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Ebook443 pages5 hours

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About this ebook

D.&B. ・Dante e Bea. Dannati e Beati. Demoni e Buoni. È la storia di un amore quasi impossibile tra due creature di natura completamente diversa. Un amore che per avverarsi ha necessità di grandi cambiamenti e radicali trasformazioni. Un amore che porterà uno dei due protagonisti a rinunciare a poteri e privilegi a lungo posseduti. Rinuncia che solo un sentimento forte e devastante può rendere accettabile. E questo amore si svolge in un mondo dove angeli accorrono a liberare l'ultimo anelito di vita degli umani, richiamati da una musica che riecheggia le trombe del giudizio universale. Un compito che questi esseri portano a termine dall'inizio dei tempi. Da dove provengono questi angeli? Dal Giardino, un luogo che potrebbe richiamare il Paradiso. E chi veglia su questo mondo? Tre individui: Pater, Spirto e Sato. Tre nomi che riecheggiano il Padre e lo Spirito Santo. Insieme a loro c'・Fero, ma solo perch・questi possa rimanere sotto il controllo degli altri tre. Infatti Fero altro non ・che l'angelo caduto sulla Terra millenni fa, dove ha creato disastri e quasi sottomesso l'intera umanit・ Ricondotto per miracolo al Giardino, per secoli ・rimasto ignaro di ci・che ・stato. Ma stavolta la distrazione dei tre conceder・a Lucifero di tornare. Il resto del Giardino ・un mare di oblio, dove coloro che lo abitano a stento hanno coscienza di s・ Fin quando restano l・ ma quando vengono richiamati sulla Terra tornano ad essere consapevoli. Dei loro poteri e dei loro limiti. Quindi, giudicando da quanto detto finora, si potrebbe dire che il genere del romanzo è, a dir poco, fantastico. Se non addirittura Fantasy. Ma i richiami alla realtà sono molteplici ed i sentimenti che popolano gli animi ed i cuori dei personaggi sono vividi e profondi. Molte delle regole che dominano la storia sono rievocazioni tramandate dalla religione o dal mito. Come gli undici secondi che occorrono all'anima per lasciare il corpo o molti dei personaggi che con il loro semplice nome testimoniano di ideali e fedi che hanno determinato l'esistenza stessa delle genti. Così, incontrare un Pietro che sulla Terra è stato pescatore ed ha conosciuto un tizio che si chiamava Gesù, non sembra strano più di tanto. E che questo Ges・sia entrato in qualche modo nel Giardino e che poi abbia fatto ritorno al suo mondo portando con s・nozioni e informazioni che poi, nel riferirle, la gente ha travisato o volutamente cambiato nel corso del tempo, sembra quasi il giusto seguito di ci・che ha disegnato il Destino, con la d maiuscola. La leggenda, allora, scopre le sue origini e spesso si manifesta, nuda e cruda, a volte estasiante, a volte contornata da tutta la sua banalità. Il libro, perciò, è dedicato a chiunque ami immergersi nella lettura. Lo stile sobrio e la lettura immediata ed accattivante catturano l'attenzione e trascinano la mente in una dimensione (anzi due!) surreale, eppure, in qualche modo, naturale, quotidiana. Cosicché chi legge possa lasciarsi catturare da quella magia che un buon libro deve sempre possedere: la capacità di sospendere l'incredulità e di fornire le ali per spiccare il più libero dei voli.
LanguageItaliano
Release dateOct 9, 2016
ISBN9788869823916
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    Book preview

    D.& b - Massimo Galiberti

     Massimo Galiberti

    D.&B.

    Cavinato Editore International

    © Copyright 2016 Cavinato Editore International

    ISBN: 978-88-6982-391-6

    I edizione 2016

    Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

    © Cavinato Editore International

    Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy

    Q +39 030 2053593

    Fax +39 030 2053493

    cavinatoeditore@hotmail.com

    info@cavinatoeditore.com

    www.cavinatoeditore.com

    Realizzazione ebook a cura di Simone Pifferi

    Indice

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    A chiunque.

    E a nessuno.

    Ognuno per sé.

    Inutile mentire, la frase della nostra epoca è questa: ognuno per sé

    Eppure più ci penso e più mi viene da dire che questa affermazione riguardi più l’essere umano che un dato periodo storico. L’uomo è egoista, egocentrico, accentratore. Perfino i santi, i mecenati, i vati… Ogni gesto, ogni comportamento è una stimmate dell’arroganza umana. Sono buono con te perché ciò un giorno mi porterà un vantaggio, sia esso la salvezza eterna, semplice gratitudine, o comunque un credito nei tuoi confronti. Ti dono qualcosa per averti in pugno, perché il futuro non sai mai cosa ci riserva. E nonostante ciò non critico. Tutt’altro. Inserisco me stesso per primo nella lista degli egoisti. Dirò di più: può crollare il mondo intero purché io sopravviva (e nell’io includo, naturalmente, le persone a me più care). Adesso vi guardo negli occhi ed attendo che anche voi ammettiate lo stesso. Mi pare di vedervi per davvero.

    «Ma no» sussurrate tra di voi, le labbra leggermente dischiuse «Figuriamoci.»

    Ma intanto la vostra mente, malgrado voi, corre dietro alla fantasia e, d’un tratto, vi ritrovate immersi in un mondo parallelo, stravolto da un più che probabile cataclisma naturale o dalla più misera e deprecabile azione di una massa di folli. Ecco che vi immaginate lì, scampati per miracolo ad una morte orribile, ancora tenacemente vivi e in compagnia di chi? Del vostro commercialista?

    State facendo l’elenco, non è vero? E del resto dell’umanità vi importerebbe davvero? Dareste uno qualsiasi di coloro che adesso sono lì, con voi, in cambio di milioni di persone?

    Non credo. E tanto è. Che importa? Io so che questa è la verità. Siamo esseri deboli ed imperfetti. Non c’è molto che possiamo fare per migliorarci. Se io adesso affermassi che voglio fare del bene, senza aspettarmi alcun ricompensa, disinteressatamente, non lo farei solo per quietare la mia coscienza? Allora non sarebbe proprio questa la mia ricompensa? Quando vedo alla TV quei miseri bambini africani, dal ventre gonfio e le membra ossute, quale messaggio mi invia il cervello? Ma non ti vergogni del tuo stile di vita, mentre laggiù ogni giorno muoiono degli innocenti?

    Tu, lettore, cambi forse il tuo stile di vita quando vedi quelle povere creature che soffrono? Prenderesti il loro posto per alleviare le loro sofferenze? Anche per un solo giorno? Invece cambi canale o fai una donazione, in ambedue i casi scarichi la tua coscienza. Certo, la seconda opzione, ti fa onore, ma è la motivazione a tradirti: la paura. Paura di perdere tutto, paura perfino di un giudizio divino. Eccola la prova più concreta dell’ipocrisia umana. Ci siamo inventati persino un’entità suprema, perché ci potessimo illudere di continuare a sopravvivere in eterno.

    E invece no. Dopo la morte non c’è niente. Quanto mi piacerebbe essere nel torto. Ma anche qui, mio caro lettore, come contestare le mie affermazioni? O credi ancora nelle favole? Il Medioevo è finito da un pezzo. E ancora gli uomini si uccidono prendendo a pretesto la religione. Dio è una nostra invenzione. Ne vogliamo parlare? No. Ve lo risparmio. Cinico, cinico, cinico. Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse quando la parola cinico è diventata sinonimo di realistico. Boh?!

    Ma basta parlare. Non sono qui per disquisire delle mie credenze filosofiche (o forse sarebbe meglio dire miscredenze filosofiche), ma per narrarvi una storia e direi che ormai è ora che cominci…

    1

    La riconobbe subito.

    Non avrebbe potuto associare un nome a quel volto pallido ed incredibilmente scarno, questo no (e come sarebbe stato possibile al loro primo incontro?), ma la curva di quella fronte alta, sovrastata da una capigliatura nera come la pece, quei tratti fini, appena accennati, quel corpo esile ed esangue sotto la veste semplice di seta corvina, tutto di lei gli era suonato familiare. Perfino la sua voce quando, senza quasi dischiudere le labbra, lei aveva pronunciato la parola Permesso?, poco più di un sibilo che per un istante era rimasto a volteggiare nell’aria ristretta e corrotta dell’andito per poi svanire lentamente, dissolversi come una nuvola di fumo. L’impressione di conoscerla si era impadronita di lui, con una naturalezza che niente aveva di naturale. Eppure sapeva, per certo, di non aver mai incrociato la sua strada prima di allora ed ancora più assurdo: uno stupore intenso lo aveva travolto con la forza di uno schiaffo allorché si era reso conto di quanto gli apparisse tardivo quell’incontro. Aveva superato i trent’anni da un pezzo, ormai, ed ecco che soltanto adesso…

    Lei aveva abbozzato un sorriso e lo aveva guardato dritto negli occhi e lui non aveva resistito un solo attimo a quei due pozzi profondissimi, scuri come la notte. Con un gesto inconsulto, irrazionale, le aveva afferrato entrambe le mani, le aveva strette tra le sue e quindi l’aveva tirata a sé fino a quando le punte dei loro nasi non erano arrivate a toccarsi. La donna non aveva avuto alcuna reazione. Non aveva protestato, non si era sottratta alla presa di quello sconosciuto. Il suo respiro era rimasto costante ed il suo cuore non aveva accelerato di un solo battito. Neppure quando lui aveva proteso le labbra e le aveva rubato un bacio.

    Le sue labbra erano due strisce rosee di ghiaccio. Ed era soltanto grazie al contatto, cedevole e sensuale, di esse se si era accorto che anche le mani non avevano emanato alcun calore fino a quel momento, né lo avrebbero fatto in seguito, né (ne aveva la piena consapevolezza, ormai) lo avevano fatto mai in passato. Ed ancora una volta non era rimasto sorpreso.

    «Posso andare adesso?» gli aveva domandato parlandogli in bocca.

    Il profumo del suo fiato era esattamente come lo ricordava, inesistente, e quell’ennesimo controsenso non aveva fatto che consolidare l’impressione di conoscerla da sempre.

    A quel punto l’aveva lasciata andare. Lei non aveva tradito alcun timore, né, tanto meno, era corsa via. Anzi. Per la seconda volta gli aveva sorriso, poi gli aveva sfiorato una guancia con il polpastrello del dito medio. Ma senza malizia, s’intende.

    «Ci incontreremo ancora» gli aveva detto. Nessuna promessa. Nessun invito. Era un dato di fatto. Inevitabile.

    Lui non aveva ribattuto, era rimasto in silenzio mentre lei gli girava le spalle e se ne andava. La veste lunghissima che le ricopriva i piedi. Nessun calpestio di tacchi sul pavimento del corridoio.

    Lei non calzava scarpe.

    Ci pensò su un istante. Conosceva anche questo dettaglio di lei.     

    Dante attraversò il lungo corridoio cercando inutilmente di ignorare i brividi che gli percorrevano la schiena. Pochi secondi da quando aveva sbattuto contro quell’iceberg in gonnella ed ancora i suoi nervi vibravano come corde tese percosse dal vento. C’era qualcosa in lei di rovente, di appassionato, che neppure quella cappa di gelo, che era la sua pelle, avrebbe potuto in qualche modo mitigare. Figuriamoci a celare del tutto. Sin dal primo istante aveva percepito la sua immensa brama di esistere e, nello stesso tempo, intuito che qualcosa in lei era irrimediabilmente guasto (se non addirittura già rotto). Di che cosa si trattasse ancora non aveva idea, ma la prossima volta che l’avesse incontrata…

    Avvicinò il dito al campanello, ma prima che potesse premerlo il portone si aprì con indicibile fatale lentezza.

    «Dante! O mio Dio, Dante. È successo pochi minuti fa e…»

    «Che cosa è successo, mamma? Calmati. Mi sembri così strana. Immaginavo che ti avrei trovata qui, da nonna. Perché non mi fai entrare?»

    «Oh, Dante…» I solchi della sua vecchiaia erano inondati dalle lacrime. Il naso arrossato dall’abuso di fazzoletto.

    «Hai pianto, mamma. Perché? Ti decidi a farmi entrare o no?»

    La madre si guardò la punta delle scarpe. Con la testa china dava l’impressione di essere ancora più bassa. Quando era iniziata quella regressione? Quando il suo corpo aveva preso a sfiorire? A raggrinzire? Ad accartocciarsi su se stesso? Dante rimuginò su tutto questo per un lungo interminabile secondo. La sua mente riusciva senza difficoltà a ricostruire l’immagine della donna nei suoi momenti di splendore, quando lui era poco più di un ragazzino e lei portava sulle spalle il suo mezzo secolo con innata disinvoltura. Lo aveva concepito tardi, ma questo non aveva influito sul loro rapporto. Lei aveva sempre avuto una mente aperta, un cuore generoso, non gli aveva mai fatto mancare niente, neppure la presenza di un padre perduto prima ancora che nascesse. Ma se, tanto, tanto, andava a ricercare il giorno in cui le rughe avevano cominciato a scavare davvero in profondità, o quello in cui gli occhi avevano smarrito la consueta lucentezza, trasformandosi in due dischi opachi circondati da venuzze e bianco sporco, se tentava di ricostruire le tappe attraverso le quali la schiena aveva dovuto passare per giungere ad una simile curvatura, ecco che la memoria perdeva colpi, falliva miseramente. E la colpa a chi doveva essere attribuita? Al suo egoismo o allo scorrere troppo rapido ed inarrestabile del Tempo? Dante propendeva per il primo. Era fin troppo semplice giustificare le proprie azioni e manchevolezze tirando in ballo la caducità della vita. La verità era che aveva tirato avanti come fanno tutti gli esseri umani: con i paraocchi, lo sguardo fisso davanti a sé (o al massimo sotto il proprio naso), con l’illusione della briglia sciolta, mentre invece i garretti restavano intrecciati a invisibili pastoie, non per questo meno intralcianti di ostacoli tangibili.

    Dante sospirò, dopodiché baciò la testa canuta della vecchia genitrice e quando ebbe discostato la bocca da quel groviglio di fili stopposi, la prese per le spalle.

    «È morta la nonna, vero?» Cristo, quanti anni aveva? Novantanove? Cento? Piangerla sembrava davvero eccessivo, quasi blasfemo. Per di più se si pensava che aveva goduto di buona salute e di una discreta lucidità fino all’altro ieri (tanto era passato dall’ultima sua visita). «Mi spiace, mamma.»

    La donna annuì, si fece da parte e lasciò passare il figlio.

    «Sono tutte di là.» Appena un sussurro.

    «Tutte chi?» chiese Dante improvvisamente allarmato.

    La mano gracile e raggrinzita roteò a mezz’aria: «Lo sai. Le zie, chi altri?»

    «Che palle!» pensò il giovane alzando gli occhi al cielo. Le sorelle della madre erano tre megere dall’alito pestilenziale e dal carattere a dir poco acido. Dimostrazioni viventi di quanto talvolta le rigide regole del patrimonio genetico facessero clamorosamente cilecca. La madre non aveva niente da spartire con loro, tanto meno la bellezza di cui lei sola aveva goduto in gioventù. Mentre camminava sottobraccio alla sua vecchia, si sforzava di respirare a tratti, cercando di non annusare l’aria satura di quel loro odore malato (o forse era quello della nonna: un misto di lavanda e principio di putrefazione). Le pareti stesse sembravano impregnate di secolare noia e disfacimento. L’intonaco screpolato, macchiato di polvere ed umidità. Come mai non ricordava di averlo notato in passato? Tutta quella decadenza… Dubitava che ci fosse sempre stata. Forse il motivo andava ricercato tra quei fenomeni, al limite del paranormale, che legano indissolubilmente una persona ad un luogo. Forse la nonna e l’appartamento avevano condiviso così tante ore, avevano vissuto assieme così a lungo che le loro essenze si erano in qualche modo amalgamate e adesso, con la morte della centenaria, pure la casa andava spegnendosi. Oppure, chissà?, anch’essa stava semplicemente soffrendo per il recentissimo lutto. Va’ a sapere. Molto più probabile, però, che tutto fosse riconducibile all’onnipresente egoismo. Quante volte, negli ultimi dieci anni, le sue visite si erano prolungate oltre i cinque minuti?

    «Mai» mormorò sulla soglia della camera. Abbastanza piano da non essere compreso. Abbastanza forte da far voltare le zie verso di lui. La situazione, grazie a Dio, non richiedeva effusioni particolari, né scambi dialettici a breve distanza, Dante, perlopiù, ignorò tutte quante e si spinse ai piedi del letto.

    La salma riposava sotto un lenzuolo di lino. Il volto cereo, la bocca spalancata, il naso ricurvo. Sembrava serena, nonostante tutto.

    L’impressione era che la Morte fosse scesa su di lei con infinita delicatezza, stando ben attenta a non provocarle il minimo dolore. Con tatto. Quasi con amore, avrebbe detto. Le labbra sottili non si erano disgiunte in un grido di paura, ma piuttosto per offrire un bacio, l’estremo saluto, oltre il quale altro non era rimasto da fare che esalare l’ultimo respiro e perdersi nell’oblio.

    «Cinque minuti fa ha detto qualcosa, ma non abbiamo capito nulla. Poi è spirata…» disse una delle arpie con l’aria trasognata di chi ancora non è riuscito a capacitarsi di quanto è appena accaduto.

    Dante non distolse lo sguardo dal viso della defunta. La vita era uscita da lei con un soffio, lasciandola come svuotata. No, non aveva sofferto.

    La madre, che nel frattempo lo aveva raggiunto, gli strinse forte il braccio.

    «Mamma…»

    «Sì, Dante?»

    Il figlio si guardò attorno e giudicò più opportuno uscire dalla stanza prima di chiederle ciò che, improvvisamente (e senza una valida ragione), gli era venuto in mente. La trascinò con delicatezza in cucina e poi la guardò dritto negli occhi con un’espressione seria che non mancò di impensierirla.

    «Che cosa ti prende, Dante? Sei preoccupato…?» tentò di indovinare la vecchia, ma lui la zittì scuotendo il capo.

    «No. Macché preoccupato! È solo che… Ho incontrato una ragazza vestita di nero. Qui, fuori, nel corridoio, davanti al portone d’ingresso e mi domandavo se…»

    «Quale ragazza?»

    «…Se era uscita da questo appartamento. Se sapevi dirmi chi fosse.»

    «Da questa casa non è uscito nessuno da almeno tre ore. Io e le tue zie siamo arrivate stamani e non abbiamo nemmeno pranzato. E non mi pare il caso di pensare alle ragazze in un momento come questo…»

    «Hai ragione, mamma» tagliò corto lui.

    Il palazzo aveva quattro piani, le scale e pure l’ascensore. Che cosa gli aveva lasciato supporre che potesse essere uscita proprio da lì? Era stato un perfetto idiota a pensarlo, ed ancora di più a domandare alla madre.

    «Vuoi che vada a comprarvi qualcosa da mangiare?»

    «Non ti disturbare. Preparo qualcosa io. Vuoi restare a mangiare con noi?»

    «Ho già pranzato.» Si affrettò a mentire.

    Lei gli lanciò un’occhiata circospetta. ««Perché sei passato, Dante?»

    Perché aveva fame ed era stato a casa della madre, ma lei non c’era. Allora aveva pensato (a ragione veduta) che fosse dalla nonna ed aveva deciso di raggiungerla lì, magari per mangiarsi a sbafo una bella pastasciutta, ma poi aveva trovato l’appartamento pieno di gente e una persona di troppo morta e tutto il piano era andato a farsi benedire. Ecco il vero motivo per cui era passato.

    «Non ti ho trovato a casa, mamma, ed ho subito pensato che fosse successo qualcosa di grave alla nonna.»

    La madre, impietosita, gli gettò le braccia al collo. «Che figlio adorabile che ho.»

    Un gesto ed un complimento immeritati che suscitarono in Dante un certo imbarazzo ed aggiunsero punti al suo già accreditato senso di colpa. Nell’altra stanza giaceva morta una parente e l’unica sua preoccupazione era come togliersi da quell’impiccio ed uscire alla ricerca di aria aperta.

    Di aria aperta. E della misteriosa donna in nero.

    2

    Quando aprì la porta, la corrente d’aria la investì in pieno.

    Bea fece un passo in avanti e lasciò che la porta sbattesse con forza contro gli infissi. Una microscopica scheggia di legno abbandonò il telaio e volò dritta come un proiettile ad un centimetro dalla sua testa. Bea nemmeno se ne accorse.

    Come le capitava ogni volta che rientrava a casa, incontrò la propria immagine riflessa sullo specchio dell’armadio a muro; senza degnarla di grande attenzione, la salutò con un lieve cenno della mano. Si diresse, invece, verso il bagno con passo piuttosto spedito e lasciando sfilare in basso la veste nera.

    Sotto era completamente nuda.

    Attraversò il gabinetto scalciando per liberare i piedi da quell’ingombro inopportuno e, finalmente, raggiunse il water. Senza pensarci due volte, ci si sedette sopra e svuotò la vescica con un potente getto di urina che le strappò dalla bocca un verso molto simile ad un gemito di piacere.

    Tra i tanti svantaggi che gravavano sulle donne, quello di trattenere la minzione era per lei uno dei più molesti. Almeno gli uomini, all’occorrenza, avevano qualcosa da stringere, oltre le cosce. Oh, sì, c’erano le mestruazioni, le convenzioni sociali, la pretesa emancipazione (che, nella maggior parte dei casi, presentava inevitabilmente delle riserve), ma quella di pisciare restava per lei la pratica femminile più fastidiosa, la trovava addirittura ridicola, degradante.

    Quando ebbe finito si asciugò con un pezzetto di carta igienica, poi balzò in piedi, lasciò cadere la carta nell’acqua di scarico, tirò lo sciacquone ed infine guadagnò il box della doccia. Si lavò sotto un torrente di acqua bollente. Come era solita fare. Le temperatura elevate non la disturbavano affatto. Di contro non sopportava l’acqua fredda. A dirla tutta non sopportava il freddo in generale. Non per nulla è sinonimo di indifferente, di incolore, di inerte e sapeva il cielo quanto la sua stessa esistenza avesse a che fare con la mancanza di vita e di vitalità. Perlomeno nei momenti liberi aveva il diritto di aspirare ad un anelito di calore, allo scintillio, seppur tenue ed effimero, di un filo di speranza.

    Non chiedeva poi molto, no?!

    Dalla strada giunse il canto triste e stonato di un’ambulanza.

    «Corri, corri… Ma dove andrai così di fretta?»

    Uscì dalla doccia e si infilò dentro un enorme asciugamano di spugna, mentre fuori risuonava un prolungato sibilo di pneumatici seguito a breve distanza da un coro di clacson.

    L’essere umano non faceva che correre, non pensava ad altro che ad andare avanti. Sempre più di rado si concedeva il lusso di riflettere oziosamente, quasi mai prendeva una pausa. La sua era una marcia pressoché continua. Neppure se ne rendeva conto. Anche quando era seduto su una comoda poltrona, o sdraiato sul letto, perfino quando attendeva di addormentarsi, la sua mente annegava nei progetti, perseverava nella propria morbosa attività. Se esistevano delle eccezioni a questa regola si contavano sulle dita di una mano. Una di queste poteva essere il sesso, ma anche in questo caso occorreva fare ulteriori distinzioni. Se tra i due esisteva un sentimento di qualche genere, poteva darsi che potesse scaturirne una via di fuga, un’elevazione, altrimenti risultava un trito fatto fisico, per quanto piacevole, fine a se stesso e poco produttivo.

    Bea lasciò cadere l’asciugamano a terra ed osservò il proprio corpo incorniciato nello specchio dell’ingresso. Era piuttosto magra, ma sapeva di rappresentare comunque un succulento bocconcino. Aveva seni sodi e non troppo piccoli, fianchi snelli, gambe lunghissime. Con quel fisico che si ritrovava non aveva mai avuto difficoltà a convincere un uomo a spartire lenzuola ed umori con lei. Purtroppo, però, ogni volta era mancata quella scintilla, quella forza vitale (visto? Si ritornava sempre lì) capace di smuovere il mondo. L’umanità la chiama Amore, e ne parla come se ne conoscesse il significato. In realtà ignora quasi tutto di esso e lo confonde con altri impulsi più o meno nobili. Secondo la sua modesta opinione soltanto i bambini erano davvero capaci di usufruire di una tale forza, soltanto loro la elargivano nel modo corretto: disinteressatamente. 

    Le sue esperienze sessuali si erano rivelate, perciò, fonti di vera e propria delusione. E dire che ci si era dedicata con passione, senza guardare troppo alla bellezza del partner di turno, con l’unico scopo di provare piacere, di raggiungere quell’estasi tanto decantata da artisti e da gente della strada. Il fine giustificava i mezzi ed i mezzi potevano essere brutti o scialbi, non aveva importanza, ma era proprio il fine che, una volta raggiunto, risultava spiritualmente poco appagante, vuoto. Qualche minuto di distacco totale dalla realtà, un impeto continuo e travolgente, talvolta un’esplosione finale, ma dopo tornava tutto come prima.

    C’era qualcosa di peggio? 

    Uno scambio reciproco di fisicità, quindi, ma neppure l’ombra di quel dono, di quel barlume di gioia che talvolta aveva intravisto negli occhi di qualche anima fortunata. Specialmente quando la storia era agli inizi. E se lei quel dono non l’aveva mai ricevuto la colpa era da attribuire al fatto che, in realtà, non lo aveva cercato per davvero. Che cosa, infatti, aveva chiesto ai suoi amanti? Piacere. L’Amore era un’altra cosa.

    Doveva esserlo.

    3

    «Sei proprio uno stronzo, Dante.»

    Parlare a voce alta da solo era un vizio di famiglia. Sua madre, per esempio, teneva veri e propri comizi a nessuno. E come sapeva essere convincente! Quando le capitava di farlo, pronunciava le parole con tono perentorio accompagnandole con ampi gesti delle braccia. E pensare che durante i colloqui reali seguiva sempre un profilo basso, non alzava mai la voce; era decisamente più brava ad ascoltare. Forse per questo la gente chiacchierava volentieri con lei.

    Pure la nonna parlava spesso da sola. Ma nel suo caso si trattava più che altro di borbottii troncati a mezzo, di aspirazioni catarrose, ogni tanto di sospiri.

    Chissà quanti ricordi visitavano quel decrepito cervello? Quante volte se lo era domandato! Per la prima volta quel giorno, sentì una leggera stretta al cuore. Da allora in poi nel mondo ci sarebbe stato un microscopico puntino di Niente, una zona di vuoto circoscritto e, tuttavia, incolmabile. Non si poteva far finta di ignorarlo a lungo. Nessuna vera sofferenza, soltanto un pizzico di nostalgia.

    Dante attraversò la strada e raggiunse l’auto, una Toyota Yaris, grigio metallizzata (un colore un po’ triste, a pensarci bene, eppure uno dei più diffusi. L’essere umano possiede una tendenza alla contraddizione davvero stupefacente). Il parabrezza rifletteva i raggi di un sole torrido di fine luglio lanciandoli contro chiunque osasse avvicinarsi. Anche lui (dopotutto era pur sempre il padrone; non aveva diritto ad un trattamento migliore?) fu costretto a proteggersi con una mano per non essere accecato, mentre con l’altra rovistava in tasca alla ricerca delle chiavi. Nei pochi secondi che gli occorsero per estrarle ed aprire la portiera, passarono a tutta velocità almeno quattro veicoli: un gigantesco suv con i finestrini oscurati, due scooter di grossa cilindrata ed una microscopica city car. Tutti rigorosamente a meno di un metro di distanza da lui. L’aria spostata dal loro passaggio avvinghiò il suo corpo chino verso lo sportello; per ben quattro volte lo avvolse in un caldo abbraccio. Braccia invisibili e prive di qualsiasi forma che lasciarono su di lui un vago senso di sconfitta. Questione di un attimo, dopodiché svanì pure il ricordo di tale sensazione. La portiera si aprì con un cigolio sospetto e dall’abitacolo fuoriuscì una ventata di calore ed odore di chiuso che lo investì in pieno ardendogli le narici. Forse avrebbe fatto meglio a farsi una bella passeggiata. Una passeggiata di almeno quattro chilometri. Tanto distava la città. Sì, sotto quel sole e con la temperatura che superava i trentasette gradi (per non parlare dell’umidità: un’afa irrespirabile)! Meglio salire in macchina e lasciar fare all’aria condizionata.

    Non appena ebbe acceso motore e climatizzatore, lo stomaco emise un cupo e profondo brontolio. Decise di ignorarlo. Per l’intera ora successiva avrebbe girovagato a vuoto con la Yaris, al fresco dell’abitacolo, in compagnia dei propri pensieri. Un po’ di digiuno non gli avrebbe certo fatto male. Si pizzicò la pancia con la punta delle dita. La cedevolezza che trovarono i polpastrelli confermò alla sua mente distratta il grado di negligenza che ultimamente aveva riservato alla propria linea. Che diamine, aveva avuto tante di quelle cose da fare quell’anno che proprio non c’era stato tempo per la cura del fisico o frivolezze del genere! Poi, però, rifletté per bene su ciò che effettivamente gli avevano portato la fine dell’ultimo anno e la prima metà di quello in corso e fu costretto ad ammettere che nessun periodo prima di allora era mai stato tanto scarno di impegni e novità interessanti. Aveva, sì, trovato un lavoro, ma si trattava di un posto in Comune. Un impiego talmente rilassante ed insulso da risultare, nella migliore delle ipotesi, di una noia mortale. Sei ore al giorno, per cinque giorni consecutivi, di assoluto Niente, dopo le quali neppure ricordava che cosa avesse fatto. Fortuna che esistevano miriadi di escamotage per affrancarsi da quel purgatorio in Terra. Anche adesso, per esempio, stava usufruendo di una licenza settimanale concessa (o imposta?) agli impiegati per motivi ignoti, ma che lui riteneva legati all’eccessivo numero dei dipendenti. Un giorno all’altro anche il Pubblico si sarebbe adeguato alla società odierna e scosso di dosso le centinaia di parassiti che gli gravavano addosso. Per il momento, però, anche lui si adeguava e sfruttava la situazione. In fondo, era un essere umano come tutti e, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. Sarebbe stato di gran lunga peggiore lavorare in una fabbrica o scaricare camion dalla mattina alla sera, no? 

    Se la carriera professionale stentava a decollare, quella sentimentale non era da meno. Negli ultimi dieci mesi aveva conosciuto, sì o no, tre ragazze. Una era di una bruttezza tale che non sarebbe passata inosservata, per quanto difficile da credere, perfino ad un cieco; una masticava gomme in continuazione, fumava come una turca (sempre che il leggendario consumo di nicotina attribuito ai maschi di quel paese sia riconducibile anche alle loro donne. Poco probabile.) e quando parlava finiva sempre per aggiungere una di quelle volgarità che talvolta passa quasi inosservata se uscita dalla bocca di un uomo, ma che proprio non si riesce a far finta di non avere udito se a pronunciarla sono state le labbra di una ragazza quanto meno piacente. Non si tratta di maschilismo; è una nota stonata. Pura e semplice.

    La terza se l’era portata a letto, dopo averla trascinata via da una discoteca di infimo ordine e condotta a casa, ubriaco fradicio, rischiando di sbattere in un paio di occasioni e sfregando clamorosamente la fiancata contro un guard-rail per almeno una decina di metri. In seguito, una volta in salvo, si erano spogliati a vicenda e aggrovigliati l’una all’altro come due ossessi, ma, ad essere sinceri, non ricordava molto di più di quella vicenda e comunque non doveva aver dato prova di essere un grande stallone, dato che la mattina successiva, al suo risveglio, si era ritrovato completamente solo e non l’aveva più né vista, né sentita.

    Le uniche testimonianze di quella notte brava: la doppia striscia di carrozzeria semi-sventrata ed un mal di testa colossale. Per rimediare al danno erano occorsi trecento euro; per il malessere fisico, un’intera giornata di riposo forzato e camomille bollenti. Per la propria autostima, non era bastata una settimana intera.

    Insomma, la sua vita, ultimamente, procedeva al piccolo trotto, senza grandi acuti, ma magari con deprecabili stecche. Poca gioia nelle cose che faceva. Poco entusiasmo.

    «Periodo morto» mormorò nella solitudine dell’abitacolo.

    La strada girava verso destra con un angolo a V, poi saliva e zigzagava tra pochi edifici dismessi, dopodiché entrava in città, si addentrava nell’abitato e, ad un passo dal centro si interrompeva di colpo, riempiendosi di vetture, una in fila all’altra.

    «Merda…» Dante premette con forza il piede sul pedale del freno e la Yaris rallentò vistosamente andandosi infine ad arrestare a meno di dieci centimetri dal paraurti di una nuova Cinquecento.

    Senza pensarci un secondo scese dall’auto e scrutò l’orizzonte. La fila sembrava non aver fine.

    «Un incidente» disse qualcuno. Forse il conducente della Ford, tre auto più avanti, proteso con il busto fuori del finestrino, la mano sinistra a sorreggere il suo peso sullo sportello e la destra pronta a suonare il clacson.

    Dante lo degnò appena di uno sguardo, poi fissò di nuovo in lontananza. Un lieve balenio azzurro tinteggiava ritmicamente il muro di un palazzo.

    «Un incidente, sì…»

    4

    Il concerto scoppiò vivido ed improvviso nel suo cervello.

    «Succede sempre così» mormorò Bea tra sé.

    E, nonostante tutto, ancora non era riuscita a farci l’abitudine; ogni volta che quelle trombe del giudizio attaccavano la loro indescrivibile cacofonia le veniva da sobbalzare per la sorpresa o lo spavento.

    «Come se ci fosse qualcosa da spaventarsi o da essere sorpresi!»

    Il motivo (se volevamo ammettere che ne esistesse uno) era un’accozzaglia di note e strida senza senso. Non c’era logica, né un vero e proprio ritmo. Le urla di migliaia di anime, le trombe del giudizio, sa Dio cosa… Tutto contribuiva ad acuirle i sensi, metterla all’erta, esortarla ad agire.

    Bea sospirò rassegnata. Doveva andare. Strascicando i piedi recuperò la veste nera che giaceva ancora distesa ed abbandonata sul pavimento e la indossò come una seconda pelle, una parte di lei tutt’altro che inscindibile ma della quale non poteva fare a meno troppo a lungo.

    Uscì di casa mentre l’esecuzione musicale raggiungeva toni sempre più alti. Una persona normale sarebbe impazzita al primo squillo, ma lei non era una persona normale. Si strinse nelle spalle ed oltrepassò la soglia.

    Fuori il sole brillava alto nel cielo ed era talmente grande la sua potenza da sopraffare tutti i colori e renderli quasi diafani. L’aria bruciava la gola ed i polmoni. Bea si soffermò a piedi uniti nel centro esatto del marciapiede ed inspirò tutto quel calore con voluttà.

    «Non c’è tempo» sembrava suggerirle la musica nella

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