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Il ciclo degli 11
Il ciclo degli 11
Il ciclo degli 11
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Il ciclo degli 11

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About this ebook

Mark, chirurgo e insegnante negli Stati Uniti con la passione per lo studio dell’anatomia e della fisionomia umana, viene contattato da un avvocato di Roma che gli affida un compito di grande rilievo per la storia della Chiesa: attribuire un volto, il più corrispondente possibile alla realtà, a un santo vissuto più di mille anni fa, partendo da alcune radiografie fatte alle spoglie.

Giunto in Italia entusiasta per una sfida che si preannuncia complessa e stimolante, viene subito coinvolto in misteriosi eventi: omicidi efferati, che sembrano seguire lo schema dei martirii subiti dagli Apostoli di Gesù, avvengono in diverse città d’Europa nell’arco di pochi giorni; una delle vittime è la persona che gli aveva affidato l’incarico, che si scopre essere non un avvocato ma un monaco appartenente a un ordine segreto; il computer di Mark, contenente il materiale su cui lavorare, viene rubato…

Aiutando il Commissario Capassi per identificare una delle vittime, brutalmente martoriata, Mark si confronta anche con due esperte in materia storico-religiosa.

Intanto il titolare di una grossa ditta farmaceutica lavora a una sperimentazione alquanto singolare e pericolosa…

Misteri, profezie, indagini. Viaggi, analisi, emozioni. Questo e molto altro ci regala Il ciclo degli 11, una coinvolgente avventura che ci conduce nelle più antiche e suggestive abbazie d’Europa, in un viaggio affascinante, dalle tinte mistiche e torbide al tempo stesso.

 Il morto fu rinvenuto, dagli addetti alle pulizie dell’albergo, poco prima delle ore undici.

Era in ginocchio, ai piedi del letto, con le spalle appoggiate contro la sponda; il capo era reclinato in avanti, con le braccia distese lungo il tronco e le mani, congiunte, avevano le dita incrociate. Guardando il cadavere distrattamente poteva sembrare una persona raccolta in preghiera, in ginocchio su un tappeto.
LanguageItaliano
Release dateNov 15, 2016
ISBN9788867932764
Il ciclo degli 11

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    Il ciclo degli 11 - Alberto Boni

    @micheleponte

    Alberto Boni

    IL CICLO DEGLI

    11

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    A chi è passato…

    e tanto ha lasciato…

    PROLOGO

    Il piccolo aereo da turismo atterrò nella radura, ai limiti dell’intricata foresta equatoriale, sfiorando col carrello la cima di alcuni alberi che la delimitavano. Poco dopo essersi fermato sul bordo pista, appena la nuvola di polvere che aveva sollevato si fu dileguata, si aprì il portellone e una mezza dozzina di persone incominciarono immediatamente a scaricare un considerevole numero di zaini e contenitori metallici.

    Quello che sembrava essere la persona che dirigeva le operazioni si fermò a parlare alcuni minuti col pilota, poi, con tutti i suoi uomini, si allontanò dirigendosi dentro l’intricatissima vegetazione. Proseguirono, facendosi strada a colpi di machete, per diverse ore, finché arrivarono in una zona in cui gli alberi si diradavano, per lasciare spazio al letto di un fiume, le cui acque, limacciose, scorrevano lentamente.

    Si fermarono e cominciarono subito a preparare un campo base.

    Al ritorno, probabilmente non avremo bisogno di fermarci a dormire qui, ma se ciò dovesse accadere, sarà già tutto pronto. Non è consigliabile farsi trovare impreparati in queste foreste pluviali, soprattutto di notte disse il capospedizione, rivolgendosi agli uomini che aveva attorno.

    Dopo circa un’ora, il piccolo accampamento era allestito. Gli uomini si spostarono, trasportando un grosso contenitore, sulla riva del fiume. Appena aprirono il coperchio, un gommone iniziò automaticamente a prendere forma. Pochi minuti dopo, spinti dal piccolo motore fuoribordo, risalivano il corso del fiume.

    Tenete le mani fuori dall’acqua! Non avete idea da quante e quali specie di animali sia popolato questo fiume e soprattutto della facilità con cui possono essere in grado, in una frazione di secondo, di tiravi in acqua e fare di voi il loro pasto disse l’uomo al comando, con quel tono e quell’espressione che sarebbero riusciti a infastidire, anche se avesse letto il bollettino meteorologico. Navigarono per diverse ore, fino a quando l’alveo del fiume non si restrinse e in lontananza, accompagnata da un forte fragore, non videro la sagoma di una cascata.

    Accostarono sulla riva sinistra, tirarono il gommone in secca e lo nascosero sotto la fitta vegetazione. Delle pesanti nubi grigie, talmente basse che sembravano quasi sfiorare la cima degli alberi, in pochi minuti, sospinte dal forte vento in quota, coprirono completamente il cielo e un temporale equatoriale, di lì a poco, si scatenò, con tutta la sua potenza.

    Enormi gocce cadevano fittissime da ogni direzione, per creare poi, a terra, una miriade di piccoli rivoli d’acqua che, seguendo la pendenza del terreno, scorrevano velocemente confluendo gli uni negli altri. Piccoli ruscelli si materializzavano, qua e là, nel volgere di pochi istanti.

    Via, via! Venite via da sotto quegli alberi. Può essere molto pericoloso. Se proprio volete riparavi un po’, mettetevi sotto quegli arbusti disse il comandante, indicando un gruppo di piante rampicanti che, aggrappate all’intricata vegetazione, formavano una specie di pergolato.

    I lampi si susseguivano in rapida successione, rischiarando i volti ammutoliti dei componenti la spedizione. A un tratto, un bagliore accecante, seguito da un fragoroso boato, si sovrappose al rumore della pioggia e poco più in là, colpito da un fulmine, un gigantesco albero, come un ramoscello, si spezzò in due parti. Dopo una ventina di minuti, l’intensità del vento cominciò a calare e il colore delle nubi cambiò bruscamente.

    Di lì a poco, la pioggia cessò di cadere e gli uomini ripresero il cammino.

    Proseguirono, nuovamente a piedi, per almeno un’altra ora. Gli scarponcini, affondando nel terreno impregnato d’acqua, rendevano la marcia più difficoltosa di quanto già non fosse. Aggiungendo a questo la forte sudorazione, causata dall’altissimo tasso di umidità, si raggiungevano delle condizioni veramente insopportabili. A un tratto, il capo della spedizione si fermò e si passò un fazzoletto, ormai saturo di sudore, sulla fronte e sulla nuca. Si guardò attentamente attorno e, dopo aver preso da una delle tasche del gilet il GPS, controllò la loro posizione.

    E’ ora di prendere fuori le armi; siamo ormai in prossimità dell’obiettivo. Se le cose sono andate come sarebbero dovute andare, non dovremmo averne bisogno, ma è meglio non rischiare disse aprendo una delle cerniere sul fianco del grosso zaino che portava sulle spalle. Estrasse una piccola mitragliatrice automatica e, dopo averne controllato il caricatore, tirò il carrello.

    Tutti gli altri componenti della spedizione ripeterono la stessa operazione.

    Continuarono ancora a marciare per circa mezz’ora. All’improvviso, mentre percorrevano un tratto in discesa, una piccola radura, rubata da abili mani alla forza della natura, si presentò loro davanti. La piccola area era occupata da numerose capanne con il tetto di paglia e fango.

    Il capospedizione si fermò, si tolse lo zaino dalle spalle e lo appoggiò a terra.

    -Nessuna traccia di fumo- pensò, dopo aver lanciato una prima rapida occhiata.

    Con un potente binocolo cominciò a perlustrare accuratamente tutta la zona.

    Ci siamo! Quello è il villaggio degli indios Jivaros. Indossate le tute protettive e calzate perfettamente le maschere sul viso. Qui si fa sul serio. Se qualcuno rimane contaminato viene lasciato a crepare qua! Preparatevi, ciò che state per vedere non sarà uno spettacolo edificante!

    Tirarono fuori gli indumenti protettivi e cominciarono a indossarli.

    Una volta completata l’operazione, dopo aver lasciato gli zaini saldamente appesi ad alcuni rami, si incamminarono, armi in pugno, verso le capanne. La mezza dozzina di uomini, completamente protetti dentro le tute gialle, arrivò in prossimità della radura.

    Il loro abbigliamento stonava enormemente con l’aspetto incontaminato del luogo.

    Il villaggio aveva tutte le caratteristiche di un luogo abbandonato: non si udiva alcuna voce, nessun rumore e nemmeno un filo di fumo si levava dalle capanne.

    Solo il latrato di qualche cane, di tanto in tanto, interrompeva quel silenzio.

    Sparsi qua e là, numerosi cadaveri, con l’addome disteso dai gas della decomposizione, lasciavano intuire quali fossero i risultati della contaminazione di quella comunità di indigeni, da parte di un virus appositamente mutato in laboratorio.

    Il contagio era avvenuto quattro settimane prima, mediante l’inoculazione del virus a cinque componenti della tribù.

    Gli uomini, precedentemente istruiti su come avrebbero dovuto comportarsi, si muovevano con grande coordinazione e perizia. Si divisero in tre gruppi di due persone e, sistematicamente, ispezionarono tutte le abitazioni, contando il numero dei cadaveri. Lo scenario si ripeteva identico in ogni capanna: numerosi cadaveri in avanzato stato di decomposizione erano sui giacigli, mentre altri corpi, privi di vita, erano accasciati a terra.

    Dopo una decina di minuti si ritrovarono tutti al centro del villaggio, davanti al totem che in passato aveva visto chissà quali sacrifici.

    All’improvviso, l’attenzione di alcuni uomini fu attirata da un debole gemito che sembrava provenire da una capanna. Uno di essi, dopo aver atteso un cenno dal comandante, impugnando con mano ferma la mitraglietta, si avviò di corsa nella direzione da cui proveniva quel flebile lamento. Spostò un pagliericcio e grande fu lo stupore nello scoprire, sotto un mucchio di pelli, un bambino di non più di un anno d’età. Intenerito dai gemiti di quel piccolo esserino, si chinò per prenderlo tra le braccia, quando un forte strattone lo fece arretrare.

    Una secca raffica di colpi di mitraglietta ruppe il silenzio, mentre numerosi schizzi di sangue macchiarono la tuta gialla dell’uomo che, come inebetito, senza proferire alcuna parola, rimase a guardare quel corpicino straziato.

    Cosa volevi fare? Pensavi di portartelo a casa? Eri stato avvertito che nessuno, da questo villaggio, in un modo o nell’altro… sarebbe uscito vivo, no? gridò l’uomo al comando, con la voce colma d’ira.

    L’uomo, scuotendo il capo, si allontanò da quell’orrore senza voltarsi.

    -Nessun superstite. Se questo è il risultato dopo il contagio del tre per cento della popolazione complessiva… gli effetti dell’azione di questo virus sono devastanti!- pensò il comandante, mentre controllava, impassibile, il resoconto sul totale dei cadaveri trovati.

    Poi, velocemente, si allontanò indicando qualcosa a uno dei suoi uomini.

    La persona a cui aveva fatto il cenno si avvicinò alla prima capanna del villaggio e, utilizzando il lanciafiamme che aveva sulle spalle, la incendiò in pochi istanti; ripeté la stessa operazione finché tutto il villaggio non fu trasformato in un unico gigantesco rogo.

    Dopo essersi cambiati e aver distrutto gli indumenti protettivi, ripresero la strada del ritorno.

    In lontananza, un’alta colonna di fumo bianco era l’unica traccia che restava del dramma che si era appena concluso.

    1

    Mark, mentre saliva la scaletta dell’aereo, non avrebbe certo immaginato che quel viaggio lo avrebbe portato a conoscenza del più grande segreto, di tutti i tempi, sul cristianesimo.

    Stava recandosi a Roma, dove gli sarebbero state consegnate le radiografie del cranio di un santo, vissuto circa mille anni prima, per tentare di ricostruirne la fisionomia.

    Mark Clò: quarantun anni portati splendidamente, un metro e ottantacinque centimetri d'altezza; un fisico atletico, frutto di tantissimi anni di nuoto a livello agonistico; capelli castano chiaro e due occhi scuri, vivacissimi, che facevano capolino da due sottili fessure, delimitate da due palizzate di ciglia nere lunghissime, che tradivano la sua origine mediterranea.

    Era un medico, specialista in chirurgia, con la passione per lo studio dell’anatomia e della fisionomia umana. Tale passione lo aveva portato a essere uno dei maggiori esperti, a livello internazionale, di fisiognomica.

    Il padre italiano e la madre belga si trasferirono negli Stati Uniti una ventina d’anni prima e, d’allora, era sempre vissuto a Portland nel Maine, dove aveva studiato e si era distinto come eccellente nuotatore nella locale università, vincendo due volte il campionato universitario NCAA degli Stati Uniti nei cento e nei duecento metri stile libero. Quella del nuoto era una passione, trasmessagli dal padre, alla quale, ancora oggi, non sapeva rinunciare: almeno due volte alla settimana doveva passare un’oretta in acqua. Attualmente, lavorava come chirurgo nel reparto di chirurgia generale del Maine medical center e come insegnante di anatomia umana presso la University of New England, la stessa università dove si era laureato.

    Pur essendo un ottimo chirurgo, la seconda attività era quella che lo appassionava maggiormente. Il suo corso era sempre affollatissimo, soprattutto di ragazze, attratte dal suo fascino irresistibile, oltre che dal suo modo coinvolgente di insegnare.

    -E’ sempre piacevole, soprattutto in primavera, passare qualche giorno a Roma- stava pensando, quando il Buongiorno e il sorriso della hostess che lo accolse, appena oltrepassato il portellone dell’aereo, lo distolsero dai suoi pensieri.

    Buongiorno a lei rispose, avviandosi lungo il corridoio.

    Controllò sul biglietto il numero del posto riservatogli: era in una delle prime file.

    Dopo pochi passi si sedette e si allacciò la cintura di sicurezza.

    -Ultimamente, la fortuna mi assiste: sono diverse volte consecutive che mi viene riservata una poltrona lato finestrino- pensò, guardando fuori.

    Stava piovendo e la leggera nebbiolina che si sollevava dal terreno dava l’impressione che tutto galleggiasse a mezz’aria.

    Faceva ancora molto freddo; conseguenza della nevicata della settimana prima, che aveva fatto precipitare la colonnina di mercurio sotto lo zero. Non erano infrequenti, in quel periodo dell’anno, nevicate abbondanti, come ultimo colpo di coda dell’inverno.

    Oramai erano tre giorni che pioveva ininterrottamente e le previsioni non lasciavano sperare di meglio per i giorni successivi.

    Una delle cose che rimpiangeva di più, dei suoi trascorsi in Italia, era il clima.

    Amava molto Portland, alla quale era legato da bellissimi ricordi, soprattutto del periodo universitario, ma ricordava sempre con piacere le lunghe e calde giornate romane della sua giovinezza.

    Non vedeva l’ora di arrivare. Il pensiero di ricostruire il volto di un santo, morto oltre mille anni prima, lo elettrizzava. Le difficoltà erano notevoli, visto che la ricostruzione si doveva basare, stando a quello che gli aveva detto la persona incaricata di contattarlo, solo sulle immagini radiografiche di una TAC, effettuata alcuni anni prima con una tecnica oramai obsoleta, che per nulla si prestavano a una elaborazione tridimensionale.

    D’altra parte, a lui, le difficoltà erano sempre state di stimolo.

    Utilizzando Morphol-X, un software per la ricostruzione tridimensionale, elaborato con il suo amico George, probabilmente, non sarebbe stato impossibile risalire a una ricomposizione virtuale del cranio. Si sarebbe potuto poi passare, mediante procedura CAM robotizzata, alla creazione di un cranio in resina, in termini tecnici definito modello stereolitografico, fedele alla ricostruzione effettuata dal computer. Da lì, poi, il lavoro sarebbe proseguito con la valutazione del grado di rappresentazione dei piani muscolari sui piani ossei e la conseguente definizione degli spessori dei muscoli e dei tessuti molli. Una volta caricati questi valori nel computer, sarebbe stata solo questione di aspettare l’elaborazione dei dati e, dopo qualche correttivo che sicuramente il programma avrebbe richiesto, si sarebbe assistito alla materializzazione del volto di un santo vissuto centinaia d’anni prima. Col pensiero pregustava già la soddisfazione che quel momento gli avrebbe procurato.

    Si addormentò.

    L’aereo atterrò in perfetto orario.

    Fuori, lo aspettava una bellissima giornata soleggiata e una temperatura particolarmente gradevole.

    Mark guardò il suo orologio: segnava le due del mattino.

    Portò avanti le lancette di sei ore e le bloccò sulle otto.

    -Per fortuna ho dormito quasi tutto il viaggio, altrimenti, a quest’ora, cadrei dal sonno- pensò soddisfatto, mentre usciva dal portellone dell’aereo.

    Il terrore che gli potessero aver smarrito i bagagli lo assalì come al solito. Scacciò i cattivi pensieri e si avviò verso il terminal.

    -Pericolo scampato!- pensò, quando vide la sua valigia, con oramai nemmeno un millimetro quadrato di superficie indenne da graffi o ammaccature, comparire sul tapis roulant.

    -Sì, forse è ora che la cambi!- meditò.

    Era così affezionato a quella sua vecchia compagna di viaggio che il solo pensiero di doversene sbarazzare gli metteva angoscia.

    Con passo deciso si avviò, quindi, verso gli uffici della compagnia d'autonoleggio. Uscì con un mazzo di chiavi e una non proprio precisa posizione di dove andare a ritirare l’auto. Il problema non era dato dalla lingua: Mark parlava perfettamente l’italiano.

    -Il problema nasce dalla scarsa propensione al lavoro di alcune persone- pensò, mentre entrava nel parcheggio.

    Si guardò intorno. -Eccola là.- Aveva individuato l’area riservata agli autonoleggi.

    Settore B o forse D… numero 2… aveva detto l’impiegato.

    In nessuna delle due posizioni trovò l’auto con la targa corrispondente a quella scritta, con pennarello indelebile, sulla targhetta di plastica verde dello squallido portachiavi.

    -Beh! Tutto sommato si tratta di passare al setaccio solamente cinque lunghissime file di automobili- pensò sorridendo.

    Un lato apprezzabile del carattere di Mark era la difficoltà a perdere la calma per i piccoli incidenti di percorso della vita quotidiana.

    La ricerca fu breve. Poco più in là, in tutt’altro settore, individuò l’auto riservatagli.

    Aprì il portellone e vi ripose la fida valigia e la sua borsa da medico: uno dei pochi vezzi di Mark. Fin da bambino aveva subito il fascino di quelle piccole borse di cuoio e ancora oggi le adorava. Erano per lui un accessorio d’abbigliamento inseparabile. In uno scomparto teneva ciò che era attinente alla sua professione. Nell’altro, tutto quello che solitamente un uomo tiene sparso tra le varie tasche di ciò che indossa e i vani portaoggetti dell’automobile.

    Allungò un po’ la strada, che portava all’hotel in cui era solito alloggiare, quando si fermava a Roma. Aveva bisogno di distrarsi un po’ e cosa c’era di meglio di un giretto per le vie della città eterna.

    La calda e soleggiata primavera romana aveva già sortito, su di lui, un innalzamento del tono dell’umore, facendogli dimenticare l’uggiosa giornata che si era da poco lasciato alle spalle.

    Un'oretta dopo, fermò l’auto davanti al Casarini Palace Hotel.

    Scese. L’uomo con la divisa bordeaux si prese cura dei suoi bagagli.

    Buongiorno e ben arrivato dottor Clò disse l’addetto alla reception.

    Buona giornata a lei.

    Le abbiamo riservato la solita camera continuò, porgendogli un cartoncino ripiegato che conteneva la scheda con banda magnetica della serratura della camera 272.

    Grazie e complimenti per l’immutata efficienza e cortesia.

    Lasciò il passaporto e si avviò verso gli ascensori.

    I documenti, dottore, li lascio nella sua casella.

    D’accordo. Grazie ancora.

    Mark guardò il grande orologio appeso, in alto, sopra i due ascensori. Era da poco passato mezzogiorno.

    L’appuntamento con l’avvocato Vighi, la persona che lo aveva contattato per conferirgli l’incarico per la ricostruzione del volto, era fissato per le ore quindici e trenta.

    -Il tempo di disfare la valigia, fare una doccia e rilassarmi un po’- pensò, mentre, seguito da un addetto della reception, entrava nella sua camera.

    Scostò le lunghe tende bordeaux, aprì la finestra e, sporgendosi, guardò fuori. Una fila interminabile di auto occupava, per intero, tutta la strada sulla quale si affacciava l’hotel. Qualcuno, suonando inutilmente il clacson, cercava di sorpassare, qualcun altro, rassegnato, lasciava passare.

    Adorava passeggiare nel traffico caotico della zona centrale di Roma; lui, oramai abituato ai ritmi della piccola città del Maine.

    -Beh! Vista l’ora, ho tutto il tempo di andare all’appuntamento con l’avvocato Vighi, facendo una bella passeggiata- pensò ritraendosi.

    2

    L’uomo, quasi non si accorse della presenza dell’altra persona dietro alle sue spalle.

    Avvertì un colpo sordo alla nuca; non vide più nulla e cadde all’indietro.

    L’individuo che lo aveva colpito, prima che cadesse a terra, lo sorresse con le mani sotto le ascelle e lo fece strisciare fin dietro il grosso fuoristrada. Il portellone era già aperto. Sollevò un po’ il busto della persona e la lasciò cadere sul pianale. Alzò poi le gambe e le ruotò verso l’interno del baule. Con due robuste fascette da elettricista bloccò le caviglie e i polsi, infine, fece un giro di un robusto nastro adesivo attorno alla bocca del poveretto. Tirò il telo copribaule e chiuse il portellone.

    Dopo essersi guardato bene attorno, salì in macchina, avviò il motore e si diresse verso l’uscita del parcheggio sotterraneo.

    Nessuno aveva visto niente. Il rumore del motore rimbombava cupamente, mostrando tutta la riserva di cavalli di cui disponeva; i grossi pneumatici stridevano sulla lucida pavimentazione, mentre guadagnava frettolosamente l’uscita. Il potente fuoristrada oltrepassò la sbarra automatica e si disperse nel traffico, dirigendosi fuori città.

    Mezz’ora dopo, arrivò in una zona artigianale in disuso da diversi anni. Si fermò davanti a un massiccio cancello, oramai preda della ruggine, sul quale faceva contrasto il luccichio di una catena e di un lucchetto nuovi.

    L’uomo scese dall’auto; con la chiave, presa dal vano portaoggetti, aprì il lucchetto e spinse le ante che, prima di lasciarsi mettere in movimento, emisero un sinistro cigolio. Risalì sull’auto e, appena oltrepassato il cancello, scese per richiuderlo.

    -Meglio essere prudenti- pensò, mentre, lentamente, si dirigeva in fondo al piazzale, dove, attraverso un portone scorrevole rimasto aperto, entrò all’interno dell’ultimo capannone.

    Si fermò e spense il motore davanti a quella che una volta doveva essere l’area amministrativa dell’azienda.

    In tutto il capannone si poteva ancora percepire l’odore del legno, probabilmente emanato dalla segatura e da alcuni fasci di legname grezzo sparsi qua e là contro le pareti.

    Aprì il portellone. L’uomo sul pianale guardò il suo aggressore con lo sguardo terrorizzato.

    Ah! Ti sei già ripreso disse l’altro estraendo dalla tasca un coltello a serramanico.

    Bene! Mi risparmi la fatica di doverti portare di peso aggiunse, mentre tagliava la fascetta attorno alle caviglie. L’uomo continuò a guardarlo con gli occhi sbarrati dal terrore.

    Con i polsi legati e la bocca ancora imbavagliata lo seguì a capo chino, probabilmente consapevole del destino a cui stava andando incontro. Entrarono nei vecchi uffici dell’azienda e di qui, attraverso uno stretto corridoio, passarono prima nella zona spogliatoi e poi nell’area riservata ai bagni.

    L’aggressore, dopo aver strappato il nastro adesivo dalla bocca della sua vittima, la spinse in una delle toilette, per l’occasione debitamente trasformata in cella di segregazione. L’uomo cadde a terra malamente e, nella semioscurità, sentì il rumore di una porta massiccia che veniva chiusa alle sue spalle. Si ritrovò all’improvviso sdraiato a terra, nell’oscurità totale.

    Poteva essere facile, in quelle condizioni, perdere qualsiasi riferimento spazio-temporale, ma, probabilmente, era proprio quello che voleva il suo aguzzino.

    Puoi urlare quanto vuoi. Non ti sentirà nessuno! furono le ultime parole che gli sembrò di udire, accompagnate da un rumore di passi che si allontanavano.

    3

    Mark uscì dall’hotel e si avviò a piedi in direzione del luogo dell’incontro. Era in anticipo, ma un giretto per le strade, a sbirciare le vetrine, avrebbe piacevolmente colmato il divario di tempo.

    Arrivò davanti all’hotel in perfetto orario.

    Buona sera. Sono Mark Clò. Ho un appuntamento con l’avvocato Vighi disse, rivolgendosi all’uomo della reception.

    Salve. L’annuncio subito.

    Sollevò la cornetta del telefono.

    Se intanto vuole accomodarsi aggiunse, indicando il salottino davanti a loro.

    Mark annuì.

    Si diresse al centro della hall e si sedette su un divanetto in direzione degli ascensori. Poco dopo, da una delle porte scorrevoli, uscì un uomo di bassa statura in un anonimo abito grigio, capelli grigi rasati e pizzetto che faceva pendant con tutto il resto. Guardò l’uomo della reception che, indicando Mark, annuì e con passi decisi si diresse verso di lui.

    Dottor Clò, immagino? disse, mentre allungava la mano destra.

    Sono io rispose Mark alzandosi e porgendo anche lui la mano.

    Fatto buon viaggio?

    Sì. Beh! Ho dormito quasi tutto il tempo.

    Sorrise. Venga. Faccio strada. Abbiamo una saletta riservata.

    Arrivarono davanti alla sala Smeraldo. L’avvocato aprì la porta e lasciò passare Mark.

    La sala, completamente arredata sui toni del verde, era esageratamente grande per una riunione di sole due persone. Si sedettero, uno di fianco all’altro, in un angolo dell’immenso tavolo di cristallo, vicini a un negativoscopio, già acceso, per poter visionare le radiografie.

    Mark non vedeva l’ora di poterle avere tra le mani.

    Gradisce un caffé o qualcosa da bere? chiese Vighi con atteggiamento ossequioso.

    Un caffé, grazie. Di solito bevo il caffé saltuariamente quando sono negli ‘States’. L’espresso italiano è sempre una forte tentazione. Difficile resistere.

    Già. Difficile resistere alle tentazioni… soprattutto se sono forti… sorrise sornione, mentre sollevava la cornetta del telefono.

    Ordinò un caffé e due bottiglie d’acqua.

    Lei non beve il caffé? chiese Mark.

    No, io riesco a resistere alle tentazioni… rispose abbassando lo sguardo e accennando un ulteriore timido sorriso.

    Veniamo al motivo di questo incontro aggiunse imbarazzato, tirando fuori da una nuovissima cartella di cuoio una carpetta rossa chiusa con l’elastico.

    Nonostante i modi un po’ rudi, ma schietti, tutto sommato, Mark trovava l’uomo sulla sessantina, seduto di fronte a lui, simpatico.

    Come già le spiegai telefonicamente disse Vighi, appoggiando le palme delle mani sopra la carpetta queste radiografie, effettuate diversi anni orsono durante una ricognizione alle reliquie di un santo, sono gli unici reperti che abbiamo per poter tentare di ricostruire il volto di quest’uomo.

    Estrasse dalla carpetta alcune radiografie. Mark le prese, si alzò ed emozionato andò verso il negativoscopio. Dopo averle guardate controluce e rigirate tra le mani alcune volte, le inserì nell’apposito supporto. Rimase in silenzio, affascinato, a guardarle per alcuni minuti. Erano le immagini radiografiche della tomografia assiale computerizzata di un cranio.

    Mi perdoni! esclamò Mark, visibilmente contrariato, ma qui sono ancora presenti, attorno al cranio, i tessuti molli!

    Sssi… certo…Il corpo è andato incontro a un processo spontaneo di mummificazione. Dopo che furono effettuate le radiografie e alcuni rilievi, il corpo fu subito ricollocato nell’urna di pietra in cui era rimasto per tanti secoli, che fu immediatamente sigillata chiarì Vighi.

    Solo oggi, che la tecnologia lo può permettere, si è deciso di tentare di ricostruire il volto di quest’uomo. Tutto ciò che le possiamo fornire è questo… aggiunse, indicando le radiografie sul negativoscopio.

    Come già le accennai telefonicamente, non le sarà nemmeno fornita l’indicazione del nome del santo. Questo per rendere più improbabili eventuali condizionamenti. Sa, è un personaggio molto conosciuto, di cui esiste una vasta iconografia… chiarì ulteriormente.

    Indicativamente a quando si può fare risalire il periodo in cui è vissuta questa persona? chiese Mark con gli occhi che saltavano, con ingordigia, da una sezione all’altra della TAC.

    Circa mille anni fa rispose Vighi.

    La data della morte non è certa, ma sembra sia avvenuta intorno alla fine del 1100 aggiunse, giocando nervosamente con le aste degli occhiali.

    Furono effettuate delle fotografie?

    No. Purtroppo no. La ricognizione sulle reliquie non fu compiuta con questo intento. Mi dispiace… ma… come ho già avuto modo di chiarirle, solo a distanza di tempo si è deciso di effettuare una ricostruzione della fisionomia.

    L’avvocato parlava lentamente, con un tono di voce dal quale traspariva tutto il suo rammarico.

    A quando risalgono queste radiografie?

    A circa dieci anni fa rispose con un tono ancor più dispiaciuto e imbarazzato.

    Dieci anni fa?! esclamò allibito.

    L’arrivo del cameriere fu provvidenziale per interrompere e superare l’attimo d’impasse.

    Dopo il caffé furono presi gli ultimi accordi. Riposte con cura le radiografie, lasciarono la sala e si avviarono verso la reception.

    Mark chiese all’addetto di prenotargli un taxi.

    Rimaniamo quindi d’accordo che ci manterrà informati sull’evoluzione di questa ricerca. Per qualsiasi necessità dovrà sempre fare riferimento a me; in ogni caso, rimarrò qui a Roma fino a dopo domani.

    Strinse la mano a Mark e si diresse verso l’ascensore.

    Mark lo guardò mentre si allontanava; c’era qualcosa, in lui, di strano, ma non riusciva a metterlo bene a fuoco.

    E’ arrivato il suo taxi, signore. Buona serata.

    Grazie, molto gentile rispose, distogliendo la mente dai suoi pensieri e dirigendosi verso l’uscita.

    L’uomo, che fino a quel momento tutti avevano chiamato avvocato Vighi, una volta entrato nella sua camera, si svestì e s’infilò l’accappatoio. Ripose il suo abito nell’armadio, aprì la valigia nuova immacolata e ne tolse una tonaca blu scuro, sormontata da un cappuccio dello stesso colore. Con molta cura, facendo attenzione a non sgualcirla, la distese sopra il letto e andò in bagno. Tornò poco dopo. Indossò la veste religiosa, prese il breviario che aveva sopra il comodino, s’inginocchiò

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