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La luna perduta
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La luna perduta

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La luna perduta, attraverso la narrazione dei tragici eventi vissuti dai protagonisti, Mahtab, Luna e Roberto, affronta alcune tematiche e problemi di estrema attualità in una società, come quella italiana, in rapida trasformazione socio-demografica; tematiche che oltre a pesare come macigni sui destini di tanti ragazzi e ragazze di seconda generazione, figli di immigrati, incidono indiscutibilmente sullo sviluppo sociale e futuro di questo Paese.

Enfatizzazione della diversità e ignoranza delle comunanze come premessa per giustificare le reciproche intolleranze, negazione di ogni sforzo di comprensione e di confronto reciproco per legittimare il rifiuto e la non accettazione dell’altro, il ricorso alla più inaudita violenza come atto risolutore del conflitto sono solo alcune tematiche che emergono dalla lettura di questo libro; una storia avvincente, forte di un ritmo vivo, pulsante, che tiene accesa l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina, rendendolo parte attiva del gioco di vite che si sviluppa davanti ai suoi occhi.
LanguageItaliano
Release dateNov 2, 2016
ISBN9788856780017
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    Book preview

    La luna perduta - Morteza Latifi Nezami

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8001-7

    I edizione elettronica ottobre 2016

    Era disperato. Erano giorni che non ne sapeva più nulla. Aveva girato l’intera città chiedendo a tutti coloro che la conoscevano, ma niente, nessuno sapeva nulla.

    Perché non l'aveva accompagnata? Lui voleva accompagnarla, ma lei aveva rifiutato.

    Si era presentato perfino a casa sua il giorno dopo, senza nessun esito.

    La madre non era in casa, il padre gli confermò la visita della ragazza. Dopo aver chiarito alcune questioni, era andata via tranquillamente, gli aveva detto.

    Ma dov'era nascosta la sua luna?

    Non stava per caso giocando a nascondino come faceva qualche volta quando frequentavano la stessa scuola? Pensò, ricordando quell’ormai lontano periodo con gioia.

    Sicuramente no! Allora cos’era successo?

    Dopo un po’ fu preso dal panico.

    Andò a chiedere in tutti gli ospedali, ma non avevano portato nessuna ragazza ferita o morta in nessuno di loro. Meno male! Sospirò.

    Si recò in diversi commissariati, non avevano arrestato nessuna ragazza. Tornò al negozio del padre, la risposta era sempre uguale.

    Che fare? Senza la sua luna la vita era vuota, non valeva nulla. Vagava par la città come un fantasma in cerca di un altro fantasma.

    Non riusciva a dormire, non mangiava più. Sentiva di essere colpevole. Non avrebbe dovuto ascoltarla. Avrebbe dovuto accompagnarla a casa dei genitori.

    E se l’avessero sequestrata e imprigionata? No, non era possibile!

    Forse l’hanno ammazzata, pensò ritornando disperato. Sentì una fitta al cuore.

    No, non era nemmeno da prendere in considerazione.

    Per quale motivo? E poi era andata a trovare i genitori. Anche se non fossero stati d’accordo con lei non sarebbero mai arrivati a farle del male. Era pur sempre la loro figlia.

    La vita sembrava diversa, brutta, arida, noiosa senza quel sorriso, senza le sue parole dolcissime. Non valeva più la pena di vivere. No, la vita senza la luna... guardò lassù nel cielo e vide una luna piena color avorio. Quante volte le aveva fatto vedere quella luna dicendo che lei era la sua, solo sua, mentre quella nel cielo apparteneva a tutti. Ora anche lui doveva guardare quella lassù e sospirare con amarezza.

    Posso parlare con la signora? Aveva chiesto l’ultima volta che era andato a casa dei genitori.

    La signora non c’è.

    Dove posso trovarla?

    È partita.

    Partita?

    Sì.

    Per dove?

    Per il nostro paese.

    Per il vostro paese?

    Sì.

    E la luna?

    La luna non è partita.

    E allora dov’è?

    Io non lo so, dovrebbe saperlo lei.

    Io? Perché io?

    Non vive con lei?

    Guardò perplesso il padre. Gli passarono molti pensieri per la testa, ma non replicò.

    Ho capito, rispose, mentre si girava per andare di nuovo come un fantasma per le vie della città a pensare dove poteva trovare la sua luna.

    Non l’hanno mica messa in una valigia e portata nel loro paese? Gli balenò improvvisamente questo pensiero.

    Non aveva mai preso in considerazione quell’eventualità anche se ogni tanto pensava al peggio.

    Tornò immediatamente a casa. Aveva bisogno di concentrarsi. Doveva riportare alla mente tante cose, bisognava mettere insieme le tessere di un mosaico.

    E poi dopo?

    L’indomani sarebbe andato dalla polizia a denunciare la scomparsa della sua luna. Sì, non aveva altra possibilità di trovarla se non attraverso una denuncia.

    Come sarebbe il mondo senza la luna? Sospirò guardando il cielo.

    Scrutò ancora la luna. Bellissima, come la sua, che dal suo letto di velluto blu scuro curiosava affettuosa gli esseri umani affannati dietro i loro problemi, senza poterli aiutare.

    Aiutami, per favore, a trovare tua sorella! Esclamò volgendo il capo verso il cielo.

    1

    I genitori erano finalmente riusciti a convincere il figlio Saleh a partire per l’Europa. Là viveva da diversi anni uno zio, il fratello di suo padre. Lo zio era partito molti anni prima per studiare, ma non potendo finire l’università aveva trovato un lavoro ed era rimasto in quel paese.

    Lavorando sodo per un’azienda di trasporti internazionali, aveva ottenuto il permesso di lavoro e di soggiorno. Quando giunse all’età di sposarsi, i suoi genitori, cioè i nonni di Saleh, scelsero anche la donna che sarebbe dovuta diventare sua moglie. Una lontana cugina che non aveva visto nemmeno una volta. Ma quello che decidevano i genitori non poteva essere discusso o contestato.

    Del resto era giusto sposarsi con una ragazza per bene e del suo paese, non con una ragazza europea che andava in giro come voleva e con chi le pareva.

    Ora viveva felice con la moglie. I suoi figli avevano accettato, esattamente come lui, le regole della famiglia e i loro valori mantenendosi lontani da quel modo di vivere occidentale. Una vita che non aveva nulla a che fare con la loro cultura e la loro religione.

    Era contento di aiutare il fratello in difficoltà economiche, ospitando suo figlio. Saleh d’altronde avrebbe poi potuto, lavorando, mandare anche qualche soldo alla famiglia, come aveva fatto anche lui per i suoi genitori. Certi obblighi di parentela, anche se non scritti, dovevano essere mantenuti. Era la tradizione.

    Saleh aveva sette fratelli e il padre non riusciva con il suo lavoro a garantire loro una vita decente. Non si parlava di una vita agiata, ma nemmeno di pura sopravvivenza.

    Partì dunque una mattina prestissimo con un volo di linea del suo paese dopo essere stato abbracciato, salutato tra lacrime e lamenti di rito, da tutto il clan familiare residente nella capitale.

    Aveva ottenuto un visto turistico su richiesta dello zio, che aveva fornito tutte le garanzie previste dal consolato.

    Poteva rimanere per tre mesi e poi sarebbe dovuto ritornare. Lo zio aveva garantito al fratello che dopo tre mesi avrebbe chiesto il rinnovo della sua permanenza. Avendo delle conoscenze in questura, sicuramente gli avrebbero prolungato il soggiorno.

    Partire a soli diciotto anni per un paese del tutto sconosciuto non era impresa facile, anche se in quel paese c’era suo zio che lo aspettava appena fuori dall’uscita della dogana.

    Saleh però doveva fare questo sacrifico. La famiglia veniva innanzitutto. Veniva prima degli interessi di ogni singola persona. Bisognava essere uniti, tutti insieme, per vincere le difficoltà che sorgevano ogni giorno. Sì, doveva farcela, altrimenti la vergogna si sarebbe abbattuta prima sulla sua famiglia e poi sul suo clan.

    Per tutto il viaggio, sull’aereo, pensò. Pensò al suo futuro. Ma il suo futuro individuale non era staccato dal futuro dei fratelli e delle sorelle. Sapeva che anche lui, a suo tempo, avrebbe dovuto invitare qualche fratello, cugino o nipote, e aiutarlo a trovare un lavoro.

    Perciò doveva mettersi in testa che da subito bisognava cominciare a fare dei sacrifici.

    Non sapeva nulla della vita del paese dove era diretto. Conosceva appena quello zio che, come lui, era partito giovanissimo.

    Non conosceva nemmeno i suoi cugini. Aveva spesso visto le loro foto, ma di persona forse una o due volte, quando erano tornati per un matrimonio o per una visita al clan.

    Poi pensò alla lingua. Lui conosceva un po’ d’inglese, ma la lingua di quel paese era totalmente diversa, di origine neolatina.

    Imparerò anche quella, promise a se stesso. Bisogna lottare per realizzare i propri obiettivi nella vita. Nessuno ti regala nulla.

    Tutti cercheranno di sfruttarti al massimo con il minimo compenso, gli aveva detto suo padre prima di abbracciarlo per l’ultimo saluto.

    Ma tu, figlio mio, devi resistere per arrivare dove vuoi. Devi diventare qualcuno per la gloria della tua famiglia e della tua tribù.

    Non riuscì a mangiare il pranzo offerto dal personale di bordo. Era strano che non avesse fame.

    Una cosa del genere non gli era mai successa. Nemmeno quando aveva fatto il concorso per entrare all’università, pur sapendo di avere poche possibilità di passare. Eppure anche in quell’occasione la mattina aveva mangiato tranquillamente prima di recarsi alla sede della prova.

    Cercò di calmarsi bevendo un bicchiere d’acqua. Poi cominciò ad assaggiare il cibo. Niente da fare. Gli veniva da vomitare.

    Forse perché il piatto non era buono? No, non riusciva nemmeno a mangiare un po’ di torta.

    Gli altri passeggeri avevano divorato tutto, allora il cibo non era cattivo. Era la sua agitazione.

    Cercò di dormire, ma nemmeno il sonno voleva fargli un regalo. Niente da fare ancora una volta. Doveva rimanere sveglio e pensare. Pensare, sì, quello non poteva non farlo, non poteva stare sveglio e non pensare a nulla.

    Anche se cercava di ricordare i momenti passati, gli amici rimasti in patria, automaticamente il pensiero balzava in avanti portando con sé un po’ di angoscia e di ansia.

    Se fossi arrivato in quel paese senza conoscere nessuno allora come mi sarei sentito? Pensò, ma subito dopo giunse alla conclusione che sicuramente sarebbe stato meglio. Meno ansia, meno inquietudine. Forse queste angosce derivavano dalla paura di essere giudicato dallo zio e dai suoi familiari in modo negativo e poi questo giudizio poteva essere in seguito trasmesso ai suoi genitori e al resto del clan.

    Sì, sicuramente sarebbe stato meglio affrontare i problemi da solo, senza dover dare conto agli altri.

    Vuole guardare il film che fra un po’ proietteremo sullo schermo? Gli chiese una hostess offrendogli una cuffia.

    Sì grazie, rispose Saleh che prese la cuffia e la indossò.

    Forse guardare il film poteva aiutarlo a distrarsi.

    La pellicola però era una di quelle commerciali da due soldi, senza azioni e trama interessanti. Non solo non lo calmava, ma addirittura ne aumentava l’agitazione.

    Tolse la cuffia osservando gli altri che guardavano tranquillamente il film.

    Dovrebbero far vedere qualcosa di allegro in queste occasioni. Almeno uno si farebbe qualche risata prima di arrivare in un paese completamente sconosciuto e affrontare una vita di sicuro non facile. A questo pensò prendendo una rivista dalla tasca del sedile anteriore.

    Anche la visione della rivista non lo rasserenò. Cercò di guardare fuori dal finestrino. Non si vedeva nulla, sotto di loro tutta una coperta di nuvole.

    Cominciò a recitare una preghiera, il pensiero rivolto al suo Dio lo calmò. Aveva trovato la medicina per arrivare a destinazione.

    Quando l’aereo atterrò, di nuovo l’angoscia, ma non c’era tempo per darle ascolto. Doveva seguire gli altri passeggeri per ritirare la valigia e infine passare la dogana.

    Tutto andò liscio. Non gli fecero nessuna domanda. Saleh rimase stupito. Nel suo paese qualcuno almeno avrebbe tentato di spillargli qualche soldo cercando di trovare qualcosa non in regola.

    Tutto sommato questo paese non è tanto male, pensò mentre passava davanti ai doganieri che non lo avevano fermato.

    Appena fuori, vide un uomo che gli sembrava suo zio. Era veramente lui? Rimase un po’ perplesso.

    Non ricordava molto bene quel viso.

    Del resto erano diversi anni che non si incontravano. Infatti da molto tempo lo zio non visitava la sua tribù.

    Decise di presentarsi all’uomo che gli sembrava lo zio, era inutile guardarsi ancora intorno, come stava facendo anche quell’uomo. Al massimo gli avrebbe risposto che aveva sbagliato persona.

    Buongiorno signor zio, sono Saleh, disse con molta deferenza.

    Nel suo paese non si usava mai dare del tu a uno zio o una zia. Davanti al loro nome bisognava sempre mettere la parola signore o signora, altrimenti veniva considerata una mancanza di educazione.

    Buongiorno mio caro, come sei cresciuto! Non ti avevo riconosciuto. Come stai? Tutto bene? Il viaggio tutto tranquillo? Come stanno i tuoi? Il papà? I fratelli come stanno? Nella strada tutto va come prima? Morto qualcuno? Qualcuno ha venduto il suo negozio? C’è della gente nuova nel quartiere?...

    A Saleh sembrava una mitragliatrice di parole. Ciò non gli lasciava il tempo di ricambiare la cosiddetta gentilezza orientale.

    Continuava a chiedere come stavano uno a uno tutti i membri della tribù. Anche Saleh avrebbe voluto chiedere come stavano i cugini e le cugine, la zia e come andavano gli affari. Tutte cose che aveva imparato da bambino osservando ed ascoltando i grandi del clan quando si incontravano, ma non c’era nulla da fare, doveva solo ascoltare e rispondere.

    Quando arrivarono davanti all’automobile dello zio, lui smise finalmente di chiedere come stavano i membri della famiglia, la gente del quartiere e molti altri che Saleh non conosceva nemmeno. Allora fu la volta di Saleh di rivolgere le stesse domande allo zio.

    Il ragazzo non guardò il paesaggio nel tragitto fra l’aeroporto e la casa, era ancora impegnato a rispondere alle domande dello zio e ad ascoltare le sue risposte.

    Solo quando arrivarono a casa Saleh si accorse che non aveva guardato nulla del tragitto.

    Aveva sempre sentito dire che questo era un paese bellissimo. La sua capitale d’altronde è conosciuta per bellezza e classicità come la capitale del mondo. Si arrabbiò un po’ con lo zio, ma non disse nulla, tanto avrebbe avuto tempo per visitare tutto. Ora doveva rimanere a disposizione.

    La casa era una semplice costruzione su due piani con un piccolo cortile ed un posto auto.

    Era situata in un piccolo quartiere alla periferia di una città non tanto grande.

    Al piano terra, verso la strada, c’era il negozio dello zio che, come i negozi del loro paese d’origine, aveva un’apertura verso il cortile interno.

    Nel cortile, oltre al posto per parcheggiare un’auto, c’erano anche due o tre alberi da frutto. In una piccola aiuola, oltre a basilico, prezzemolo, menta e altre erbe del loro paese, c’erano diversi fiori poco curati, sciupati e con i petali sofferenti che sembravano i fantasmi dei loro originali.

    Al pianterreno, accanto al negozio, c’era il magazzino.

    Di fianco a questo un piccolo gabinetto e poi due stanze dov’erano sistemate le due figlie sposate dello zio con i rispettivi mariti.

    Gli uomini erano della stessa tribù e quando le figlie giunsero in età da marito erano andate al paese d’origine per sposarsi, naturalmente accompagnate dai genitori.

    Infatti era costume delle famiglie della tribù osservare le fanciulle già da molto prima dell’età del matrimonio, per i loro figli maschi.

    Se poi queste ragazze appartenevano a famiglie benestanti, tanto meglio!

    La figlia maggiore aveva sposato un lontano cugino della madre. Non l’aveva mai conosciuto bene, non avevano mai parlato di nulla prima di ritornare al paese per i preparativi del matrimonio. Naturalmente, di uscire insieme prima del matrimonio, non se ne parlava proprio! Non era immaginabile che due ragazzi non sposati potessero andare in giro per conto loro senza che nessuno fosse presente.

    I genitori di entrambe le parti avevano già raggiunto un accordo su tutto e rimaneva solo da organizzare la cerimonia vera e propria.

    Era stato considerato un bel matrimonio: molti ospiti, molto cibo, molta allegria, molti complimenti ed anche molti regali, ma per lei il ricordo di quell’uomo non era altro che una sbiadita immagine della sua infanzia, ora invece doveva dire di sì al sacerdote che le chiedeva se lo voleva come marito.

    Sapeva che ora non poteva assolutamente obiettare nulla. L’onore della tribù veniva prima della felicità dell’individuo.

    Da quando avevano messo gli occhi su di lei per il loro figlio? Pensava ogni tanto osservando il marito.

    E perché non le avevano comunicato nulla?

    Lei non voleva la stessa cosa per i suoi figli. Non doveva lasciare che facessero ai suoi figli quello che avevano fatto a lei, anche se suo marito le sembrava abbastanza bravo.

    L’aveva picchiata solo poche volte, al contrario di molte cugine che venivano picchiate quasi tutti i giorni, non solo nel loro paese d’origine, ma anche qui, nei vari paesi europei.

    Parlavano al telefono delle loro disgrazie, ma poi si accontentavano di quello che avevano avuto, raccomandando di non raccontare a nessuno il contenuto delle loro confessioni, nemmeno ad altre cugine.

    Molte donne accettavano che fosse giustificata l’autorità del marito sulla sua donna, era giusto che il marito picchiasse la moglie se questa aveva commesso degli errori.

    Però l’entità dell’errore, se di questo si poteva parlare, veniva sempre decisa dal maschio.

    Se aveva la luna storta, qualsiasi piccola cosa diventava un pretesto per scaricare la sua violenza sulla moglie e a volte, anche sui figli.

    L’altra figlia dello zio invece, aveva sposato uno dei figli di un cugino del padre.

    Lei aveva un anno in meno della sorella mentre il marito aveva quattro anni più dell’altro genero.

    Non si stava a guardare l’anno in più o in meno, ma quello che aveva da offrire lo sposo in cambio di una ragazza più giovane.

    Lui aveva portato un po’ di soldi alla famiglia, cosicché avevano potuto, aggiungendo i loro risparmi, comprare questa casa accendendo poi un mutuo non tanto pesante. Questo non poteva essere dimenticato e, nonostante quell’aiuto, lui, il marito della seconda figlia, doveva accettare di vivere, come gli altri due, in una stanza del piano terra.

    Non godeva di alcun privilegio rispetto agli altri, qui comandava il capo famiglia e questi non voleva fare differenze fra le sue figlie.

    Comincia a fare delle preferenze verso una di loro e vedrai che la famiglia si sfascia come niente, diceva sempre.

    Al primo piano c’era la camera dello zio e della moglie. Accanto ad essa c’era il piccolo studio del capofamiglia, sempre in ordine, in cui teneva ancora in fila tutti i suoi libri dell’università per la quale era arrivato in quel paese e che non era riuscito a finire.

    I due gemelli maschi dormivano nell’altra camera di fianco.

    I maschi godevano sempre maggior riguardo, era ovvio che loro dormissero in una camera al primo piano!

    L’altra figlia, che era la più piccola, dormiva in una piccolissima stanza ricavata fra la cucina e il soggiorno.

    Era proprio una stanza minuscola, ci stavano solo un letto, un piccolo tavolo con una sedia e una specie di attaccapanni a muro per i suoi vestiti.

    Il soggiorno abbastanza grande, con un divano letto, era riservato solo agli ospiti.

    Nel soggiorno potevano dormire anche più persone nei momenti di necessità. Per esempio quando dei parenti venivano a trovarli, magari con qualche figlio al seguito.

    Avevano anche un sottotetto, ma non era ancora arredato. Mancavo i soldi e anche il tempo, visto che quasi la totalità dei lavori della riparazione della casa veniva fatta dai membri stessi della piccola comunità.

    E Saleh, dove doveva dormire?

    Con i gemelli, era ovvio.

    Avevano già aggiunto un letto nella loro stanza e gli avevano riservato anche un’anta dell’armadio per i suoi pochi vestiti.

    I gemelli avevano qualche anno meno di Saleh. Abbandonato il liceo senza averlo terminato, aiutavano il padre al negozio.

    Uno di loro però voleva fare il camionista.

    Si viaggia tanto, si conoscono diversi posti nuovi e poi si guadagnano un sacco di soldi, diceva sempre quando parlava dei suoi progetti.

    L’altro non aveva nessun sogno. A lui andava bene il lavoro che faceva, non desiderava né girare il mondo, né guadagnare tanti soldi.

    Voleva avere una famiglia, quello sì che gli piaceva. Avere una moglie bella e magari anche ricca, dei figli e poi, per il resto, andava bene anche un negozio come quello del padre. Ogni tanto pensava anche di ritornare al suo paese e continuare a vivere là, tutto sommato questo mondo occidentale non è che gli sembrasse chissà cosa.

    La famiglia non era molto religiosa, cioè non apparteneva a quei gruppi integralisti che giravano anche per le strade delle città europee tutti coperti o con indumenti che subito davano nell’occhio. Pregavano però quotidianamente e osservavano tutte le regole dell’Islam e ne erano orgogliosi, come ogni credente di qualsiasi religione del mondo.

    La figlia più piccola frequentava ancora la scuola elementare, era solo una bambina eppure anche lei osservava già le regole.

    Per andare a scuola metteva un piccolo foulard, portava quasi sempre i pantaloni e una camicia che le arrivava quasi al ginocchio.

    Era una bambina carina e anche studiosa, aveva tanto desiderio di continuare a studiare, sognava il liceo e l’università.

    Sapeva che erano tutti sogni irrealizzabili, però sognare non costava nulla.

    Una volta aveva accennato alla madre il suo proposito e aveva colto subito il cambiamento d’espressione.

    Sei troppo piccola per dire certe cose, le aveva risposto.

    Perché, mamma? Se uno non comincia a programmare la sua vita...

    Cosa hai detto? Programmare la sua vita? Dove hai imparato queste cose?

    La maestra ci dice queste cose.

    La maestra? Invece di insegnarvi a leggere e scrivere vi insegna questo? Che maestre sono?

    Lei dice che noi dobbiamo pensare ad organizzare il nostro futuro, pensare a che cosa vogliamo fare e in che modo...

    Il vostro futuro è nelle mani di Dio che poi lo metterà nelle mani dei vostri padri! Sono loro che sanno meglio di tutti cosa va bene per voi e che cosa non va bene.

    Spero che Dio metterà nelle mani del papà il mio futuro con gli studi, io prego tutte le sere che lui metta gli studi nel mio.

    Tu prega sempre e vedrai che Lui saprà accontentarti. Quello che deciderà Lui, quello che poi tuo padre metterà in atto è il meglio per te mia cara, hai capito? Non ascoltare la maestra, noi non siamo come loro, loro non sono credenti come noi.

    Allora non devo ascoltare la maestra?

    La devi ascoltare solo per quanto riguarda le lezioni.

    Ma la bambina non poteva ascoltare la maestra soltanto per quanto riguardava le lezioni, la maestra parlava proprio di quello che lei sentiva nel cuore.

    Laurearsi e magari insegnare a sua volta a molte persone! Sarebbe stata bellissima una cosa del genere, ma non poteva assolutamente esprimere questo desiderio, nemmeno coi fratelli, temeva che l’avrebbero presa in giro.

    Ora che era arrivato suo cugino, poteva sperare in lui.

    Forse lui la pensava diversamente, ma era loro ospite e non aveva nessun potere, questo lo capiva anche lei.

    Dopo l’accoglienza di Saleh con un piccolo festeggiamento a mezzogiorno con cibi preparati dalla zia e dalle due figlie, gli indicarono il suo posto nella stanza dei gemelli.

    Questo è il tuo letto per ora mio caro, ma appena sistemeremo il piano superiore vedrai che, come avevo promesso a tuo padre, avrai una stanza tutta per te. Per ora la situazione economica non è delle migliori, ma io so che tu sei un ragazzo paziente e capisci tutto.

    Grazie signor zio.

    Ora sei stanco, se vuoi riposati un po’, ti farò vedere il lavoro domani.

    No signor zio, non sono stanco.

    Comunque ora riposati.

    Come vuole lei, signor zio.

    Non bisognava contraddire lo zio, bisognava ascoltarlo sempre, anche quando uno non era d’accordo, come succedeva anche a casa.

    Tu mi hai sempre ascoltato anche quando non eri d’accordo con me, perché sai che io capisco più di te e voglio assolutamente il tuo bene, anche con lo zio sarà la stessa cosa, capito? Gli aveva detto e ripetuto suo padre prima che lui entrasse nel salone dell’aeroporto per prendere l’aereo.

    E ora lui stava facendo quello che gli aveva raccomandato il genitore. Bisognava ascoltarlo, pensava, mentre seguiva lo zio che lo accompagnava nella camera dei gemelli.

    Riposati un po’, poi ci vediamo.

    Va bene signor zio.

    Entrò nella camera e la trovò piena all’inverosimile. A casa sua dormiva con un fratello, ma non avevano tante cose come qui, forse un po’ di roba apparteneva alle cugine sposate che nella loro camera non avevano molto spazio. Non doveva pensarci tanto, a lui bastava un posto per dormire.

    Si mise sul letto tutto vestito, poi si ricordò che se lo zio fosse venuto a vedere come stava, molto probabilmente si sarebbe arrabbiato, esattamente come avrebbe fatto anche suo padre.

    Non ci si mette sul letto con i vestiti, quante volte devo ripetertelo? Diceva il padre quando lo trovava sdraiato sul letto tutto vestito.

    Ma perché? Tanto le scarpe le toglieva come tutti gli altri membri della famiglia proprio all’ingresso, allora se i vestiti non erano puliti, non bisognava togliere anche quelli proprio all’ingresso? Invece no, si toglievano solo quando non si voleva più uscire, quasi sempre la sera, e si mettevano i vestiti comodi di casa. Era meglio però non discutere e contraddire il padre, allora si alzava dal letto e si metteva sul tappeto o sulla sedia.

    Anche ora era meglio non dare subito un pretesto allo zio.

    Si alzò e cercò, nella valigia sistemata in un angolo della stanza, il pigiama.

    Si cambiò e andò sotto le lenzuola.

    L’odore fresco delle lenzuola pulite lo accolse col suo buon profumo.

    Cominciò a pensare.

    Cosa voleva dalla vita?

    Studiare sicuramente no, a che serviva studiare? Gli venne in mente l’unico parente che aveva fatto l’università e aveva sposato una donna fuori dalla tribù. Era stato criticato da tutti, anche se davanti a lui nessuno diceva nulla. Quando lui andava via, invece, tutti cominciavano a spettegolare sulla sua condizione economica, sulla moglie che non portava il velo e su tante altre cose della sua vita.

    Chissà come educherà i suoi figli? Si chiedevano subito dopo.

    Non è lui che decide. È la moglie che decide per i loro figli.

    Dove andremo a finire?

    La tradizione ormai è al termine.

    Non c’è più onore, non c’è più la figura del capo famiglia.

    Pensano di essere chissà chi, solo perché hanno fatto l’università.

    E a che cosa serve? Guadagnano meno di noi e lasciano le briglie nelle mani di donne che non sono come le nostre.

    Loro vogliono comandare.

    E comandano pure.

    Senza che i mariti se ne rendano conto.

    La cosa peggiore è proprio questa, i mariti si credono il maschio della famiglia, invece a questo punto potrebbero mettere anche il velo, tanto le donne di casa ormai sono loro.

    Niente studi! Non voleva che alle sue spalle sparlasse tutta la tribù.

    Allora rimaneva solo il lavoro.

    Quale lavoro però?

    2

    Si era addormentato con il pensiero di Quale lavoro quando sentì che lo zio lo chiamava a voce bassa mentre lo smuoveva delicatamente.

    Saleh, Saleh.

    Svegliati.

    Saleh, figliolo.

    Accanto allo zio, la zia guardava il ragazzo che dormiva profondamente.

    Lascialo dormire ancora, non vedi che dorme proprio bene?

    Ma dobbiamo cenare, ha dormito quasi tutto il giorno.

    Si vede che era stanco.

    Stanco?

    È partito che era notte nel nostro paese.

    Non è mica venuto a piedi, era seduto in una bella poltroncina, ha mangiato un bel piatto, magari di riso e stufato, ha guardato uno dei bei film nostri, non come quelli che fanno vedere in queste televisioni qui, ha bevuto un bel tè con un pezzo di dolce e tu dici che è stanco?!

    Ma è un ragazzo.

    Un ragazzo? Io alla sua età...

    Lo so, lo so, tu alla sua età già avevi fatto...

    Ma no, non volevo fare paragoni, dicevo solo che...

    Se non era un confronto allora cos’era quel io alla sua età?

    No, non lo era. Volevo dire che alla sua giovane età si dovrebbe stancare meno, ma ormai questi giovani sono sempre stanchi, sempre.

    Questo è vero, ti do ragione.

    Allora cosa facciamo?

    Aspettiamo, è il primo giorno

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