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Trattato sulla fermentazione
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Trattato sulla fermentazione

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Nel solco di una filosofia ‘naturale ed elementare’, ampiamente tentata nell’Adamo (1710), l’isolamento di un intellettuale come Tommaso Campailla (1668-1740) è presto ridimensionato da appassionate riflessioni e scoperte. La curiosità adamitica origina una sperimentazione ‘geometrica’ poi riversata in una congerie di ricerche di ordine biologico, chimico, fisiologico, astronomico, tutte apparentate con quel processo di fermentazione che compare tra gli scritti aggiunti a rifinitura delle ‘astruse’ teorie filosofiche che attraversano tutto il trattato. Un Lucrezio moderno, esploratore incantato dall'indomabile meccanismo della natura che, senza mai varcare i confini della città di Modica, sarà comunque noto all’Accademia della Regia Società di Londra grazie a un carteggio con il filosofo G. Berkeley.
A cura di Aldo Gerbino. Con un racconto inedito di Andrea Ballarini.


Tommaso Campailla (Modica 1668-1740) fu naturalista e poeta di orientamento cartesiano. Tra le sue opere: L’Adamo ovvero il mondo creato (2 parti, 1709 e 1723); gli Opuscoli filosofici (1738).
LanguageItaliano
Release dateNov 9, 2016
ISBN9788899554156
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    Trattato sulla fermentazione - Tommaso Campailla

    Tommaso Campailla

    Trattato sulla fermentazione

    Tommaso Campailla

    titolo: Trattato sulla fermentazione

    a cura di: Aldo Gerbino

    © 2016 Armillaria

    I edizione Armillaria - novembre 2016

    Progetto grafico: Armillaria

    isbn 9788899554156

    armillaria.org

    armillariaedizioni@gmail.com

    Armillaria è un progetto di

    Mara Bevilacqua & Manlio Della Serra

    ISBN: 9788899554156

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    VI

    Tommaso Campailla

    Trattato sulla fermentazione

    a cura di

    Aldo Gerbino

    Con un racconto inedito di

    Andrea Ballarini

    Del chimismo, della geometria, dell’amor cartesiano

    In lode d’un ipocondriaco modicano

    Io penso dunque, son Io. Cosa, che pensa,

    Son io, che mentre penso, dunque sono,

    Conosco il mio pensier, ch’a ciò ripensa,

    E nego, affermo, dubito, e ragiono:

    Intendo, voglio: ho di pensieri immensa

    Turba, che del pensier più modi sono:

    E mentre io sento, immagino ed apprendo,

    Di queste varie forme Idee comprendo.

    T. Campailla, L’Adamo, ovvero il mondo creato, I/54

    A nostra somiglianza or facciam l’Uomo;

    L’Uom, che su quanto striscia e nuota e vola

    E a passi move, e a quel che in Terra imperi.

    Te, ciò detto, formò; te, Adàm, te polve

    Di questo suolo istesso; e il caro spirto

    Della vita spirò nelle tue nari.

    J. Milton, Il Paradiso perduto, VII

    Piacquero a Bernard le Bovier de Fontenelle – nipote di Corneille e vivace membro della parigina Académie des Sciences nonché autore, nel 1727, degli Élements de la Geometrie de l’infini – quei due dialoghi antinewtoniani firmati da Tommaso Campailla, ossia le Considerazioni sopra la fisica d’Isacco Newton.[1] Piacquero tanto da affermare, attraverso l’autorevole voce dell’Accademia di Francia, che «le difficoltà stesse in questi dialoghi erano state ben pensate e con mente filosofica, e che l’accademia non solo le approvava, ma si asteneva di darli in luce, perchè il signor Campailla ne avea con le stampe prevenuto l’impegno». Ciò incoraggiò a proseguire l’investigazione del siciliano Campailla il quale, come ricorda Domenico Scinà nel Prospetto, «proseguì le sue speculazioni contro il Newton, ed era sul punto di lavorarne una nuova impugnazione, allorchè assalito da accidente apoplettico finì di vivere a 7 febbrajo del 1740 in età di 72 anni». E non gli furono certo risparmiati gli «elogi di tutte le accademie, e di molti poeti, e merita sopra tutto d’essere ricordata», avverte il fisico e storiografo palermitano, «un’eloquente orazione del p. Melchiorre da Sant’Antonio delle Scuole Pie stampata in Palermo nel 1744».[2] La morte del patrizio modicano, che coincide con la nascita a Palermo, ai primi del mese di marzo, dell’abate Meli, lo coglie traumaticamente e certo non senza travaglio, di sicuro privato di quella serenità nei confronti della morte che fece dichiarare al Fontenelle, ricordando negli annali Jean-Baptiste du Hamel (fisico, autore del De Corpore animato e del De Mente humana), d’essere preso «d’une mort douce et paisible, et par la seule necessité de mourir»,[3] modalità biologica, questa, forse non adeguata alla complessione fisica e mentale d’un Campailla (quel giovanile ‛tardo’ intelletto per Antonino Mongitore: «In ipsa pueritia stupidum prope ingenium accepisse videbatur», Bibliotheca Sicula, 1714, II/p. 258), vero e proprio contenitore, in età matura, d’ipocondriache tensioni. Tensioni corporee che venivano alimentate in quel tempo dai mutamenti che investirono, in maniera robusta, le molteplici sfere intellettuali: molte di queste animate dalla sempre più avvertita necessità di conferire sostanza al desiderio di emancipazione dalle persistenti briglie della scolastica consegnando, soprattutto, ai valori primari dell’arte i segni resi dal tempo più tangibili dei crescenti valori morali. E, forse, per tali confliggenti miscugli, non piacque, appunto, a Giovanni Meli, medico, pubblico professore di chimica e celebre poeta – inserito a tutto tondo, pur con qualche contraddizione, in tale spinta emancipativa – un’autonomia di giudizio in cui fu partecipe, ricorda Luigi Natoli, proprio il celebrato Tommaso Campailla di Modica, al quale – è detto – va riconosciuto il merito, con Fardella, d’essere stato in Sicilia «il più poderoso campione del Cartesianismo, a cui s’informa il suo poema filosofico: L’Adamo», poema, però, definito «ibrido, falso e inestetico, e a cui si potrebbero aggiustare [in tal caso] le parole del Meli, assai giuste, che alla sola Epopea si convien titolo di poema».[4] Per altro va sottolineato che più avanti, sulla scia di tale atmosfera, si mosse anche quell’«ingegno vigoroso» di Tommaso Natale, colui il quale «cantò la filosofia di Leibniz con grande ardimento, tanto da esserne perseguitato». Si tratta di quel Tommaso Natale (1733-1819), marchese di Monterosato, giureconsulto e filologo, da cui presero corpo opere di rilievo come, nel 1756, la ricordata Filosofia leibniziana in versi (la quale registrò, infatti, l’inquietante attenzione del Tribunale del Santo Uffizio), la libera traduzione dei poemi omerici in versi sciolti italiani e il noto Le riflessioni intorno all’efficacia e necessità delle pene, anticipatore del lavoro del Beccaria. E anche se tali intelletti «non seppero uccidere quel regno insipido de l’Arcadia, giacché la loro arte ancella di un sentimento che trascendea la natura, non poteva ricondursi a le sue pure fonti e rinnovellarsi»,[5] alcuni di certo furono abile concime per la crescita futura. Meli, come ricordato, vede la luce, dietro il palermitano Coro dell’Olivella, lo stesso anno in cui Campailla abbandona le umane tormentose vicissitudini. Anch’egli, come già il patrizio modicano, porrà attenzione agli aspetti della fermentazione, indirizzata in modo esclusivo sul versante enologico (a parte il suo esteso produrre materiali poetici ad elogio della civiltà bacchica in quel suo ‛meticciato linguistico’ plasmato all’insegna d’una raffinata intellettualità) con quello scritto, Sulla maniera di far fermentare e conservare i vini ne’ tini a muro, una ‛lettera’ inviata al Signor Cavaliere Saverio Landolina di Siracusa, in cui veniva ribadito, con convinzione, come il vino in botte, sottratto in varie esperienze all’aerea ossigenazione, nel modo in cui veniva raccomandato da certe schiere di chimici (l’autore per altro insegnante di chimica[6]), in virtù della pratica del sigillare ermeticamente le botti, fosse di buona tempra. Inequivocabili, dunque, le parole del poeta che così certifica: «il vino che ho veduto spillare da que’ tini alla Bagaria chiuso ermeticamente sin d’allora che vi posero le uve pigiate, l’ho trovato scarico, e chiaro, pieno di spirito di gagliardia e di un gusto soave e dilicato, a segno che molti nobili forastieri e contadini, che ivi si trovavano, fecero, assaggiandolo, delle meraviglie nel sentire che in quindici giorni il mosto si era cangiato in vino perfettissimo».[7] Ed aggiunge che sicuramente «protesteranno qui i chimici, che credono di loro ispezione come la è in fatto, la fermentazione del mosto che l’aria sia un requisito necessario alla medesima e quel chiudersi ermeticamente i tini è lo stesso che intercettare al mosto il libero commercio dell’aria ed opporsi

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