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Pocofuturo
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Pocofuturo

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Questo libro è composto da quattordici racconti, brevi e meno brevi. Ritratti di adolescenti messi di fronte alla malattia, alla sofferenza o semplicemente refrattari a uniformarsi alle regole che qualcuno ha deciso per loro. Vite di giovani e meno giovani presi tra solitudine e incapacità di immaginare per sé o per il mondo un futuro credibile o anche solo accettabile.

Il titolo alla raccolta, Pocofuturo, è stato scelto perché in qualche modo il futuro si è contratto, ha perso di significato, è scivolato verso un futuro prossimo, un presente dilatato, atemporale. Pochi sogni, nessun ideale da realizzare: ognuno chiuso nel proprio angusto mondo, spesso intriso di rimpianto, di rancore.

Le uniche figure che conservano umanità, capacità di emozionarsi, energia vitale, sembrano essere i giovani marginali, le ragazze in fuga, i bambini che anche di fronte alla morte sono capaci di reagire, affrontandola.

Così, tra le pieghe di un’esistenza che sembra cristallizzata nell’inerzia e nell’apatia, può apparire d’improvviso una possibilità nuova, una speranza, persino l’amore.

Un libro pieno di gatti con nomi strani, di cani che si chiamano Platone, ma anche di adolescenti che del filosofo e della sua allegoria della caverna, sono affascinati.

Un racconto presenta un identico inizio per uno svolgimento e un finale completamente diverso, quasi fosse l’uno la cover o il remix dell’altro, come si usa tra i musicisti e i dj.

LanguageItaliano
Release dateOct 5, 2016
ISBN9788893370691
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    Pocofuturo - Sergio Beducci

    miserabili

    Gli occhi come il mare

    Cosa significava che sua madre era dovuta partire per un lungo viaggio? Che voleva dire che adesso era in paradiso? Sua madre era morta. Punto. Credevano che non capisse cosa volesse dire? Quando era successo al canarino, l’anno prima, lo aveva trovato lui, disteso e immobile sul pavimento della gabbia. Aveva aperto la porticina prendendolo in mano e la sua piccola testa si era subito piegata in un modo strano, come se il collo fosse diventato di gomma. Ruotando il polso era riuscito a fargli muovere la testa di qua e di là, a suo piacimento e ogni volta che voleva. Il padre lo aveva trovato così, in piedi davanti alla gabbia e col canarino ancora in mano. Gli aveva poggiato un braccio sulla spalla e per un po’ era restato in silenzio al suo fianco. Poi con cautela gli aveva preso di mano l’uccellino, a cui nessuno aveva mai dato un nome, e l’aveva messo sopra un tovagliolo di carta. Gli aveva spiegato che doveva essere morto pochissimi minuti prima, probabilmente nel sonno. Ecco, morire è quando il collo non riesce più a tenere salda la testa; quando gli occhi si chiudono e non si aprono più, oppure rimangono aperti ma non vedono nulla. A sua mamma era successa la stessa cosa; solo che lui dopo non aveva potuto vederla. Ogni volta che aveva cercato di entrare nella camera da letto, c’era sempre stato qualcuno che lo aveva preso per mano e lo aveva portato in un’altra stanza o gli aveva chiesto di mostrargli la bicicletta nuova che teneva nel garage. Poi c’era stato il funerale, i cugini che non vedeva da due anni, la gente che piangeva; era stato allora che era fuggito. Quando il prete aveva iniziato a parlare di sua madre senza nemmeno averla mai conosciuta, aveva approfittato di un momento in cui il padre gli aveva lasciato la mano ed era scappato via. Aveva corso come solo lui sapeva fare, veloce come la luce, veloce come il pensiero, più veloce ancora. Attraverso i vicoli e le scorciatoie che conosceva da sempre, era arrivato alla spiaggia e si era seduto sopra una barca rovesciata per recuperare un po’ di fiato e asciugarsi il sudore. Il mare quel giorno era come lo disegnava lui a scuola quando la maestra gli faceva usare le tempere e i fogli da disegno: senza onde, turchese vicino alla riva e in lontananza blu.

    Qualche turista si avventurava già sulla battigia, malgrado la stagione fosse solo agli inizi. Una bambina bionda, con un grande e buffo cappello rosso ciliegia, si stava avvicinando.

    «Ciao. Forse tra qualche giorno si potrà già fare il bagno...» gli disse fermandosi di fronte a lui e guardandolo negli occhi.

    «A me non importa di fare il bagno».

    «Non sai nuotare?»

    «Sì che so nuotare!»

    Cosa voleva da lui quella bambina con quello strano cappello-parasole e quegli occhi blu che lo fissavano? Desiderava stare da solo e guardare il mare.

    «Io ho nove anni, e tu?» continuò lei.

    Lui alzò le spalle senza rispondere e si mise a osservare un gabbiano che si era posato al largo; poi d’istinto si girò ancora, per vedere se gli occhi della bambina fossero veramente della stessa tonalità di quella del mare all’orizzonte. Sembrava di sì.

    «Io ne ho dieci» mentì.

    «Io però dimostro più di nove anni. Mia madre dice che potrei averne almeno dieci».

    «Mia madre io non ce l’ho più».

    «E perché?»

    Fino a quel momento non aveva pianto; nemmeno quando l’infermiera che accudiva sua madre lo aveva preso in braccio e lui aveva sentito suo padre fare quel verso prolungato e sconcertante che sembrava un lamento. Perciò arricciò il naso e con un gesto veloce e quasi violento si asciugò la lacrima che gli spuntava dall’occhio destro.

    «E tu perché porti quel ridicolo cappello? Non c’è nemmeno vento».

    «È perché sono una maga».

    «Non dire cavolate».

    «È vero. So fare magie».

    «Tipo?»

    «So piangere quando voglio».

    «Non è vero. Nessuno ci riesce».

    «Sì, invece. L’ho sempre saputo fare. Guarda...»

    Osservò la bambina mentre si sfregava con due dita i lati degli occhi chiusi; attese. Poco a poco le lacrime iniziarono a scenderle copiose sulle guance.

    Rimase incantato a vederle risplendere al sole. Si accorse di stare a sua volta per piangere. Ma ora non gli importava. Guardò gli occhi blu pieni di lacrime.

    «Mi piacerebbe avere anche io gli occhi come i tuoi».

    «Allora chiudili e avvicinati» rispose lei.

    Con le dita raccolse il proprio pianto e glielo passò sulle palpebre, sulle ciglia, unendolo alle sue stesse lacrime che adesso scendevano inarrestabili.

    «Ecco, ora li hai anche tu».

    Giovanna ha sempre fretta

    Giovanna ha sempre fretta. La mattina di solito apre gli occhi prima che la radiosveglia si accenda, si veste velocemente senza disturbare il marito e corre in bagno a sciacquarsi il viso. Scende in cucina e si riscalda il caffè del giorno prima. Prepara la colazione per due, perché altrimenti lui farebbe da solo riducendo la cucina in un immondezzaio. Mentre ascolta il notiziario alla radio e riordina la pratica in sospeso che si è portata dall’ufficio, sbocconcella una brioche, attenta che le briciole non finiscano nella cartellina dove tiene i fogli. Esce da casa puntuale, con la busta piena di bottiglie di plastica già schiacciate che getta nell’apposita campana, e sale sulla sua Fiat 500 colore Giallo birichino (extraserie) con interni Frau (cuoio vintage) scelta personalmente tra 132 possibili allestimenti. Si accorge con lieve raccapriccio che qualcuno le ha sporcato un vetro con una specie di materiale limaccioso arancione che sembra panna. Ma è Carnevale! si ricorda improvvisamente. È Martedì Grasso porca miseria, in ufficio avranno portato le frappe e le castagnole...

    Esce dal garage a marcia indietro, fa manovra guardando contemporaneamente suo marito Marco che la saluta dalla finestra della cucina e imbocca decisa il vialetto d’uscita.

    Oddio, speriamo non abbiano preparato scherzi in ufficio!

    Saluta Marco con la mano fuori dal finestrino e si immette nel viale già trafficato.

    Con tutto quello che ho da fare stamattina... devo parlare anche con il capo-vendite.

    Il Carnevale è una festa che non ha mai capito. Anche da bambina non amava travestirsi... Una volta sua madre le aveva comperato il tipico costume da fatina con le ali rosa e una ridicola bacchetta magica, ma lei aveva fatto in modo di rovinarlo, facendolo lacerare dalle unghie affilate del suo gatto Bimbo.

    Il Carnevale è una festa puerile che serve solo a sporcare le strade e a rendere ancora più stupidi i giovani, specie se dell’altro sesso decide.

    Come in ufficio... Quasi tutti maschi, tutti perdenti! A trenta, persino a trentacinque anni passavano ancora il week-end in discoteca o nei pub, e il lunedì mattina lei doveva ascoltarsi quei loro inutili resoconti di sabati sera vuoti e senza senso. O magari, interminabili discussioni su partite e squadre di calcio. Sfigati e senza uno straccio di ragazza. Un paio di loro le sbavavano pure dietro...

    Solo quando si ferma al semaforo Giovanna si accorge che il cellulare sta squillando. Lo sfila dalla borsetta Alma (Louis Vuitton, certificata originale) e si rende conto che è sua madre.

    Vorrà ricordarmi che oggi pomeriggio devo accompagnarla dallo specialista pensa.

    Decide di non rispondere, ma il cellulare continua a squillare con quel trillo che riproduce il suono dei vecchi telefoni SIP e che tanto aveva desiderato, ma che da qualche giorno la esaspera. Alla fine è costretta a rispondere.

    «Mamma, sono in auto e sto andando al lavoro! Lo sai che non posso guidare e parlare al telefono, è proibito!»

    La saluta un poco bruscamente promettendole che non si dimenticherà dell’appuntamento. Ha il pomeriggio e la serata completamente impegnate, tra lo specialista della madre, la palestra e la

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