare e parlare.
Forse avrebbe potuto incontrarlo di sera o il sabato e la domenica pomeriggio all'osteria, ma lei non poteva andarci da sola, all'osteria e quando suo padre ci andava per una partita a carte, si portava Alfonso o, ma solo qualche volta, nonno Anselmo; per lo più ci andava da solo.
Una volta Valeria, sperando di incontrare il figlio del sindaco, chiese a suo padre di portarla con lui all'osteria.
Non è posto per te
aveva risposto Dino in modo definitivo e non solo per quella volta.
Alfonso andava di rado a giocare a carte con gli altri del paese, non era interessato e lo faceva soltanto perché doveva farlo, perché tutti gli uomini del posto lo facevano, ma più che giocare si tratteneva a chiacchierare di lavoro con i più schivi e con i ragazzi della sua età che non erano andati a scuola.
Nonno Anselmo, invece, ci sarebbe andato tutti i giorni, ma Dino lo portava raramente perché, lo sapeva, faceva un gran casino con le carte e volavano bestemmie che sembrava la fine del mondo quando cacciava un tre invece che l'asso, ma ce lo portava per farlo sentire ancora importante, per essere a posto con la sua coscienza quando sarebbe arrivato quel giorno.
Michelino viveva nella spensieratezza dei suoi sette anni ed era felice: il mondo attorno era tutto una scoperta e potevi inventare qualsiasi gioco e qualsiasi avventura.
Alla mattina andava alla scuola elementare, a piedi lungo i campi distava solo un paio di chilometri e c'era il maestro Luigi che era bravo, anche se era un po' severo se uno non stava attento o non faceva i compiti. Erano pochi in classe: oltre a lui c'erano Giacomo e Antonio, i suoi migliori amici, e le femmine, chi se ne importava, Alessia, Barbara, Michela e Maria Giulia.
Era l'Ottobre del 1976: lui e Antonio avevano iniziato la seconda, Giacomo faceva già quarta come Barbara; Alessia e Michela erano in terza e Maria Giulia faceva la quinta e avrebbe fatto l'esame quell'anno. Così il maestro doveva dividersi per far fare ad ognuno di loro il programma della classe, ma erano così pochi e lui così bravo che non era un problema e tutti andavano bene; anche Giacomo, che era quello che faceva un po' più fatica e non era di certo un bambino tranquillo, portava a casa la sufficienza piena oltre a qualche tirata d'orecchio ogni tanto.
Michelino lo adorava, forse perché era appena