Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde
Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde
Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde
Ebook254 pages3 hours

Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Fantascienza - romanzo (192 pagine) - Omaggio al fu Buzzati: una storia con scrittori perduti, cani fantasma e altra gente strana. PREMIO ODISSEA 2016


Abitare nella casa che era stata di Dino Buzzati non comportava particolari emozioni: ti ci abitui. Abituarsi alla cugina Matilde, che era venuta a stare con me, portando le sue manie, le sue paure, le sue stranezze, era meno facile. Ma tutto era filato liscio finché non ci rendemmo conto, una sera, di quella zona del pavimento. Quella dove i nostri cani non passavano mai. Ma proprio mai. Giravano intorno, anche se apparentemente non c’era nulla. E fu quando Matilde, quasi per dispetto, ci saltò dentro, che si sentì quello strappo. E la nostra vita prese una piega a dir poco inquietante.


Cresciuta al Cairo, milanese di adozione, Franci Conforti è un luogo d’incontro di più popoli. Ha sulle spalle alcuni fallimenti e qualche successo; nel cuore però tiene (al caldo) una passione: usare gli uomini e le donne che ha conosciuto per dar vita alle sue storie fantastiche. È per queste persone che scrive, ma scrive anche, al buio, per chi non ha ancora incontrato. E cerca di dare a tutti qualcosa in cambio di quello che prende, pur sapendo che non sarà mai abbastanza. Spera comunque di offrire un sorriso, un gesto d’amicizia o una leva per risollevare la giornata.

Laureata in biologia, giornalista professionista, docente all’Accademia di Belle Arti, Franci Co in questo libro si è presa l’impegno di non dimenticare gli animali che vivono al nostro fianco.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateOct 13, 2016
ISBN9788865308646
Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde

Read more from Franci Conforti

Related to Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde

Related ebooks

Related articles

Reviews for Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Spettri e altre vittime di mia cugina Matilde - Franci Conforti

    9788825406047

    Piccola avvertenza

    La numerazione dei capitoli va presa alla leggera

    è opera di Matilde che, notoriamente, non sa contare.

    Uno

    1. Quello che successe un anno prima

    Ciao, sono contenta che tu sia qui. Stavo giusto per raccontare la storia di mia cugina Matilde, dei suoi fantasmi e dei miei, e di certi nostri amici, poco importa che alcuni siano in carne e altri in ossa. E ci arriverò alla carne e alle ossa, e pure ai fantasmi, ma per farlo devo tornare indietro di un anno perché è lì che sta rintanata, in agguato, questa vicenda.

    Dovete sapere che allora le vacanze natalizie – e un certo numero di altre cose – mi erano venute a noia. I biglietti d’auguri erano diventati e-mail e poi un generico Buon Tutto! bello tonico, postato sui network. I conoscenti avevano sorrisi da estranei, gli amici sembravano un lavoro e i parenti, insoddisfatti del ruolo di parenti, avevano optato per lo status di turisti. Quel Natale mia mamma andò in crociera, i miei fratelli in montagna, mia sorella pure in montagna ma da un’altra parte. Le feste di quell’anno furono adulte e ristrette, a misura della mia nuova vita pigra e solitaria.

    Quel Natale mi svegliai tardi e fu un giorno qualunque. Il capodanno durò fino all’alba inseguito da un’epifania che tutte le feste le spazza via assieme a un tot di messaggi inguardabili, frutto dello sforzo collettivo d’inventarsi battute sulle befane. E a proposito di befane, piacere, mi chiamo Greta.

    Comunque la grande notizia arrivò un paio di giorni dopo l'epifania. Avrei lavorato negli Stati Uniti. Mi avevano presa come consulente aiuto vice co-sceneggiatore per una nuova serie televisiva prodotta dalla CW. Due anni di contratto. Ero felice, non potevo immaginare in che razza di storia mi sarei trovata. Allora sapevo solo che il futuro mi sorrideva in quel modo splendido in cui sanno sorridere solo gli americani. O meglio, mi avrebbe sorriso se avessi risolto due questioni. La prima era affittare la casa milanese. La seconda, assai più spinosa, era trovare una sistemazione per Thelma e Luisa che non erano i personaggi di un film ma due cagnoline, tipo yorkshire terrier, però bastardissime. Marroni e nere. Pelo lungo a coprire gli occhi, identiche. Thelma collarino in pelle scura, Luisa collarino in nappa chiara. Era l’unico modo che avevo per distinguerle.

    No, non sono un’animalista accanita e nemmeno una tutta tesorini e pucci pucci. Vivevo con Thelma e Luisa perché erano del mio ex, che le aveva ereditate dalla sua ex e comunque, alla fine, le bestie smettono di essere bestie e diventano persone, così mi ci ero affezionata. Molto.

    Avrei voluto portarle con me ma la vita che avrei condotto non mi avrebbe permesso di averne cura. Ero così angosciata che più di una volta mi ritrovai con le dita sulla tastiera pronta a scrivere quella dannata lettera con cui avrei rinunciato all’Ammerika.

    La soluzione mi si presentò pochi giorni dopo e l’accolsi quasi fosse un segno del destino. Nel mio caso il destino si chiamava Matilde.

    Matilde Mary Low era una delle mie numerose cugine, figlia di mia zia materna e di Peter Low, un individuo di cui non avevo mai visto nemmeno una foto ma di cui avevo sempre sentito parlare un gran male per via della facilità con cui accendeva e spegneva relazioni sentimentali. Del resto di sua figlia si diceva anche di peggio; si diceva avesse fatto la vita nei salotti bene per poi sistemarsi con un cliente e poi un altro e un altro ancora. In realtà lavorava come web designer ma era troppo carina per un lavoro di quel tipo.

    In quei giorni Matilde, nemmeno a dirlo, cercava casa per sfuggire all’ennesima relazione finita in fumo. La chiamai e le dissi cosa avevo in mente: un bel appartamento a tempo limitato, completo di tutto, anche di due cani, in cambio di un affitto decisamente ragionevole.

    Matilde fu a dir poco entusiasta e considerò la mia offerta come una specie di segno del destino. Fece una battuta sul libro di Guareschi. Il destino si chiama Clotide/Matilde. Ci ridemmo su, eravamo in sintonia quindi yeah!

    La cosa mi piacque, del resto mi piaceva pure Matilde, anzi era la mia cugina preferita. Cosa m’intrigava di lei? Che non la conoscevo affatto. Ricordavo solo una criniera di ricci biondi e crespi e i suoi modi da uccellino. In un certo senso quella poteva essere l’occasione per andare oltre il ciao e al come sta la zia?

    Matilde si trasferì da me due giorni dopo, cioè più di un mese prima della mia partenza. Due valigie di plastica rossa rigida, enormi. Erano di quelle che quando sono vuote le puoi infilare una nell’altra come se fossero delle matrioska. Dentro ci aveva cacciato tutta la sua vita. Le due valigie erano strapiene e pesavano tantissimo. Le piazzò nella camera degli ospiti che ora era la sua camera. Le mise sul pavimento, contro il muro.

    Thelma e Luisa, quando trovavano la porta aperta, correvano ad annusarle. Concitate, stupite. Sniffavano, inclinavano la testa di lato arricciando il naso, stringevano un occhio e poi facevano scattare la testa verso il basso in una sorta di starnuto di disapprovazione.

    Una settimana dopo le valigie erano ancora sul pavimento, chiuse. Matilde mi disse che in una aveva messo i vecchi vestiti e nell’altra le cose che aveva accumulato in due anni di convivenza. Un giorno le avrebbe aperte ma non ora. Non se la sentiva proprio. Poi la buttò sul ridere: probabilmente era solo una scusa per comprarsi un guardaroba nuovo.

    La faccenda si sarebbe chiusa lì se Thelma e Luisa non avessero continuato quel loro gioco di naso. Il fatto è che la gente si fida più del fiuto dei cani che delle parole delle persone. E io non facevo eccezione.

    Cominciai a fantasticare sul contenuto delle valigie rosse. La versione più trucida prevedeva teste mozzate e reperti umani in vari stati di conservazione o decomposizione. Vedevo Matilde, delicata e bionda, con quel suo sorrisetto da bimba e gli occhioni stupiti, con una motosega in mano. Attorno a lei una strage d’uomini e piante. Il vestitino a fiori macchiato di clorofilla e sangue. Matilde in versione Barbablù.

    Erano idee tanto assurde da strapparmi un sorriso. Però, assieme a queste fantasie, sentivo spuntare timori più banalmente reali.

    Più volte fui sul punto di usare le piccole chiavi legate alla maniglia delle valigie. Aprire e guardare. Mi comportai in modo civile. Lasciai che le valigie continuassero a covare il loro segreto. Non toccai nulla.

    Il mese di convivenza fu decisamente bello. Matilde mi piaceva proprio. Parlavamo quasi di tutto. Cioè, di tutto tranne che del mio ex e di tutti i suoi ex. Matilde liquidava l’argomento sempre in modo generico. Gli uomini erano la parte vulnerabile e dolente della sua vita. Il dramma amoroso il suo habitat naturale e la seduzione un tarlo genetico dominante. Bastava guardare come accavallava le gambe; l’avevano disegnata così quelli della Disney e non ci poteva fare un cazzo.

    – Sai – mi disse una sera davanti a un bicchierino di porto – con gli uomini ho chiuso, devo andare avanti.

    Matilde aveva intombato un numero d’amori impressionante. Quella sera ne contò 24 ma era certa fossero di più. Pensai alla stella cadente dipinta da Buzzati, quella che splendeva prima di schiantarsi al suolo, spegnersi, diventare sasso.

    In quel mese Matilde non uscì mai. Le poche volte che lo fece fu perché m’ero messa in testa di presentarla ad alcuni amici. Marco si prese una cotta, Ottavio si fece dare il numero, Andrea mi chiese dove l’avessi tenuta nascosta. Matilde sorrideva ma evitava. Non ci fu verso di farle rivedere nessuno e una sera, guardando Downton Abbey in tivù, mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Per scaricare la tensione faceva rotolare tra il pollice e l’indice un pendente che aveva al collo. La questione spinosa era il tradimento. Oppure la fedeltà.

    – Sai, si finisce sempre per farsi troppo male – mi disse.

    – Arriverà quello giusto – buttai là per essere solidale.

    – Claudio era quello giusto – disse, pianissimo, a fatica. E poi silenzio.

    Nell’ultima settimana la convivenza fu difficile. Mea culpa. Solo mia, Matilde era davvero carina e premurosa. Una specie di mazzolino di fiori primaverili. Io invece sembravo un roveto spinoso; alle volte un roveto ardente.

    Il fatto era che avevo chiuso con il vecchio lavoro e mi ero presa il tempo per organizzare la partenza. Giravo per casa tutto il santo giorno. Cominciavo a capire di cosa avrei sentito la mancanza e salutavo tutto quello che lasciavo toccandolo con la punta delle dita. Parlavo alle piante, promettevo cose assurde ai muri di casa. Bisbigliavo nelle orecchie dei cani manco fossi stata Robert Redford che se la faceva coi cavalli. Ma c’era dell’altro. Stavo lasciando tutta la mia vita a un’altra donna. Ero gelosa? Non lo volevo sapere. La gelosia è peggio d’una padella d’unto sul vestito nuovo. E io mi sentivo con il vestito della festa tutto macchiato e stavo dando fondo alle contorsioni mentali per venire fuori.

    Matilde si stava prendendo tutta la mia vita, tutta. E il fatto che fossi io a dargliela e che, grazie al cielo, lei fosse disposta a prendersela, non mi consolava affatto.

    Ogni giorno che passava, diventavo più apprensiva. Ripetevo a Matilde le stesse cose. Nemmeno fossi stata sua mamma, sua nonna, sua zia, la sua maestra e il suo angelo custode, tutti fottutamente assieme, a infestare un unico corpo, il mio.

    La posta, le spese condominiali, la raccolta differenziata, l’allarme di casa. E poi insistevo sul come dare acqua alle piante, cosa fare e non fare coi cani, i numeri d’emergenza attaccati sul frigo con una calamita a forma di Tardis (che sarebbe quella specie di cabina telefonica blu usata da Doctor Who per spostarsi nello spazio-tempo). Il numero del veterinario, ben sottolineato, vicino al telefono.

    Matilde mi dava retta per educazione e a me l’educazione non bastava. Ero posseduta dalla scimmia della prevenzione e prima di partire feci un’ultima cosa. Piazzai Anastasia alle costole di Matilde. Per sicurezza.

    Anastasia Sokolova, detta Stasia, era la pertica russa che abitava al quinto, proprio sotto di me. Una tanto tosta da far passare in secondo piano il fatto che fosse anche una bella donna. Amica? Allora non credevo nell’amicizia. Ora sì.

    Ci eravamo conosciute quasi cinque anni prima, in ascensore, durante un black-out estivo, uno di quelli causati dai condizionatori a manetta. In cabina faceva un caldo esagerato e lei, sudando come se non sudasse, scattava foto assurde per passare il tempo. Dopo quella convivenza forzata abbiamo continuato a frequentarci.

    Stasia e Matilde avevano avuto alcune occasioni d’incontro ma non sembravano fatte l’una per l’altra. Matilde definì Stasia una ragazza particolare; il commento di Stasia su mia cugina fu coquette, seguito da una smorfia. Il fatto che le due non si fossero prese troppo in simpatia mi piaceva, lo ammetto. Non ci sarebbero state combutte e comunelle alle mie spalle.

    Così, prima di partire, presi in disparte Anastasia e la pregai di tenere d’occhio mia cugina e di darle una mano se ne avesse avuto bisogno. Stasia protestò in russo ma poi, come al solito, accettò. Promise e io mi sentii un filo più tranquilla. Ma giusto un filo perché anche Stasia era fatta a modo suo.

    Andò a finire che io andai in America e che Matilde e Stasia divennero amiche. E in barba ai miei timori, tutto filò liscio per più di dieci mesi e non ci fu un solo screzio. Non uno. Ci sentivamo tramite computer e, in certe domeniche, lasciavamo aperta la connessione per tutta la giornata. Mi piaceva molto. Mi dava la sensazione d’essere a casa, con loro, nella stessa stanza anche se, guardando fuori, vedevo Los Angeles, Dallas, New York oppure Vancouver.

    Poi, però, sono successe delle cose, molte delle quali non ho vissuto in prima persona ma mi sono state raccontate più e più volte con notevole dovizia di particolari. E a dire il vero anche ora, mentre tento di scrivere, c’è qui al mio fianco chi mi suggerisce cosa dirvi e chi mi ricorda di quello e di quell’altro e di tizio e caio e puntualizza che bla bla bla. Il che mi fa rimpiangere quei mesi di tranquillità nei quali la distanza rendeva l’amicizia decisamente più facile e piacevole (… e no, non lo cancello; e sì che lo penso davvero!).

    Comunque ammetto che ripensando a quei mesi di calma mi sono rimproverata (più di una volta) di non aver fatto nulla per scoraggiare l’isolamento innaturale in cui viveva Matilde. A ingannarmi fu il suo sorriso e le sue citazioni in puro pensiero positivo; o forse fui solo egoista. La solitudine in cui viveva non mi creava complicazioni e m’illudevo d’avere tutto sotto controllo.

    Comunque, come diceva mia nonna, del senno di poi sono piene le fosse, quindi, ecco come si sono svolti i fatti.

    Due

    2. Il giorno dei morti

    Ero via da quasi un anno. Quel due di novembre ero a New York e la mattina seguente Anastasia sarebbe salita sul volo Milano Mosca. Tornava in Russia dopo molti anni. Fu una decisione improvvisa che prese a fatica. Non era mai andata d’accordo con la sua famiglia, soprattutto con suo padre e con il più grande dei suoi fratelli. Tornava in Russia, a casa, per via della nonna; la sua babushka non stava bene e lei temeva che, insomma, quello.

    Faceva la dura ma ero certa che avrebbe barattato volentieri il biglietto per Mosca con quello per il posto più fetente al mondo.

    Come dicevo, tutto iniziò proprio quel due novembre lì. Quel giorno c’era un filo di nebbia e sembrava davvero il Giorno dei Morti. A Milano come a New York.

    Per salutare la partenza di Stasia, c’eravamo inventate la serata del Già sentiamo la tua mancanza. Matilde fece le cose in grande. Candele e incensini. In veranda appese dei ghiaccioli in vetro soffiato e li illuminò con una treccia di lucette dorate. Già sentiamo la tua mancanza sarebbe stata una gran serata. Lunga di sicuro.

    Cominciammo alle 16:40, al calar del sole su Milano. Da me mancava poco alle undici e, per coordinare l’atmosfera, tirai le tende e oscurai la stanza. Le birre erano nei frigo. Per cena avevamo, loro là e io qua, il paradiso delle schifezze, l’apoteosi del junk food riequilibrato da un numero sconfinato di ikura sushi (una base di riso ripiena d’uova di salmone) e di uramaki (avocado, salmone e riso con semini di sesamo). Stasia ne andava matta.

    Il pezzo forte della serata però era la no-stop televisiva: tutti gli episodi di Sherlock, ch’era un telefilm prodotto dalla BBC.

    Tutto andò come da programma, almeno fino all’inizio del quinto episodio, cioè il secondo della seconda serie. Matilde, appallottolata sul divano, s’era infatuata dell’investigatore inglese. Stasia, stravaccata al suo fianco, mandava giù sorsi di birra cruda e ciuffi di patatine fritte aromatizzate all’aglio. Luisa, la quasi-terrier col collare color panna, voleva ardentemente quelle patatine. Seguiva la mano di Stasia, dal sacchetto alla bocca, con un’intensità che ricordava il raggio trattore dell’Enterprise.

    Stasia le tirò una patatina per togliersela di torno. Luisa trattenne lo slancio, fece il giro sul bordo del tappeto, e poi la raccolse da terra. Thelma, da sotto il tavolo, tirò su la testa e fissò Anastasia come per dire, e io? Stasia scelse una patatina mostruosamente grossa e unta. La mostrò a Thelma per vederla fremere, poi lanciò. Anche Thelma fece il giro largo.

    Stasia si sporse oltre il bracciolo del divano, incuriosita. Osservò con attenzione la porzione di pavimento che le cagnette evitavano, poi la riguardò di taglio, stringendo gli occhi. Fece una smorfia. Con un colpo di reni si alzò e andò in cucina a prendere un’altra birra. Thelma e Luisa la seguirono compiendo una leggera deviazione per passare, in fila, sopra il bordo del tappeto.

    Di solito nessuno fa attenzione a certi particolari, ma Stasia quella volta lo fece. E fu la prima vittima di Sherlock del nostro gineceo.

    – Ehi, tu ha visto? – chiese con la parlata lunga e storpia, da russa.

    Matilde infastidita si strinse nelle spalle e continuò a fissare la tivù.

    – Loro no passano da lì! – insistette Stasia indicando il pavimento.

    – Uhm, lo so – le rispose la Mati.

    – Come lo so!?

    – Non ci passano mai.

    – Come non passano mai!?

    – Sh! Chiedilo a lei – intendendo me dentro il computer – i cani sono suoi.

    Stasia, birra in mano, si piazzò davanti al portatile. La connessione era aperta, lei vedeva il mio parquet newyorkese in legno chiaro di cui andavo molto fiera. Io invece mi godevo delle scene in movimento: mano; felpa griffata; canotta bianca squadrata, trendy, da tomboy; sventagliata di capelli.

    – Eh, tu ha sentito, sì? – disse.

    Avevo sentito.

    – Ma sì, lo hanno sempre fatto – risposi dando alla voce un tono scontato, per tagliar corto. Non servì. Anastasia non è una che si fa liquidare facilmente.

    – Giura!

    – Giuro.

    – E tu non ha mai detto niente?!

    – Dovevo?

    – Da! Io passo sempre lì!

    – Anche io e con ciò?

    – Come con ciò?! Se loro no passa, c’è buon motivo!

    – È solo un vezzo, un’abitudine che hanno preso.

    – Niet! Dove sono nata cani capiscono se…

    – Stasia, per favore, non fare la russa.

    – Ma io sono russa!

    – Per metà.

    – No, tu quando ha sangue russo, tu sei tutto russo e…

    La Mati saltò giù dal divano.

    – Basta! Basta basta basta! Non sento un nulla! Voglio vedere il film – strillò.

    Aveva i capelli elettrici, un’aureola di follia bionda attorno alla testa. Alzò il volume del televisore puntando il telecomando manco fosse una bacchetta magica. Però, come dicevo, Anastasia non era una che si faceva zittire.

    – Niet basta! Io parlo! – protestò perdendosi qualche articolo e distorcendo le vocali, come faceva sempre quando era irritata. Matilde si rialzò con la stizza e i pugni chiusi, cercando d’intimidirci. Non faceva paura, faceva ridere.

    Anastasia le sparò contro il fascio di luce della torcia che teneva come portachiavi. Tipo follow spot di scena.

    – Tah tah! – disse sottolineando il pathos. Matilde avanzò furiosa e si fermò sull’orlo di quel confine immaginario, quello che divideva il mondo delle cose normali da quel punto del pavimento. Ci schioccò un’occhiata di sfida, saltò dentro quel punto a piedi uniti, urlando banshee!

    Non sparì in un buco spaziotemporale. Però il rumore ovattato dei piedi nudi che colpivano il suolo fu coperto da uno strappo, una specie di sfrap. Ma forte. Elettrificante.

    – Cosa è stato? – disse

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1