La biblioteca dei sospiri
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La biblioteca dei sospiri - Stefania Perugini
Stefania Perugini
La biblioteca dei sospiri
Cavinato Editore International
© Copyright 2016 Cavinato Editore International
ISBN: 978-88-6982-389-3
I edizione 2016
Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi
© Cavinato Editore International
Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy
Q +39 030 2053593
Fax +39 030 2053493
cavinatoeditore@hotmail.com
info@cavinatoeditore.com
www.cavinatoeditore.com
Realizzazione ebook a cura di Simone Pifferi
Indice
PROLOGO
INTRODUZIONE
Capitolo 1
QUANDO TUTTO EBBE INIZIO
Capitolo 2
IL SEGNALIBRO MISTERIOSO
Capitolo 3
DENTRO L’INCUBO
Capitolo 4
IL PIANO
Capitolo 5
IL CANTO DELLA CIVETTA
Capitolo 6
OLTRE IL PORTONE
Capitolo 7
ANTICHI MANUALI
Capitolo 8
IL BIBLIOTECARIO
Capitolo 9
LA BIBLIOTECA DEGLI ANTICHI SAPERI
Capitolo 10
SUSSURRI
Capitolo 11
TROPPO TARDI
Capitolo 12
ACRÒSTIRO SI SVELA
Capitolo 13
IL SOMMO POETA
Capitolo 14
IL RACCONTO DI DAVID
Capitolo 15
LE OMBRE
Capitolo 16
CONFESSIONI
Capitolo 17
LASCIATE OGNI SPERANZA
Capitolo 18
RIVELAZIONI
Capitolo 19
LA TRAMES
Capitolo 20
IL NOSTRO TURNO
Capitolo 21
L’ASPIRANTE SCRITTORE
Capitolo 22
LA STORIA DI BEA
Capitolo 23
LA VENDETTA DEL SUSPIRANTE
Capitolo 24
BEA ALL'ATTACCO!
Capitolo 25
RICHIAMI NELL'OMBRA
Capitolo 26
CANDIDI INCONTRI
Capitolo 27
LA BATTAGLIA
Capitolo 28
LA CHIAVE
Capitolo 29
UNA SERENA NOTTE DI TEMPESTA
Capitolo 30
SENSI DI COLPA E NOSTALGIA
Capitolo 31
BUGIE
Capitolo 32
LA STRATEGIA
Capitolo 33
UN RONZIO NEL BUIO
Capitolo 34
IL CAPOLAVORO
Alla mia luminosa, piccola Stella
che rende magico il mio mondo
PROLOGO
Il ragazzo correva come il vento, con il cuore che martellava angoscioso in gola. Sebbene i suoi piedi volassero nelle scarpette da corsa, Loro sembravano essere ancora più veloci. Guadagnavano terreno, ne era certo, ma un rombo sordo e martellante nelle orecchie gli impediva di capire quanto esattamente gli fossero addosso.
I loro sospiri gli sfioravano la nuca come polpastrelli di dita gelide, cadaveriche, e quel rumore disgustoso di sfregamento, il ronzio terrificante, lo avviluppava come in una bolla. Un rumore da brividi. Gli ricordava… il frinire di cavallette nelle notti serene d’estate, ma amplificato ed esasperato in proporzioni mostruose.
Arrivato alla fine del corridoio, indugiò per qualche attimo e scrutò affannosamente fra gli scaffali. File e file di corridoi poco illuminati davanti a lui, tutt’intorno a lui. Da dove era venuto? Qual era l’uscita? Imboccò fulmineo un corridoio a caso, di fronte.
Laggiù in fondo… Alla luce saltellante delle candele gli sembrò di scorgere qualcosa. Una porta, forse?
Ormai le sue forze erano quasi allo stremo. Gli sembrava di correre da un tempo infinito. Quella sala non gli era affatto apparsa così lunga quando vi era entrato. Prima che tutto iniziasse… ore fa.
Ecco, aveva quasi raggiunto quella macchia scura in fondo. Era davvero una porta. Ce l’ho quasi fatta, pensò.
QUASI!!! esplose all’improvviso una voce estranea dentro la sua testa. Un timbro intriso di crudeltà, che ora stava ridendo sguaiatamente. All’udire quei latrati, il ragazzo immaginò un ghigno che si apriva su zanne giallastre. La risata derisoria e maligna di chi si stava divertendo un mondo sulla sua paura.
«AHHHHHH!!!» L’urlo di terrore gli uscì incontrollabile, dal profondo delle viscere.Davanti a lui si erano spalancati un paio di occhi gialli. Brillavano diabolici e felini, galleggiando nella macchia oscura della porta.
David si sforzò di bloccare la sua corsa. Per un secondo o due rallentò disperatamente le gambe lanciate al galoppo. Si arrestò; riuscì addirittura a indietreggiare di qualche passo.
Fu allora che la voce gli parlò di nuovo. Proveniva da quegli occhi davanti a lui, ma anche da ogni direzione, da tutt’intorno. Il Male era ovunque. «Te ne vai sul più bello, mio caro?». Un sibilo metallico e strisciante che non aveva niente di lontanamente umano né di cordiale. «Non abbiamo ancora messo mano alla tua storia. Non vorrai mica privarti di un epilogo entusiasmante?»
L’orrore gli strizzò i polmoni come una spugna. Gli sembrava di non riuscire a inspirare nemmeno un sottile filo d’aria. Eppure faticava ancora a credere che quel che stava vivendo non fosse un incubo. Nello stesso tempo si sentiva orribilmente presente e vivo. Purtroppo era tutto reale.
Una creatura terrificante si materializzò a pochi passi da lui, fuoriuscendo dalle tenebre. La luce in quel tratto era molto fioca, ma sufficiente perché il ragazzo fosse sicuro di quel che vedeva. Era una mostruosità impossibile, una bestia dai lineamenti familiari eppure repellenti. La pelle di quel viso animalesco sembrava verdastra alla luminosità malata delle candele. Un sorriso raccapricciante si stava spalancando sulla bocca sottile ed enorme.
«Co…co…Cosa sei tu?», riuscì a chiedere il ragazzo, prima che l’orrore alla vista di quelle fauci gli spegnesse del tutto la mente. Clic.
Con uno scatto della zampa, la creatura gli afferrò la spalla. Lo avvolse un tanfo untuoso di decomposizione, di scure ombre scarnite. Un odore marcio, putrescente. Odore di tomba. E il ragazzo vide quella faccia mostruosa trasformarsi, gli occhi neri come carbone sporgere dalle orbite e divenire rotondi bulbi animaleschi.
Ciò a cui ebbe la disgrazia di assistere subito dopo fu tanto orripilante che bloccò la sua mente in un istante. Con una risata rauca, strisciante come lo sfregamento di due superfici ruvide, la creatura cominciò a tirare il ragazzo verso di sé, dentro quella tenebra spaventosa.
A quel punto l’orrore fu troppo terrificante. Gli occhi del ragazzo rotearono e una nebbia scura gli velò pietosamente lo sguardo. L’ultima cosa che vide prima di accasciarsi a terra, furono le pupille verticali di un secondo paio di occhi, felini e iridescenti, che gli fecero un occhiolino sardonico.
Poi svenne.
INTRODUZIONE
Da sempre ho un terrore abissale delle cavallette. Da quando posso ricordare, e vi assicuro che posso tornare indietro con la memoria fino ai miei due anni e mezzo di età, non c’è mai stata volta che quei mostriciattoli verdastri con i loro lunghi corpicini e le strane zampette raspose non mi abbiano fatto fare un salto schifata, quando incrocio la loro traiettoria volante o li scopro, con la coda dell’occhio, attaccati al muro ruvido di casa, pronti a spiccare il balzo.
Prima mi sembrava solamente che mi osservassero con cattiveria dal profondo di quegli occhietti neri, fissi e maligni. Quel piccolo sguardo animalesco mi trasmetteva un senso di pericoloso disagio.
È un errore considerarle piccole creature innocue, già allora lo percepivo, ne ero cosciente. Però tutti i miei tentativi di spiegare l’evidenza rimanevano inascoltati e mi procuravano risposte ironiche e prese in giro, soprattutto da parte di mio fratello.
Ma c’è molto più di quello che sembra, dentro al carapace di una cavalletta. Oggi so come non mai quanto le mie sensazioni di allora fossero vere. Ma proprio ora che ho prove che mostrino l’evidenza, non ho modo di farlo.
Mio fratello Mario invece aveva sempre avuto una passione incondizionata per le cavallette: addirittura le allevava. Le collezionava. Trascorreva ore e ore a setacciare le radici degli ulivi nel podere abbandonato dietro casa nostra. Scompariva in quell’erba alta e inselvatichita, che raggiungeva scavalcando la piccola recinzione metallica che corre intorno al giardino posteriore.
La nostra casa sul davanti ha un piccolissimo fazzoletto di terra, sofferente per il troppo sole, che la distanzia dalla strada comunale. Girando intorno alla casa, sui lati il praticello si fa sempre più secco fino a trasformarsi in una striscia di ghiaietta bianca che ti accompagna sul retro. Qui c’è il vero giardino di casa, di un verde deciso, al riparo dell’ombra del ciliegio e dei nostri tre ulivi. Una recinzione metallica, alta sì e no un metro, lo separa da un grande uliveto abbandonato. Mio fratello la scavalcava più volte al giorno; poi, con l’aiuto di un bastone, rovistava fra l’erbaccia alta che copriva le caverne nelle radici nodose, alla ricerca di cavallette imboscate. Se le trovava, le portava in casa e da quel momento diventavano ospiti della sua camera.
Le racchiudeva tutte in gabbiette a maglie fitte o in una grande teca di vetro, simile ad un acquario, che teneva accanto a sé sulla scrivania. Ancora oggi non ho capito del tutto come facesse a sfamare e a far crescere quegli animaletti nati selvatici, ma non ho la minima intenzione di chiederglielo né credo che lo farò mai.
All’epoca Mario diceva sempre che voleva allevare una cavalletta enorme, la più grande mai vissuta sulla faccia della Terra. Avrebbe voluto diventare famoso per quello. A mio fratello piacevano le cose spaventose. Pensate un po’. Quanto a me, questa sua passione stravagante mi faceva ammattire per il disgusto.
Non mancavano neanche incidenti di percorso. Un pomeriggio una cavalletta grigia riuscì a sfuggire alla prigione, imboccò la porta della sua camera e me la trovai davanti al viso. Scendeva svolazzando le scale diretta al salotto, tutta un frullare di alette disgustose. Terrorizzata, avevo lanciato l’allarme nell’unico modo che conoscevo: strillando e roteando le braccia come un mulino a vento. Poi lo spirito di sopravvivenza mi aveva spinto a sfilare un libro dallo scaffale lungo il corridoio per mettermelo sui capelli, aperto e con la copertina all’insù. Avevo paura che al mostriciattolo potesse venire la pessima idea di scambiare la mia testa per una pista d’atterraggio. Invece la cavalletta aveva proseguito il suo volo scartando a destra e sinistra, come un piccolo elicottero impazzito.
Ffffrrrzzzzz… Dopo quello in cui mi sono ritrovata catapultata, e ciò a cui ho avuto la disgrazia di assistere, ora il solo pensiero del rumore di quelle alette sottili e vibranti mi fa accapponare la pelle. Ma non voglio anticipare la storia: di questo vi racconterò più avanti.
Insomma, lanciai alla cavalletta fuggitiva prima una pantofola, poi l’altra. Seguirono un portafoglio, che papà aveva lasciato sul mobile del corridoio, e, attraverso la porta del bagno, il portasaponette di plastica e la spazzola di legno di mamma. Ma la maledetta era riuscita a evitare tutti i miei siluri. Intanto avevo cercato rifugio dietro la tenda della doccia, continuando a strillare.
Non ridete, per favore. Posso immaginarvi sorridere mentre leggete queste parole, ma tenete a mente che per me era una situazione terrorizzante e che tutto si concentrò nell’arco di una manciata di minuti. Nella foga di nascondermi, i miei piedi scalzi scivolarono sul piatto umido