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Pericolosità del malato di mente
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Pericolosità del malato di mente

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La promulgazione della legge n. 9 del 2012 ha avviato a definitivo superamento gli ultimi Ospedali Psichiatrici rimasti in attività in Italia dopo la legge 180 del 1978 (gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Nel suo chiudere idealmente uno storico ciclo riformatore ha rappresentato un’occasione di bilancio e di riflessione sul radicale percorso di trasformazione che la Psichiatria Italiana ha intrapreso negli ultimi trentacinque anni: una riflesione, in particolare, sul suo aspetto più delicato e controverso, la questione della “pericolosità”. Nel libro, quest’ultima tematica viene affrontata nei suoi innumerevoli risvolti (giuridici, psicopatologici, politici e culturali), e rapporta al tema più generale dell’organizzazione dei servizi psichiatrici nel nostro Paese. L'AUTORE: Volfango Lusetti è nato a Roma nel 1946. Esercita la professione di psichiatra dal 1975. Ha contribuito a numerose esperienze di superamento degli Ospedali Psichiatrici, prima e dopo il varo della legge 180, in Toscana, in Umbria e nel Lazio. Ha diretto per molti anni le attività sul territorio di alcuni Dipartimenti di Salute Mentale dell’Italia centrale. Fino al 2008 è stato Primario psichiatra (S.P.D.C.) dell’Ospedale di Tivoli (Roma). Analista Didatta dell’Associazione Italiana di Analisi Mentale di Roma LAIAM (Learning Associazione Italiana di Analisi Mentale) fondata da Ignazio Majore, svolge attività di psicoterapeuta. Nel 2008 è stato nominato, con decreto del Ministro dei Beni Culturali, Accademico lancisiano. È autore di numerosi articoli pubblicati su riviste specialistiche. Ha pubblicato Corrispondenza negata, raccolta di lettere di ricoverati nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra alle famiglie (Pacini); Cannibalismo ed evoluzione. Un’ipotesi sull’origine della coscienza (Armando, 2006); Funzione del padre e psicosi (Armando, 2008), Psicopatologia antropologica (Edizioni Universitarie Romane, 2008).
LanguageItaliano
Release dateMay 1, 2015
ISBN9788860222411
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    Book preview

    Pericolosità del malato di mente - Volfango Lusetti

    Prefazione

    Ho già avuto modo in passato di presentare un libro di Volfango Lusetti, psicoterapeuta che di solito si occupa di tematiche alquanto diverse da quelle di tipo normativo ed organizzativo, ovvero in prevalenza psicopatologiche, antropologiche e comunque assai più teoriche e speculative rispetto a quelle psichiatrico-forensi, anche se spesso, con queste ultime, in vario modo intrecciate. È dunque per me interessante cogliere in questo suo ultimo lavoro un intento sensibilmente diverso: quello di fornire, partendo dalla sua lunga apprezzabile esperienza di psichiatra clinico e di dirigente apicale di servizi psichiatrici pubblici, oltre che un’analisi, una vera e propria presa di posizione (in verità molto organica e corredata da un complesso ed esauriente apparato critico) circa la situazione, per certi versi potenzialmente molto calda, venutasi a creare, quanto all’annoso tema della pericolosità sociale del paziente psichiatrico, con la promulgazione della legge n. 9 del 2012: una legge che di fatto abolisce gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ma che lo fa solo in quanto strutture murarie, lasciando in piedi, per il momento ancora irrisolti, i formidabili problemi scientifici e giuridici inerenti la pericolosità sociale.

    Da questo punto di vista, con questo libro sembra che si abbia a che fare con la decisione, quasi con la necessità interiore, da parte d’un autore che solitamente si occupa di tematiche molto diverse, di mettere per un momento da parte lo studio teorico dei problemi psicopatologici e di posare nuovamente, per così dire, i piedi in terra, stante una situazione che, a suo modo di vedere, potrebbe divenire rapidamente quella d’una nuova emergenza psichiatrica (la più cospicua, a suo giudizio, dopo quella successiva alla promulgazione, nel 1978, della legge 180).

    Il libro tuttavia, pur partendo da un’Introduzione che è anche una rapida, incisiva e magistrale carrellata su certi vizi storici della Psichiatria (e si direbbe, della Sanità) in Italia, prende poi quota, nel corso dei capitoli, distaccandosi dalla polemica iniziale e fornendoci, oltre che alcune possibili soluzioni concrete ai problemi della gestione giuridica, clinica ed organizzativa del paziente psichiatrico, un quadro veramente completo del problema concettuale della pericolosità del malato di mente, visto in tutti i suoi risvolti: storici, clinici, etici, giuridici, scientifici e politici.

    Interessante ed utile, al riguardo, il primo, breve capitolo clinico di rassegna delle patologie d’interesse psichiatrico-forense, e più ancora la storia del principio di non imputabilità fatta nel secondo capitolo: una storia attraverso la quale l’autore ci conduce passo passo, quasi portandoci per mano, fino a fornirci a poco a poco alcuni strumenti concettuali che, procedendo nella lettura, si rivelano in grado non solo di consentirci di affrontare (cosa che viene fatta ampiamente nei capitoli quarto, quinto e sesto), ma addirittura di decostruire e di analizzare in profondità, nella loro genesi storica e nel loro meccanismo di funzionamento interno, tutti i principali concetti medico-legali di cui ci serviamo in Psichiatria Forense: imputabilità, capacità civile, pericolosità sociale intesa come concetto giuridico, pericolosità dal punto di vista clinico e sua possibile prevedibilità.

    Particolarmente interessante, poi, è il discorso sul tema del libero arbitrio contenuto nel secondo capitolo: in esso l’autore ci mostra come molti dei dilemmi attuali (quello, ad esempio, fra chi propugna una responsabilità sociale, collettiva ed oggettiva per la punizione dei crimini che sia basata sulla valutazione scientifica delle caratteristiche biologiche dei loro autori e chi resta invece ancorato al principio classico della responsabilità morale ed individuale, oppure quello fra chi vorrebbe mantenere il principio della non imputabilità e chi lo vorrebbe abolire, o ancora quello fra chi non vuole che in ambito clinico si parli di pericolosità ma solo di necessità clinica di cura e chi invece trova questo approccio troppo paternalistico ed in definitiva lesivo del principio della libera adesione alle cure) abbiano le loro radici assai lontano: prima ancora che nelle secolari differenze culturali esistenti fra paesi protestanti e cattolici, nell’antichità classica, ed addirittura nelle consuetudini tribali, imperniate sul principio dell’oggettività della colpa, da cui la stessa civiltà classica emerse, facendosi portatrice di visioni completamente diverse ed imperniate sul concetto di individuo, più di duemilacinquecento anni fa.

    Utile, infine, ho trovato la trattazione svolta in Appendice sul tema, quanto mai attuale (ed eminentemente clinico, nonché organizzativo-gestionale) del paziente difficile: un argomento di sicuro interesse, che completa degnamente questo bel libro e che contribuirà sicuramente a renderlo bene accetto sia agli psichiatri clinici (cui esso è principalmente rivolto), sia agli stessi psichiatri forensi, cui potrà offrire una visione diversa ed utilmente complementare dei problemi quotidiani con cui sono abitualmente chiamati a confrontarsi.

    Vincenzo Mastronardi

    Roma, Febbraio 2013

    Introduzione

    Lo scopo di questo breve saggio è fornire un panorama, agli operatori psichiatrici e ad un pubblico più vasto, delle problematiche giuridiche e scientifiche inerenti la pericolosità clinica del malato di mente, la sua pericolosità sociale (che è essenzialmente un concetto giuridico), la sua imputabilità e la sua capacità civile, ed anche proporre una riflessione più generale sulle prospettive legislative ed organizzative dell’assistenza psichiatrica in Italia, poiché queste ultime, al tema della pericolosità del malato di mente, sociale o clinica che sia, appaiono strettamente intrecciate.

    L’Italia non è certo il primo né l’unico paese al mondo ad essersi mosso nell’ottica d’un superamento dell’istituzione manicomiale: lo Stato della California, alcuni decenni fa, sotto la guida di Ronald Reagan all’epoca suo governatore, con una notevole quota di cinismo e d’avventurismo chiuse rapidamente gli Ospedali Psichiatrici, e lo fece perchè mosso assai più da ragioni economiche che giuridiche o etico-morali.

    Ma potrebbero essere fatti anche molti esempi storici di tutt’altro segno, sopratutto per quanto riguarda l’Europa: primo fra tutti quello della cosiddetta Psichiatria di Settore francese, la quale fin dagli anni Sessanta del Novecento, pur partendo dall’Ospedale Psichiatrico e facendo perno su di esso, si proiettava su una fetta del territorio circostante, ispirandosi così ad un genuino intento riformatore ed umanitario.

    Oppure si può ricordare la meritoria e ormai classica Psichiatria di Comunità inglese basata sull’assenza di metodi costrittivi e sull’educazione, la cui pratica è nata addirittura nella prima metà dell’Ottocento e risale a John Conolly.

    Del resto al giorno d’oggi anche la maggioranza degli altri paesi occidentali, pur non avendo abolito gli Ospedali Psichiatrici, sta ormai orientandosi culturalmente su un modello d’assistenza psichiatrica alternativo ad essi, il quale s’impernia sul territorio, sull’inserimento lavorativo e sulla riabilitazione, sull’attività ambulatoriale e sull’assistenza domiciliare.

    Però l’Italia è l’unico paese al mondo che, oltre ad avere superato i manicomi, ha conseguito, sul piano dell’assistenza psichiatrica, le due seguenti caratteristiche:

    a) quella di avere abolito ogni tipo di ricovero coatto di durata lunga o anche soltanto media: in particolare, nessun altro paese al mondo risulta fornire ai propri servizi psichiatrici l’indicazione perentoria, a prescindere dalla diagnosi e dalla prognosi, d’un così breve periodo di tempo (7 giorni) per ogni tipo di ricovero coatto. Il ricovero, peraltro, deve essere necessariamente effettuato in repartini di soli 15 posti letto (i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, o SPDC) i quali rendono difficilissima una corretta diagnosi, anche in relazione alla pericolosità, ed ancor più un adeguato trattamento, specie delle patologie più complesse e tali da richiedere un periodo di tempo più lungo: esordi psicotici, stati maniacali, stati depressivi gravi, disturbi di personalità con alto indice di conflittualità, insomma malati che spesso non accettano affatto d’essere valutati e trattati. Questi repartini psichiatrici, per di più, oltre a mancare come detto (sia in virtù delle loro ridotte dimensioni che della limitatezza del tempo a loro disposizione) ad un’ovvia funzione primaria di carattere diagnostico-terapeutico, dilatano a dismisura la spesa psichiatrica, impedendo, ancora una volta in ragione delle loro ridotte dimensioni, ogni economia di scala, e rendendo pertanto necessarie costose ed inutili convenzioni esterne con Cliniche Psichiatriche private.

    b) quella di avere espunto dalla legislazione psichiatrica (persino da quella d’urgenza!) ogni riferimento alla questione della pericolosità del malato di mente non autore di reati, e conseguentemente, d’avere eliminato dalla professionalità dello psichiatra ogni competenza clinica sulla sua valutazione; e ciò è avvenuto per di più, come vedremo, lasciando in piedi l’intero impianto concettuale della pericolosità sociale nell’ambito della legislazione penale, la quale come è noto riguarda esclusivamente il malato di mente autore di reati.

    Ora, già questa contraddizione basterebbe a giustificare una profonda riflessione: in effetti, essa è così eclatante (ovviamente, o la pericolosità del malato di mente sul piano clinico esiste oppure non esiste, a prescindere dai suoi risvolti giuridici!) da avere dato luogo, recentemente, ad una fortissima spinta culturale, e soprattutto politica, ad eliminare uno dei due corni del dilemma: ciò è avvenuto, in particolare, tramite una tendenza all’estensione della riforma psichiatrica del 1978 verso la sfera del diritto penale, che ormai si avvia a realizzarsi con il graduale superamento, legislativamente già in atto, degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (quegli O.P.G. un tempo denominati Manicomi Criminali), ossia dell’unica forma d’internamento psichiatrico coatto di durata medio-lunga sopravvissuta in Italia dopo la rivoluzione basagliana.

    Su quest’ultimo punto, quello del superamento dell’attuale assetto degli O.P.G, bisognerebbe assolutamente evitare di ripetere gli storici errori in cui siamo caduti in Italia, sia nel 1975, all’epoca della riforma delle carceri minorili, sia più ancora nel 1978, all’epoca dell’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Provinciali ad opera della legge 180.

    A tale fine, occorrerebbe recuperare il concetto (abbandonato in Italia in conseguenza d’una supina, acritica ed opportunistica accettazione dei lati più discutibili ed utopistici dell’ideologia basagliana) che la pericolosità del malato di mente rappresenta un problema estremamente complesso, allo stesso tempo scientifico-antropologico e sociale (il che significa che una tale pericolosità, reale o presunta e fantasmatica che sia, produce inevitabilmente dei riflessi sul collettivo sociale, provocando la reazione, anch’essa violenta, di quest’ultimo nei confronti del malato di mente). L’idea oggi più di moda ritiene, al contrario, che il problema della pericolosità sia molto semplice, o meglio ancora un non-problema, un equivoco scaturito dal cosiddetto pregiudizio d’esclusione, quindi tale da richiedere risposte esclusivamente politico-ideologiche e predicatorie, fatte di lotta allo stigma e simili: conseguentemente, la bi-univoca interazione violenta fra malato di mente e collettivo sociale, da quel fatto oggettivo e drammatico, profondamente radicato e difficilissimo da superare che è nella realtà, si trasforma in un banale problema topologico, ovvero riguardante i luoghi materiali in cui questo stigma si materializzerebbe, cambiati i quali (o peggio ancora, cambiando il nome dei quali) cambierebbe tutto.

    Ora, in base a questo rozzo e semplicistico ragionamento (che potremmo definire, in termini tecnici, come frutto d’un basaglismo d’accatto, di per sé completamente estraneo alla grandezza del personaggio cui dichiara d’ispirarsi), esisterebbe, sembra, una sorta di malefico ed ineffabile genius loci della violenza il quale abita gli Ospedali Psichiatrici e che, in caso d’una loro chiusura, si rifiuterebbe tenacemente di abbandonarli.

    Fuor di metafora, ove ad esempio la degenza psichiatrica avesse luogo, anziché in grandi ospedali, in spazi piccoli, decentrati ed integrati con il territorio, essa diverrebbe automaticamente più umana e meno violenta, più gestibile sul piano clinico e più efficace sul piano scientifico, mentre ove avesse luogo in spazi più grandi, più separati ed allo stesso tempo più affollati, altrettanto automaticamente avverrebbe il contrario.

    È facile capire come questo modo di vedere sia tipico di quella mentalità sciatta e pressappochista, facilona ed irresistibilmente incline alle scorciatoie che ci caratterizza, più in generale, come sistema-paese: in particolare, esso ci consente di cavarcela assai a buon mercato, ossia d’evitare accuratamente di affrontare tutti i formidabili nodi teorici e pratici che il proposito d’una gestione non violenta della malattia mentale pone, o dovrebbe porre, a degli addetti ai lavori seri, o minimamente avvertiti, e soprattutto colti: infatti comporta la presunzione di poter formulare delle proposte pratiche d’una qualche utilità partendo dall’idea, assolutamente reificante e metafisica, che il problema della violenza del malato di mente (e quello, ancora più reale e grave, della violenza esercitata dalla società sul malato di mente stesso!), nasca quasi per magia dai luoghi materiali ove tale violenza avviene o dal nome di essi (si ricordi la famigerata espressione di stampo basagliano comportamento manicomiale, usata per designare la violenza in vari modi connessa con il paziente psichiatrico); o ancora, che nasca dalle caratteristiche personali e contingenti delle persone che la esercitano (operatori, si presume, intrinsecamente cattivi e reazionari); insomma, da tutto, si direbbe, fuorché da modalità culturali più generali e profonde della nostra civiltà, o dall’interazione negativa ed enigmatica che da sempre, in vari modi, avviene fra società e malattia mentale (un vero e proprio mistero antropologico verso il quale occorrerebbe nutrire non già la faciloneria e la baldanza che il più delle volte vanno per la maggiore, ma curiosità scientifica, cautela e rispetto).

    Tra l’altro, l’esperienza psichiatrica ormai trentacinquennale fin qui compiuta (ma in Italia, come si sa, la memoria non esiste, e dunque non si fa mai tesoro dell’esperienza trascorsa!) dovrebbe avere insegnato ad abundantiam come una tale presunta equivalenza fra i luoghi, i loro nomi e le persone concrete che agiscono violenza sul malato di mente da un lato, e la violenza stessa dall’altro lato, non sussista affatto: e ciò per il semplice motivo che il problema della gestione della violenza in Psichiatria è anzitutto tecnico e di capacità professionale (ossia di allenamento, di organizzazione e di preparazione specifica dei servizi ad erogare risposte complesse ad un problema socio-antropologico profondo e difficile), non certo un problema di luoghi, di nomi e di persone (i quali hanno certo la loro importanza, ma solo in un’ottica molto più ampia).

    Anzi, come l’esperienza ha dimostrato, il dare per scontata l’equazione assurdamente semplicistica, coniata più di 40 fa da Erving Goffman, istituzione=violenza porta dritto diritto, almeno in molti casi, alla creazione di non meglio precisati spazi alternativi di degenza che, malgrado siano spesso più piccoli e decentrati nonché dotati del tanto sospirato diverso nome rispetto a quello vecchio di Istituzione Manicomiale, nel caso peggiore riproducono su scala più piccola ed in peggio (perché ancora più al di fuori d’ogni possibile controllo!) proprio quelle dinamiche violente di tipo manicomiale che si proponevano di evitare (è questo il caso di molte delle strutture private piccole e decentrate attualmente al centro di numerosi scandali), e nel caso migliore costituiscono delle realtà tecnicamente non funzionali ai loro scopi ed economicamente dispendiosissime, nonché alla lunga insostenibili dal Servizio Sanitario Nazionale (è il caso purtroppo, almeno nel loro complesso, degli attuali Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura o SPDC).

    Un superamento dell’attuale assetto degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, beninteso, appare effettivamente necessario (così come lo fu un tempo, per altre ragioni che vedremo in seguito, quello del Manicomio): ma ciò, a nostro avviso, più ancora che a causa del loro degrado materiale, o dell’incompetenza presunta di alcuni fra coloro che ci lavorano e della frequente disumanità dei loro trattamenti, a causa del fatto specifico che un tale degrado, una tale incompetenza ed una tale disumanità sono ferreamente consequenziali (e lo sono in forma prevedibile, quasi obbligata ed inevitabile!) ad alcune precise incongruenze giuridico-normative ed organizzative, le quali vanno assolutamente corrette (ma di cui la legge n. 9 del 2012, significativamente, non fa alcun cenno!).

    In particolare:

    1) andrebbe corretta l’assoluta carenza di strutture specializzate esterne di recupero le quali affianchino ed integrino (ed almeno per ora non sostituiscano!) l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario;

    2) andrebbe corretta la norma che prevede la possibilità d’una proroga (rinnovabile indefinitamente) alla degenza in O.P.G. che la prolunghi oltre i limiti del dispositivo dell’ordinanza di ricovero qualora le condizioni di pericolosità sociale del soggetto, a dire dei periti, giustifichino ciò; questa possibilità, infatti, vanifica completamente ogni possibile limite temporale alla degenza-detenzione in O.P.G. (o in strutture alternative ad esso!) il quale sia vincolante sia sul piano giuridico che tecnico-psichiatrico, e lo fa rendendo una tale degenza, in taluni casi, vergognosamente a vita a dispetto del principio della non imputabilità nonché dei limiti temporali alla degenza-reclusione del paziente psichiatrico autore di reati, limiti che oggi la legislazione comunque pone (attualmente la degenza in O.P.G. non dovrebbe, in teoria, superare i 10 anni per i reati fino all’ergastolo, i 5 per i reati puniti fino a dieci anni ed i 2 per quelli puniti fino ai cinque anni, ma nella pratica questi limiti vengono assai spesso largamente superati).

    Ora, per ovviare a questo, che è il vero ed attualissimo problema degli O.P.G. (ed anche l’unico realmente risolvibile nei tempi brevi), più che procedere ad una velleitaria, frettolosa e confusa abolizione degli O.P.G. stessi, come ci si sta orientando a fare, si sarebbe dovuto cominciare, assai più concretamente, con il prefigurare per tempo delle alternative ad essi, almeno al fine di prevenire questi scandalosi casi di mancata fine-degenza e di conseguente reclusione all’infinito: ad esempio, si sarebbe potuto stabilire (e si potrebbe farlo tuttora!) che qualunque degente in O.P.G., ove su richiesta del giudice (richiesta magari sollecitata dal Direttore dell’O.P.G., ma solo nei pochi e documentati motivi in cui ciò dovrebbe essere possibile!) venga riscontrato ancora socialmente pericoloso al termine del periodo di degenza previsto dal dispositivo giudiziale in base al quale è stato a suo tempo ordinato il ricovero, debba essere comunque dimesso e trasferito in strutture esterne, alternative all’O.P.G. ed opportunamente predisposte all’uopo, quali ad esempio poche e selezionate Comunità Terapeutiche altamente protette e specializzate, create appositamente ad hoc; contestualmente a ciò, il Direttore dell’O.P.G. andrebbe penalizzato in termini economici e di budget, insieme con la sua struttura, in proporzione al numero dei casi che

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