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Fuoco - Le cronache degli elementi
Fuoco - Le cronache degli elementi
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Fuoco - Le cronache degli elementi

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About this ebook

Al villaggio di Handgreen oggi è il Giorno Del Sole. Fra poche ore si apriranno le iscrizioni per le lotte degli elementi, tradizionali combattimenti che rievocano le storie di un'epoca ormai antica e Askanyo scalpita per correre in paese dai suoi amici a confrontarsi con loro. Ma per il villaggio di Handgreen oggi non sarà una classica giornata d'inizio primavera. Strani individui dall'aria innaturale si aggirano per le vie e c'è troppa gente nella piazza perché si tratti di una semplice coincidenza. Un gruppo di ragazzi strappati all'innocenza, antichi poteri sopiti da tempo che riemergono dalle ceneri di un'epoca ormai perduta. Assassini spregevoli, sacerdoti, guardiani leggendari. Sono solo piccoli elementi di una storia che vi porterà a emozionarvi fin dalle prime pagine, trascinandovi in un racconto impetuoso e mai scontato, dove ogni certezza sarà sempre affiancata dall'imprevedibilità della vita. Fuoco, primo volume della saga Le Cronache Degli Elementi, è un libro che vi appassionerà e vi farà riflettere, travolgendovi e facendovi immergere in un mondo vero, duro e crudo come solo la realtà stessa può essere.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 14, 2016
ISBN9788892632028
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    Fuoco - Le cronache degli elementi - Luca Traversari

    Handgreen

    Capitolo primo

    (Le cronache degli elementi)

    La brezza che attraversava la Valle Del Lungo Fiume, non era fresca e pungente come in ogni mattina di fine inverno ma tenue e dolce, tanto che il suo tocco si presentava piacevole e gentile. A Handgreen, infatti, questo quindici marzo stava donando tutti i suoi migliori pregi, senza farne presupporre in nessun modo alcuna mancanza. Il cielo, di un azzurro chiaro e assolutamente privo di nuvole, invitava a guardarlo da quanto era piacevole perdersi nei suoi limpidi colori. L’erba poi si mostrava di un verde talmente intenso, che alcuni provavano perfino a coglierla per essere sicuri fosse reale e non un’illusione provocata da chissà quale sortilegio. La cornice delle montagne con vette ancora ricoperte di neve costeggianti tutta la vallata, donava una lucentezza e splendore fiabesco con ai loro piedi gli alberi sempreverdi, che stranamente in modo così anticipato rispetto alla puntualità stagionale, non presentavano più da qualche giorno i rami ricoperti dalla neve come sempre era stato al quindici di marzo. Il tocco finale allo strano fenomeno climatico lo offriva il giallo sole, che oltre a essere caldo e piacevole, infondeva un senso di gioia e serenità, tanto che tutti gli abitanti di Handgreen avevano già da qualche giorno abbandonato i lunghi scialli e mantelli invernali, vestendo morbide sottovesti di cotone e giacche leggere dai colori sgargianti. Ora lì si poteva vedere lavorare, chiacchierare e perfino appisolarsi sotto i suoi intensi raggi, come stava facendo Smut.

    Questo individuo, era il tipico indigente senza tetto come se ne trovavano normalmente solo nelle grandi città. Esserlo però nel piccolo villaggio di Handgreen era un'altra cosa. Non che fosse il suo stile di vita a essere differente, ma l’affetto della gente col tempo lo aveva colmato di spensieratezza e cibo, tanto dall’essersi sempre rifiutato di lavorare, andando avanti con la bontà e le offerte dei cittadini. L’unico mestiere che gli si era visto compiere se lo si poteva chiamare così, era quello di ambasciatore del paese. Quando al villaggio arrivava una carovana di mercanti, egli vi andava sempre incontro scortandola fino alla grande piazza di Handgreen, affinché potesse sostare e imbandire il proprio mercato. Il suo aspetto all’apparenza era dei più conformi e alquanto semplice, se non per le particolari calzature. Fin dal giorno in cui era comparso due anni prima, infatti, aveva indossato degli stivali in pelle nera ricchi di fibbie e borchie anch’esse nere, non per il colore ma per lo sporco che avevano acquisito nel tempo, come qualche donna amava raccontare ricordandone il colore argenteo. Di questi stivali Smut non se ne era mai separato, probabilmente dovevano essere un regalo di una vecchia amante o di chi sa quale fanciulla ne avesse mai catturato il cuore, o forse più semplicemente di un ricco signore a cui aveva chiesto l’elemosina. Ormai però le donne del paese si erano stancate di offrirgli comodi mocassini vedendoseli rifiutare ogni volta, perciò avevano puntato su altro per cercare di agevolarne la precaria situazione. I pantaloni invece li aveva cambiati. Da quelli grigi con cui si era presentato, ora ne indossava un paio marrone senza buchi, cosa rara che gli era capitata dopo tanti tipi di calzoni offertigli ricchi di toppe e cuciture. Il soprabito era stato un dono dell’oste, lo aveva lasciato in taverna un viaggiatore molto scortese l’autunno precedente e dopo una settimana che non lo si era più visto tornare, il vecchio Soyer Spaller glielo aveva consegnato con estrema felicità del ricevente. Smut di corporatura era snello e muscoloso, con folti capelli lunghi e neri che s’intonavano perfettamente alle sopracciglia sottili ma appariscenti, come se fossero state disegnate con un pennello. Il viso era quasi coperto da una terribile barba che, sebbene orrenda, nell’insieme grottesco non ci stava così male. In sé appariva tuttavia come un bell’uomo, dai lineamenti gentili induriti dal freddo e dalle intemperie. Quello che rovinava il tutto era il suo stato sporco e puzzolente a cui nessuno riusciva ancora a fare l’abitudine. Inizialmente si era cercato di aiutarlo a trovare la via del Lungo Fiume, ma egli si rifiutava ogni volta qualcuno cercasse di convincerlo a immergersi nelle sue acque. Poi una notte, i cittadini più decisi del villaggio sentendosi in dovere di aiutarlo, riuscirono a coglierlo di sorpresa gettandoglielo dentro con la forza. Il fato gli diede ragione anche questa volta, infatti, egli cadde anziché nell’acqua limpida e purificante come ci si sarebbe aspettati, in una barca approdata poco più sotto di cui nessuno si era accorto. In seguito a questa vicenda Smut per qualche giorno sparì. Molti si preoccuparono perché tutto il paese gli era affezionato e si convinsero di avergli fatto un enorme torto. Se lui voleva vivere in quel modo, chi erano loro per giudicarlo? Così una volta ritornato fra la felicità di tutti, nessuno ebbe più il coraggio di dargli tormento. Smut quindi tornò alla sua vita da mendicante, godendo della carità altrui e riposando in un vecchio rudere in cui nessuno per via delle storie di fantasmi che vi erano legate, aveva più il coraggio di avvicinarsi già da molti decenni.

    Askanyo quella mattina così come ormai faceva da diversi anni, si svegliò all’alba per dirigersi con il padre Misor verso il loro piccolo gregge di mucche, tenuto diversamente dalle famiglie di Handgreen, in un casolare a poche centinaia di metri dalla loro abitazione. Questo perché sua madre Lulyar non ne sopportava l’odore sgradevole e i vari rumori notturni che comportava. All’inizio del loro matrimonio, questa vicinanza aveva provocato non pochi problemi, tuttavia dopo qualche litigata e mesi di fatica, Misor era riuscito a fabbricare quella comoda stalla lontano dal proprio nido d’amore. Il risultato non si era fatto attendere, infatti, era nato subito un paffuto e bellissimo bambino chiamato Askanyo e l’anno successivo non era stato da meno aggiungendo alla famiglia Georgyana, una splendida e dolce bambina che aveva reso felicissima la giovane Lulyar.

    «Padre! Oggi è il Giorno Del Sole e in paese come ben sai ci sarà festa. Non mi dispiacerebbe dopo le mie mansioni quotidiane poter andare al villaggio a svagarmi con i miei amici. Sai, dovrebbe esserci anche un piccolo mercato, o se non altro lo spero vivamente. Con queste belle giornate così in anticipo sulla stagione non dovrei sbagliarmi.» Askanyo sperava di essere lasciato libero almeno per il pomeriggio, avendolo la mattina Misor oberato di lavoro molto più del solito.

    «Ah si Askanyo? Lo speri? O lo sai per certo? Devo dire che sembri molto informato, nonostante sia ben una settimana che non esci da casa dopo la punizione inflittati da tua madre.»

    «E sì hai ragione ma sai, in questo periodo arrivano sempre le carovane e sto solamente tirando a indovinare.» con finta ingenuità rispose Askanyo, ricordandosi subito della sera precedente, che con la scusa di andare dal vicino di fattoria, si era allontanato fino al villaggio per giocare con i suoi amici.

    Misor voleva molto bene al figlio e non lo rimproverò per averlo scoperto. Egli non si era mai opposto alle decisioni molto ingiuste della moglie nei confronti del ragazzo, eppure non esitava alle volte a lasciar correre quando Askanyo sgarrava dalle dure limitazioni di Lulyar. Così, non solo non lo ammonì avendo scoperto il suo segreto, anzi gli consigliò di stare più attento, altrimenti avrebbe passato molti guai in futuro, specialmente con la propria madre.

    «Sicuro che puoi uscire, ci penserò io a parlare con la mamma. Le racconterò che sei andato a prendere delle attrezzature per la stalla, quindi quando tornerai porta qualcosa. Mi raccomando qualsiasi cosa, tanto Lulyar non ne capisce nulla di tutto questo.» rispose con malinconia, creando un gran cerchio con le braccia tanto da inglobare l’ormai vicina costruzione che gli era costata molta fatica, solo per soddisfare un capriccio della sua amata.

    «Sai alle volte cerco ancora di comprendere perché si sia innamorata di me. Un semplice pastore per quanto benestante, con una piccola fattoria e solo una casa da offrirle. Come ben sai lei era la figlia del sindaco di quel tempo e l’ambizione di suo padre l’aveva portato anche ad affiancare il De nobile davanti al proprio cognome sfidando tutte le regole, con la scusante che i suoi avi erano stati signorili e avevano posseduto mezza vallata centinaia di anni prima. Non capisco come abbia fatto a non prendere provvedimenti a quel tempo nei confronti della figlia, scoraggiandola a imbarcarsi in una situazione per lui così disonorevole.»

    «Sicuramente rivedendo la cosa oggi, non avrebbe avuto tutti i torti il nonno. Anche se siamo felici e non ci manca nulla, il suo progetto di far tornare lo status della famiglia a quello di un tempo è fallito il giorno che la mamma ha deciso di sposarti. A me comunque non dispiace per niente la mia vita, anzi non la cambierei con nessuno al mondo». Lo interruppe Askanyo cercando di sdrammatizzare la situazione, essendosi suo padre molto incupito.

    Misor, sordo a quello che aveva in ultimo detto il figlio, era rimasto concentrato nelle sue riflessioni e continuò inesorabile da dove era stato interrotto. «Tuo nonno era molto ricco e alle volte credo che tua madre mi abbia sposato solo per fargli torto. Alla fine il vecchio Desanson donò ai poveri ogni suo avere quando morì, questo sembrò quasi per fare ammenda della vita ambiziosa che aveva trascorso, piuttosto che per vendicarsi di Lulyar. Accadde pochi anni dopo la tua nascita, ma la cosa più triste che quell’atto così caritatevole nei confronti dei meno abbienti provocò, fu una notevole ingiustizia nei confronti non tanto di tua madre, che ormai non intratteneva più buoni rapporti con il nonno da qualche tempo, ma in quelli della nonna. Questo, infatti, la lasciò completamente in miseria, tanto che fu costretta a rivolgersi a noi umiliandosi, per non morire di stenti. Ovviamente tale situazione, insolita allo stato precedente a cui era abituata, la stravolse a tal punto che non rimase con noi per un periodo molto lungo. Se forse ti ricordi ancora, quando avevi cinque anni lei morì, non so quanto serenamente, anche se non ci diede mai modo di dubitare che fosse in pace con il nonno».

    Askanyo quella triste storia l’aveva ormai sentita molte volte. All’inizio l’aveva presa alla leggera così come qualsiasi figlio avrebbe fatto sentendo il padre non credere pienamente nell’amore della propria madre. Col tempo poi crescendo, maturando e accorgendosi anche della freddezza con cui vedeva sua madre trattare lui e il padre, aveva iniziato a crederci e ormai rimaneva in silenzio quando Misor ritornava sull’argomento mostrandosi triste.

    «Bene Askanyo ora mettiamoci al lavoro.» esclamò Misor con rinnovato vigore appena arrivarono in prossimità della stalla. «Altrimenti non finiremo mai per l’ora di pranzo. Non vorrei mai che ti perdessi l’occasione di vedere uno dei primi mercati di marzo, ed oggi non è forse la festa del sole? Anch’io voglio riposarmi, me lo sono meritato e credo che me ne starò un poco in disparte qui intorno. Non tornerò a casa subito. Magari mi dedicherò a un bagno nel fiume e una pescata, così Lulyar non potrà dire che ho perso tempo. Giusto figlio mio? E poi da qui al pascolo vi è la distanza giusta per sfuggire alla mamma.»

    «Giusto papà! Puoi dirlo forte. Al lavoro allora». Proruppe Askanyo con gioia per la complicità del padre.

    Così entrambi si misero all’opera nel mungere le mucche, pulire la stalla, provvedere alle scorte di cibo del bestiame per tutta la giornata e indirizzare le vacche verso il pascolo privato della famiglia, che si trovava a poche centinaia di metri dalla stalla. La loro vita era spensierata e felice, Askanyo non chiedeva di più, anche se i suoi sogni come ogni giovane lo conducevano in grandi e lontane città, verso fantasiose battaglie dove si trovava al comando di enormi eserciti, vestito di tutto punto con armatura e spada scintillanti. Sapeva benissimo che queste sarebbero rimaste solo le illusioni di un giovane pastore e che la vita vera gli avrebbe riservato tutt’altre meno eccitanti avventure, ma questi erano i suoi sogni e lui amava sognare come tutti i ragazzi della sua età. Alla fine della mattinata quindi e non prima di aver consumato un veloce pasto a base di pane secco imbevuto nel latte e formaggio di mucca, Askanyo s’incamminò verso il villaggio di Handgreen.

    «È bello essere giovani.» sussurrava fra sé il vecchio Misor mentre guardava suo figlio allontanarsi. «Ciao Askanyo! Divertiti anche per me!». Urlò con nostalgia.

    Ormai però il ragazzo si trovava troppo distante per udirlo, quindi s’incamminò verso il fiume tenendo sempre un occhio ai suoi preziosi capi, con cui avrebbe passato qualche ora in solitudine e tranquillità, lontano dalle grinfie della moglie Lulyar.

    Intanto al villaggio la vita e l’aria festiva del Giorno Del Sole era già incominciata da un pezzo. Il Giorno Del Sole era festivo come il Giorno Della Luna, che veniva subito dopo. Solamente che nel Giorno Del Sole si festeggiava dal sorgere del sole fino al tramonto, anche se i più la mattina continuavano nelle loro faccende recuperando la sera la parte che avevano saltato. Mentre nel Giorno Della Luna, la festività avveniva dal tramonto fino alla mezzanotte. La settimana intera era composta di sette giornate, il giorno primo, poi il secondo e così via fino al quinto e naturalmente a seguire quello Del Sole e Della Luna. Una settimana quindi era composta di sette giorni e un mese di quattro settimane (ventotto giorni) così un anno di trecentosessanta giorni. Rimaneva quindi un periodo chiamato Limbo di ventiquattro giornate, dove a Handgreen si onoravano i morti e si cercava di riposare il più possibile facendo lo stretto necessario. Questo intervallo cadeva alla fine dei dodici mesi e quindi si trovava in pieno inverno, cosa che aiutava molto a rispettarne l’ozio e il periodo di riflessione.

    «Lascia stare quel pontile! Non muoverlo razza di un incapace che non sei altro. Non vorrai mica ucciderci?». Urlò Filota a un suo apprendista operaio, mentre cercava di spostare con la forza un’impalcatura su cui era posto proprio lui. Questa tra l’altro si trovava già in bilico e in una posizione scomoda, situata però in modo che fosse per loro più agevole perfezionare un tetto, non riuscito al vecchio muratore morto il giorno prima.

    «Sì padrone, mi scuso, non credevo che… » accennò timidamente il povero Igor, quando nemmeno il tempo di finire la frase, che già Filota lo interruppe con aggressività.

    «Padrone un corno, razza di uno zoticone che non sei altro! Ti sembro forse il padrone di qualcuno io? Non vedi che ho la metà dei tuoi anni? E poi io odio i padroni e non voglio esserlo di nessuno. C’è già troppa gente al mondo che desidera quel titolo. Chiamami Filota, ma mai più padrone! Capito?». Concluse con aria più dispiaciuta che adirata rispetto all’irruenza con cui aveva incominciato.

    «Mi dispiace signor Filota, mi scusi.» si affrettò a dire Igor prima che si sentisse licenziare come in passato gli era già accaduto diverse volte. Non era un caso, infatti, che alla sua età fosse ancora un apprendista tuttofare.

    Filota era un ragazzo con un gran cuore, ma odiava le persone che tendevano a darsi uno status. Non disdegnava le regole, anzi era a favore di esse benché fossero rispettate da tutti. Non si riconosceva però nella struttura sociale del regno e chi conosceva la sua storia non poteva dargli torto. Erano ormai passati otto anni da quando a soli dieci si era ritrovato improvvisamente orfano, vedendosi nello stesso giorno imprigionare e condannare a morte il padre per un reato mai commesso e violentare e uccidere la madre dalle guardie contali, venute apposta dalla grande città più a sud, per portare la giustizia del signore della Valle Del Lungo Fiume. In realtà le intenzioni delle guardie erano prettamente di violentare la donna senza però ucciderla, ma per ironia della sorte, lei poco dopo essere stata stuprata, aveva colpito involontariamente un agente con una gomitata nello stomaco, mentre cercava di rimettersi in piedi con la minima dignità rimastale. La guardia sentitasi minacciata, non ci aveva pensato due volte a ucciderla sul posto con una pugnalata in pieno petto, rendendo quella giornata un completo abominio. Per Filota quella violenza era stata un duro colpo, ed era rimasto chiuso in se stesso per ben un anno, fino a quando si era ritrovato quasi per caso adottato da Misor Lander, che conoscendolo ormai per la triste fama fattasi a Handgreen, gli aveva proposto di entrare a far parte della sua famiglia finché avesse voluto. A casa Lander aveva conosciuto oltre alla nuova madre Lulyar e alla sorellina Georgyana, Askanyo, di solo un anno più giovane di lui e i due col tempo erano divenuti inseparabili, facendolo ritornare a vivere e a sorridere come un tempo. Misor e Lulyar su desiderio di Askanyo, così lo accolsero come un terzo figlio e lo crebbero assieme agli altri due senza mai fare differenze. Quando poi all’età di quattordici anni Filota ritornò nella sua vecchia casa essendo finito per lui il periodo della fanciullezza, tra mille difficoltà intraprese con l’aiuto di Misor e Askanyo, l’opera di ristrutturazione della sua dissestata abitazione e da lì si scoprì un bravissimo tuttofare.

    Filota ora era anche un ragazzo di diciotto anni di bell’aspetto, alto ben un metro e novanta con due spalle larghe come una montagna, un fisico muscoloso e ben definito, che attirava molti commenti e sussurri delle ragazze del villaggio. Sfoggiava oltre a due occhi di un marrone profondo e una chioma castana scura, una folta barba che gli contornava tutto il viso. Il naso si sposava perfettamente con il volto e nulla si trovava fuori posto. Insomma quello che la sventura gli aveva inflitto da piccolo, non si poteva dire che la natura non l’avesse compensato con il piacevole aspetto.

    Dove cavolo si è messo Askanyo, avrebbe dovuto già essere qui da un pezzo. Forse Lulyar l’ha costretto a restare a casa, ci potrei scommettere pensava Filota mentre cercava di sbrigarsi nelle mansioni, perché contava anche sul breve aiuto dell’amico per finire prima il lavoro e iniziare a festeggiare anche lui come aveva una gran voglia di fare.

    Il festeggiare significava per gran parte del tempo chiacchierare e compiere quelle ragazzate che si fanno da giovani, non pensavano certo alle ubriacature e stravaganze in cui s’immergevano invece gli adulti appesantiti dagli anni e dalla dura vita. Fortunatamente dopo circa mezz’ora, i suoi occhi intravidero in lontananza la figura di Askanyo Lander, che si avvicinava con passo sostenuto.

    Askanyo non era di certo alto come l’amico, ma neppure basso. Misurava circa un metro e ottantatré centimetri e questo gli permetteva di guardare dall’alto al basso una miriade di persone. Il suo fisico era lievemente asciutto ma atletico, le labbra sottili e poco pronunciate s’intonavano perfettamente a uno sguardo molto affascinante e allo stesso tempo furbo. Il naso poi era dritto e regolare e i capelli mostravano un castano biondo, che si abbinava meravigliosamente con la sua pelle spesso abbronzata per le lunghe giornate all’aperto, che con il suo mestiere era costretto a trascorrere.

    I due se presi assieme, apparivano come due bei ragazzi, questo tuttavia non significava fossero dei fenomeni con l’altro sesso, anzi tutto il contrario. Avevano diverse ragazze che spasimavano per entrambi, ma loro sempre indaffarati con il lavoro e a combinare guai, non vi avevano mai prestato attenzione. Si erano accorti di commenti vari e che alcune si ritrovavano spesso a rivolger loro la parola per motivi banali e futili, a loro però non interessava in questo momento mettere su famiglia e a quella giovane età, i sogni si rivolgevano a tutt’altro.

    «Ehi! Era ora che ti facessi vivo Askanyo. Sempre quando il lavoro sta per finire. Non ti smentisci mai vero?». Iniziò a urlare Filota così da raggiungerlo in lontananza con la voce, mentre agitava le braccia per farsi avvistare.

    Askanyo gli rispose con un grande sorriso, mantenendolo finché non gli fu a poco meno di un metro. «Allora fratello, come vanno le cose qui in paese? Sono già incominciati i giochi? Questa volta voglio vincere alla lotta del fuoco e battere Basion. Non ci sto che l’ultima mi abbia umiliato davanti a tutti! Per giunta in così poco tempo, che nemmeno mi sono accorto fosse iniziato il combattimento».

    «Sai com’è lui su queste cose». Sdrammatizzò Filota per non punzecchiarlo. «Quando c’è una competizione diventa tutta un’altra persona. Comunque credo che in quest’occasione ce la farai a vincere! Non ti preoccupare, al massimo gli do un colpetto io». Continuò non resistendo a prenderlo in giro sulla sconfitta subita mesi prima.

    «No grazie Filota ma non ne ho bisogno. Tu piuttosto pensa a vincere per la ventesima volta consecutiva nella lotta della terra, sempre che vi sia qualcuno disposto a sfidarti.» rispose in tono ironico Askanyo per non dargli soddisfazione, accortosi che lo stava palesemente provocando. «Sai una cosa? Non sopporto che Basion per competere con me nella lotta del fuoco, debba spegnere le punte del proprio bastone e scontrarsi senza che esse siano accese. Che razza di lotta del fuoco è senza fuoco? Non trovi? Che me ne importa se non ho ancora l’età per questo, manca solo un anno al compimento del mio diciottesimo compleanno. Trovo questa regola inutile e soprattutto sprezzante nei confronti dei più giovani. Sembra quasi che sia stata fatta per ricordare ai ragazzi che saranno sempre considerati come bambini e non diventeranno mai uomini.» gli disse mentre insieme si avviarono verso una fontana vicina in cui dissetarsi.

    La lotta del fuoco era una sfida fra due individui, combattuta dentro un perimetro a forma di stella a sei punte. Si partiva dal centro e vinceva chi riusciva a spingere con i colpi l’avversario in una di queste. Ovviamente non si poteva uscire dalle linee che delimitavano il ring e ogni uscita era punita con la perdita di una punta. Se uno però era così in gamba da atterrare il suo rivale facendogli toccare terra contemporaneamente con le gambe e mani, l’incontro si concludeva all’istante. I due combattenti impugnavano un bastone lungo al massimo la loro altezza, ed esso veniva infuocato in entrambi i lati. Quest’ultima pratica, era comunque vietata ai giovani al disotto dei diciotto anni. Quindi un ragazzo di età superiore, se voleva combatter con uno più piccolo, doveva non accendere il suo bastone abbassandosi e non era solo un modo di dire, al livello dell’avversario. Questo logicamente faceva infuriare i più giovani, ma era la tradizione e non vi si poteva fare nulla.

    La lotta della terra invece, era un’arte molto più complessa combattuta su un ring circolare. I due contendenti si disponevano su lati opposti alle estremità del cerchio. Al via del giudice, essi si affrontavano con prese, morse e tutta la forza bruta cui disponevano. Erano vietati calci, morsi e pugni, oltre alle testate, graffi e diavolerie varie. Si utilizzava, infatti, una vera e propria tecnica di lotta complicata e temibile se la si conosceva in profondità e oltre a essere molto piacevole da vedere, sprigionava una vera e propria energia che contagiava sempre l’intero pubblico. Vinceva chi atterrava l’avversario per tre volte riuscendolo a bloccare per cinque secondi e il tutto doveva svolgersi in conformità a queste regole. Nei millenni tale tipo di lotta si era affinata molto, tanto che era divenuta la più complessa.

    Filota ne era diventato un esperto, perché il padre essendone stato un campione in gioventù, gli aveva insegnato la tecnica fino a che era rimasto al suo fianco. Filota, quasi fosse quello l’unico ricordo rimastogli del genitore, aveva continuato con perseveranza e dedizione ad allenarsi divenendone un esperto. Quando successivamente poi si era ritrovato a vivere da solo alla giovane età di quattordici anni, dopo essere ritornato nella sua casa natale dall’ospitalità della famiglia Lander, si era riscoperto un campione tutte le volte che aveva dovuto affrontare le calunnie degli altri ragazzi del paese e anche quelle di molti genitori, disprezzanti la memoria della sua famiglia. Il ricordo del crimine cui era stato accusato il padre, purtroppo era costato molte ingiustizie a Filota e la sua solitaria gioventù non era stata semplice una volta che la protezione dei Lander era venuta meno. Ormai però Filota era riuscito a farsi apprezzare anche come lottatore oltre per i suoi lavori manuali, grazie anche ad Askanyo, che mesi addietro l’aveva convinto a partecipare alla lotta della terra, divenendone l’indiscusso campione.

    «Sai qual è il tuo problema Askanyo?»

    «Sentiamo mio saggio amico. Cosa mi rimproveri questa volta?»

    «Che non ti applichi aspettando sempre che capiti qualcosa e che vada tutto per il meglio senza dover fare nulla. Non è così. Ci vogliono sacrifici per raggiungere dei risultati e tu sai di cosa sto parlando. Io ho studiato fin da quando ero in fasce con mio padre la lotta della terra e faccio pratica ancora oggi nonostante sia il campione. Ogni giorno mi alzo la mattina prima del sorgere del sole per allenarmi e il risultato è che da diverso tempo qualcuno non mi dà più fastidio in alcun modo, ricordi vero i problemi che ho dovuto affrontare quando ho iniziato a vivere da solo?»

    «Si Filota, ricordo tutto perfettamente.»

    «Adesso invece la gente mi rispetta e mi saluta addirittura». Guardò con aria triste l’orizzonte, quasi cercasse lì delle risposte. Poi con aria saggia continuò «Sai la vita mi ha insegnato che bisogna stare sempre in guardia e farsi trovare pronti. Tu invece quante lezioni hai saltato con il maestro della lotta del fuoco che tuo padre paga con molti sacrifici? Troppe e ora perdi da uno che magari se ti fossi applicato con determinazione, per lo stesso tempo impiegato per saltare ogni allenamento, potresti battere con un dito». Filota sapeva che in cuor suo Askanyo non avrebbe avuto alcuna possibilità di sconfiggere Basion, ma non voleva mostrare indecisione sulle capacità dell’amico e soprattutto ci teneva a infondergli la fiducia necessaria, a non farlo sfigurare troppo durante l’incontro.

    «No ti sbagli non è così». Sbottò Askanyo con stizza, poi iniziò a stringersi i polpastrelli e con aria sincera riprese il discorso. «Anzi da un certo senso è vero. Non mi è mai piaciuta questa disciplina e gli addestramenti li ho sempre fatti con noia tanto per esercitare qualcosa. Credo di non essere portato per questo tipo di combattimento. Sai comunque qual è il vero problema? È che non mi va giù che Basion si dia tutte quelle arie le volte che mi vede. Mi stuzzica sempre prendendomi in giro. Siamo amici, non dovrebbe comportarsi in questo modo e la cosa m’infastidisce perché so che è vera». Gli occhi di Askanyo trasudavano ambizione e sincerità allo stesso modo, poi in un attimo, forse ripensando che magari Basion non vi dava lo stesso peso, si mostrarono ricchi di malinconia. «Mi basterebbe vincere una sola volta, non chiedo altro, almeno per farlo cessare con gli sfottò. Mi basta solo una volta». Askanyo si fermò riflettendo sull’argomento, poi con rinnovato vigore e con l’espressione piena di felicità, continuò il suo dialogo con il paziente Filota. «Comunque ti comunico che nell’ultimo periodo mi sono allenato e non poco, quindi non perderò oggi. Te lo garantisco.»

    «Bene se lo dici tu, ci credo!» rispose Filota non molto convinto delle parole dell’amico. «Che ne dici di andare a mangiare qualcosa proprio alla sua taverna? Dovrebbe avere quasi terminato il turno per oggi.»

    «Ma sì. Alla fine siamo sempre amici, anche se mi prende in giro. Giusto fratello?»

    «Esatto».

    Fin dal primo mattino, a Handgreen erano arrivati alcuni mercanti dalle grandi città. Era normale in questo periodo, la primavera si trovava alle porte e le strade stavano tornando a essere percorribili dopo le imponenti nevicate invernali. Oltretutto già da un paio di settimane aveva smesso di piovere e la temperatura sembrava essere più calda degli anni precedenti. Ovviamente in paese ne erano tutti felici, i traffici dopo la pausa invernale avevano ripreso il loro corso, non essendo questo il primo fine settimana che in paese erano giunte carovane, ed i bambini potevano starsene all’aria aperta a giocare, senza che i genitori li controllassero, troppo impegnati a far riprendere vita al villaggio. Handgreen era sì un piccolo villaggio della Valle Del Lungo Fiume, ma il vantaggio rispetto a un qualsiasi villaggio di montagna, era che disponeva di una grande piazza per il mercato. Essa si presentava con una forma circolare molto ben strutturata e soprattutto, cosa di non poco conto, era tutta piastrellata senza che vi fosse un solo punto in cui si trovasse della nuda terra. Questa appariva come una cosa rara da trovare nei dintorni, dove le piazze erano al massimo formate da terra battuta e qualche sassolino. Anzi i piastrellami solitamente venivano utilizzati nelle grandi città e di queste lì intorno non ve ne erano. Al centro vi era un’ampia fontana alimentata dall’acqua proveniente dal fiume e vicino a essa, si stanziavano varie postazioni per i carri e le bancarelle dei mercanti. Il tutto era disposto in modo sempre circolare, lasciando uno spazio fra i vari carri per questioni di logistica e in alcuni punti dei passaggi per permettere alle persone di muoversi agevolmente. In totale vi erano cinquanta postazioni messe su due strade circolari parallele. Difficilmente erano piene, ora il mercato non era più quello di secoli prima, quando decine e decine di carri arrivavano ogni mese e si cercava di infilarli in ogni buco creando così una pianta molto diversa da com’era stata progettata. Handgreen, infatti, aveva conosciuto un passato florido, ma poi le guerre antiche avevano cambiato tutte e l’unica cosa che rimaneva di quel grandioso tempo, era proprio la grande piazza piastrellata con la sua marmorea fontana centrale.

    Smut il barbone del paese, in questo periodo era iperattivo. Non si era perso nessuno dei carri giunti in paese, parlando con tutti i conducenti e accompagnandoli prima all’ufficio di rappresentanza del villaggio, che assegnava le varie locazioni all’interno della piazza e poi fino a quest’ultime. Infine, molto soddisfatto, era ritornato con una piccola mancia sempre nella sua precaria postazione all’ingresso della città, vicino alla casa infestata dai fantasmi. Non che gli servissero molto quei due soldi di rame che spesso gli davano, ma almeno ci poteva comprare un tozzo di pane.

    Quando Askanyo e Filota arrivarono alla piazza del mercato, per poi entrare nella locanda del padre di Basion, videro Smut indaffarato a parlare con un mercante in modo molto vivace, cosa che fece scappare loro un burlesco commento, essendo Smut solitamente non molto socievole con il prossimo. Non si era mai visto scambiare, infatti, che poche parole prima di allora con i suoi interlocutori. Comunque l’argomento durò solo un secondo e i due entrarono finalmente nella Locanda Del Sole.

    La costruzione si trovava nel centro esatto del paese in un palazzo antico, da poco rattoppato dai lavori che Filota saltuariamente faceva alla famiglia Spaller. Il tutto era composto di cinque livelli compreso il sottotetto e misurava circa quindici metri di larghezza e otto di profondità. Non era quindi né grande né piccola, forse per Handgreen però era perfetta, tanto che nessuno ricordava un periodo in cui fosse rimasta chiusa o ve ne fosse stata aperta un’altra a farle concorrenza. All’interno la Locanda Del Sole era molto rustica. I muri di mattoni erano stuccati in parte e le travi di legno, che percorrevano i tetti per tutta la loro lunghezza, le donavano una sensazione di antico che le si addiceva molto. Il piano terra era tutto aperto a parte i servizi vari e i magazzini, mentre al primo piano fino al terzo vi stavano le camere per i viandanti e a seguire quelle private della famiglia Spaller.

    Quando i due entrarono, videro Soyer e Angeli Spaller, rispettivamente padre e madre di Basion, indaffarati a spazzare e a sparecchiare le tavole della sala grande. Mancava invece il figlio che a prima vista non si trovava, così i due si avvicinarono a Soyer per chiedere informazioni su dove fosse finito il loro amico.

    «Che il sole possa splendere in eterno Signor Spaller.». Esordì Filota com’era di consueto fare con le persone a cui si voleva rendere omaggio e soprattutto adulte.

    «E la luna non tramontare mai figliolo mio.» rispose l’uomo nella più viva tradizione. «Cosa vi porta ragazzi nella mia locanda?». Continuò con modi più normali, lasciandosi alla sua classica voce gutturale che ne tradiva il vizio di fumare molto tabacco e la passione innata per le grandi bevute.

    «Io e Askanyo stavamo cercando Basion per gareggiare nella lotta del fuoco che si terrà oggi, ma entrando non lo abbiamo notato. Forse si starà allenando come fa sempre più di frequente.»

    «Oh no, no, non credo proprio mio caro Filota. Questa volta lo troverete invece in magazzino a sistemare i prodotti che ho comprato dai mercanti appena arrivati». Detto questo Soyer si rabbuiò per un secondo e con tono preoccupato continuò. «Ma non sarai mica tu a doverlo affrontare? Se è così, ti prego di non fargli troppo male, è una testa calda ma mi dispiacerebbe che se la rompesse.»

    Filota a quest’ultima affermazione non poté fare a meno di lasciarsi scappare un sorriso. Poi con molta gioia per il complimento ricevuto ma pronto quasi a scusarsi per l’incomprensione, continuò «No. Non preoccuparti Signor Soyer, non sono io a dover affrontare tuo figlio e comunque non riuscirei a batterlo con un bastone in mano. Askanyo vorrebbe sfidarlo, quindi non ci sono motivi per cui ti debba impensierire.»

    «Come?». Ribatté Askanyo al fianco di Filota esuberante. «In queste ultime settimane mi sono allenato molto e riuscirò a batterlo. Ne sono sicuro!»

    «Askanyo con tutto il rispetto che ti porto, non sei molto bravo nella lotta del fuoco.» rispose Soyer con tono paterno per non ferirlo. Poi scordandosi i suoi buoni propositi si lasciò inorgoglire dal talento del figlio e ridendo continuò in un discorso che lasciò Askanyo offeso. «O almeno! Mio figlio lo è molto più di te, comunque sono contento che ti tenga allenato, così forse un giorno riuscirai veramente a batterlo e non per finta come certamente sarà accaduto più volte.»

    «Suvvia amico, non te la prendere. Lo sai anche tu che in cuor tuo le cose stanno in questo modo. Non ci fare caso. Soyer, puoi dire a tuo figlio che siamo alla fontana centrale della piazza, così appena ha finito può raggiungerci?». Proseguì Filota frapponendosi, per non creare una lite che non avrebbe fatto altro che inasprire la visita.

    «Senz’altro ragazzi. Non vi preoccupate. Non tarderà molto, credo che fra pochi minuti arriverà.»

    Così i due uscirono dalla locanda e si avviarono in mezzo alla piazza, ma nel tragitto furono colpiti dal notare Smut che, anche in questa circostanza chiacchierava molto amichevolmente con un altro mercante. Una volta era strana, ma due sembravano assolutamente assurde e i due amici dimenticarono incuriositi da questa novità, la piccola discussione avuta con il padre di Basion. Forse il povero barbone del paese era finalmente impazzito come pronosticavano in molti ormai e questo poteva essere davvero successo, dato che vivere nella sua situazione non era semplice. Comunque la cosa non fece loro cambiare direzione per investigare in modo più approfondito e si diressero come da programma ai bordi della grande fontana, dove si poteva stare comodamente seduti a osservare la vita gioiosa e festiva lì intorno. In quella giornata vi erano, infatti, molte carovane e stranamente da ogni più rosea previsione, le cinquanta postazioni presenti risultavano piene per la metà abbondante. Era una cosa da non credere, questo di solito capitava raramente e mai in quel periodo.

    Ogni mercante era fatto a suo modo, c’era chi vendeva direttamente dal carro avendo un lato di questo che si ribaltava, che gli rendeva possibile evitare di esporsi troppo alla gente, rischiando meno furti dovuti dall’avere un ampio spazio espositivo. Diversamente invece erano organizzati i mercanti del sud, questi occupavano ogni metro libero con le loro bancarelle pieghevoli e il carro serviva solo come magazzino, essendo, infatti, le bancarelle a formare il vero e proprio negozio. Infine vi era anche qualche venditore dell’ultima ora, che si aggregava con poca mercanzia, esponendola su un lenzuolo messo a terra senza troppi fronzoli. Il mercato era molto stuzzicante da vedere, si potevano notare tendaggi dai colori più sgargianti, capi di ogni tessuto e varietà, vi era addirittura chi vendeva spezie rare a peso d’oro. Solitamente non vi erano numerosi clienti in quest’ultime bancarelle, ma ai loro proprietari ne bastavano pochi e ricchi per chiudere la giornata in modo positivo. La cosa meno piacevole invece era il via vai incessante di persone e il trambusto che ne derivava. Ovviamente i compratori parlavano e si muovevano, i venditori urlavano e cercavano di accalappiarsi più clienti a suon di offerte e grida delle più assurde. Il caos era palese agli occhi di un osservatore esterno, ma la cosa buffa era che per una persona trovatasi invece all’interno di quella bolgia, ogni cosa era di visione semplice e stava proprio nel posto in cui doveva trovarsi.

    La fontana posta nell’esatto centro della piazza, era una vera e propria scultura con quattro statue ai lati e una centrale a dominarle, inoltre nonostante la sua secolare età, era ancora di un bianco lucente che risplendeva sotto la luce dei raggi primaverili del sole. I marmi usati nell’epoca antica erano di una qualità imparagonabile e la successiva lavorazione li aveva resi incantevoli. Molte di queste tecniche si erano perse nei secoli e ogni volta che s’incontravano dei residui di quell’età, non si poteva fare altro che meravigliarsi, rammaricandosi per non conoscerne più i segreti. Le sembianze degli uomini raffigurati nelle sculture nessuno si ricordava a chi appartenessero o se di pura fantasia, ma l’allusione ai cinque elementi era così palese, che Askanyo e Filota non potevano negare di conoscere cosa significassero. Al centro figurava Spirito, mentre ai lati Acqua, Terra, Fuoco e infine Aria, messi esattamente in corrispondenza dei punti cardinali di riferimento, cioè Fuoco verso nord, Acqua in sua opposizione, Terra a ovest e infine Aria. Gli elementi erano la base delle leggende antiche e si narrava che un tempo vi fossero quattro sette, Aria, Acqua, Terra e Fuoco appunto. Ognuna di queste sette aveva un organigramma preciso e sebbene nessuno se ne ricordava

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