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Pachakuteq e il vecchio Scrittore: Viaggio tra l'antico e il moderno Perù
Pachakuteq e il vecchio Scrittore: Viaggio tra l'antico e il moderno Perù
Pachakuteq e il vecchio Scrittore: Viaggio tra l'antico e il moderno Perù
Ebook851 pages12 hours

Pachakuteq e il vecchio Scrittore: Viaggio tra l'antico e il moderno Perù

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About this ebook

Alessandro Scalzi è un anziano scrittore italiano che si è trasferito in Perù per studiarne le tradizioni, gli usi e i costumi, e per descrivere la sua gente. Innamoratosi della cultura andina, si propone di applicarne alcune idee a un progetto sociale di successo. Lo

scontro/confronto tra quell’antica filosofia e i dettami della moderna società globalizzata, irrimediabilmente succube del denaro, porta lo scrittore a ragionare sulla possibile fine dell’uomo e a domandarsi se un mondo diverso sia ancora possibile. Reinventa così l’universo andino dei tempi del nono Inka, Pachakuteq (“colui che trasforma il mondo”), che fu un uomo geniale e di larghe vedute a cui si dovette il rinnovamento profondo di ogni aspetto della civiltà delle Ande.

Il romanzo, di stampo fortemente saggistico, si svolge su due differenti piani narrativi: le vicissitudini dello scrittore nel Perù moderno e le fasi salienti della vita e dell’opera dell’antico governante. Tali piani, che s’intersecano e si completano, girano attorno a un asse portante (scritto ora in forma di racconto, ora di saggio) rappresentato dalla ricerca e la successiva analisi dei fatti reali, o presunti tali, riportati dagli antichi cronisti della Conquista e dai moderni storici. Utilizzando uno stile originale e innovativo, il libro vuole far conoscere aspetti poco noti della storia e delle genti del Perù precolombiano ma, al tempo stesso, è una riflessione amara sul declino della nostra civiltà che rende necessaria la reinvenzione dell’uomo.
LanguageItaliano
Release dateSep 5, 2016
ISBN9788899603816
Pachakuteq e il vecchio Scrittore: Viaggio tra l'antico e il moderno Perù

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    Pachakuteq e il vecchio Scrittore - Sergio Rossa

    Sergio Rossa

    Pachakuteq e il vecchio Scrittore

    Proprietà letteraria riservata

    © 2016 by Sergio Rossa

    © 2016 by Genesis Publishing, Rodi (GR)

    ISBN Kindle: 978-88-99603-80-9

    ISBN ePub: 978-88-99603-81-6

    www.thegenesispublishing.com

    In copertina

    COVER DESIGN: © Genesis Publishing

    FOTO IN COVER: © Igor Terekhov

    ISBN: 978-88-99603-81-6

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Trama

    Capitolo I I khipu del lettore di nodi Condoriri

    Capitolo II Sfumature di un tramonto

    Capitolo III El gringo

    Capitolo IV Il mio angelo

    Capitolo V Primo monologo del giovane Pachakuteq

    Capitolo VI Il mito dei fratelli Ayar

    Capitolo VII El gran tonazo

    Capitolo VIII A proposito del mito del fratelli Ayar

    Capitolo IX Le dinastie incaiche

    Capitolo X La struttura sociale andina

    Capitolo XI Machupikchu

    Capitolo XII Scelte difficili

    Capitolo XIII L’ascesa degli Inka

    Capitolo XIV Secondo monologo del giovane Pachakuteq

    Capitolo XV Una guerra persa

    Capitolo XVI Terzo monologo del giovane Pachakuteq

    Capitolo XVII I limiti della democrazia

    Capitolo XVIII Panem et circenses

    Capitolo XIX I Ch’anka

    Capitolo XX Il mito del figlio del Sole

    Capitolo XXI Verso la guerra contro i Ch’anka

    Capitolo XXII Rosa e Tavo

    Capitolo XXIII Inkaq Rantin Rimariq Qhapaq

    Capitolo XXIV Il cuore del puma

    Capitolo XXV Nella selva peruviana

    Capitolo XXVI Quarto monologo del giovane Pachakuteq

    Capitolo XXVII Al posto di comando

    Capitolo XXVIII L’organizzazione dell’esercito inka

    Capitolo XXIX I Ch’anka sono alle porte

    Capitolo XXX La battaglia di Qosqo

    Capitolo XXXI Gioie, ripicche e timori

    Capitolo XXXII Un’occhiata alle cronache

    Capitolo XXXIII Una nuova visione della guerra

    Capitolo XXXIV La vittoria definitiva sui Ch’anka

    Capitolo XXXV L’ascesa al potere

    Capitolo XXXVI Prime difficoltà

    Capitolo XXXVII Preparativi

    Capitolo XXXVIII L’incoronazione

    Capitolo XXXIX Primi anni di governo

    Capitolo XL La conquista del Qollaw

    Capitolo XLI Quinto monologo di Pachakuteq

    Capitolo XLII La svolta

    Capitolo XLIII La purezza della lingua

    Capitolo XLIV L’ultimo sforzo bellico

    Capitolo XLV La rappresentazione temporale di Qosqo

    Capitolo XLVI La rappresentazione spaziale di Qosqo

    Capitolo XLVII Lima

    Capitolo XLVIII Il sistema dei seq’e

    Capitolo IL Il parziale passaggio di consegne

    Capitolo L Le lacrime del paqo

    Capitolo LI Ultimo monologo del vecchio Pachakuteq

    Il Sistema dei Seq’e di Qosqo

    Glossario dei termini Qheswa o Quechua

    Ringraziamenti

    Note

    Trama

    Alessandro Scalzi è un anziano scrittore italiano che si è trasferito in Perù per studiarne le tradizioni, gli usi e i costumi, e per descrivere la sua gente. Innamoratosi della cultura andina, si propone di applicarne alcune idee a un progetto sociale di successo. Lo scontro/confronto tra quell’antica filosofia e i dettami della moderna società globalizzata, irrimediabilmente succube del denaro, porta lo scrittore a ragionare sulla possibile fine dell’uomo e a domandarsi se un mondo diverso sia ancora possibile. Reinventa così l’universo andino dei tempi del nono Inka, Pachakuteq (colui che trasforma il mondo), che fu un uomo geniale e di larghe vedute a cui si dovette il rinnovamento profondo di ogni aspetto della civiltà delle Ande.

    Il romanzo, di stampo fortemente saggistico, si svolge su due differenti piani narrativi: le vicissitudini dello scrittore nel Perù moderno e le fasi salienti della vita e dell’opera dell’antico governante. Tali piani, che s’intersecano e si completano, girano attorno a un asse portante (scritto ora in forma di racconto, ora di saggio) rappresentato dalla ricerca e la successiva analisi dei fatti reali, o presunti tali, riportati dagli antichi cronisti della Conquista e dai moderni storici. Utilizzando uno stile originale e innovativo, il libro vuole far conoscere aspetti poco noti della storia e delle genti del Perù precolombiano ma, al tempo stesso, è una riflessione amara sul declino della nostra civiltà che rende necessaria la reinvenzione dell’uomo.

    a Maristella

    «Qui ad Atene noi facciamo così:

    il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi,

    per questo è detto democrazia; le leggi, qui, assicurano

    una giustizia eguale per tutti; qui un cittadino non

    trascura i pubblici affari quando attende le proprie

    faccende private, ma in nessun caso si avvale delle

    pubbliche cariche per risolvere le questioni private;

    qui un uomo che non s’interessa allo Stato noi non

    lo consideriamo innocuo, ma inutile.

    Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà,

    ma la libertà sia solo il frutto del valore.

    Qui ad Atene noi facciamo così.»

    [Pericle - Atene, 431 a.C.]

    Capitolo I

    I khipu del lettore di nodi Condoriri

    Gabriel Kurasi Waruconde era stato un uomo stimato e, in un certo modo, famoso. A San Juan, il villaggio dove viveva, era conosciuto da tutti. Gli abitanti più vecchi parlavano volentieri delle sue grandi doti e si dispiacevano per il degrado in cui era caduto; i giovani, invece, lo consideravano eccentrico e anche un po’ matto, e lo canzonavano quando lo vedevano. A Gabriel non importava; a dire il vero, neanche se ne accorgeva. Passava il tempo accoccolato presso la porta della sua modesta abitazione completamente ebbro, aspettando che Wiraqocha lo chiamasse. Non desiderava più vivere. Gli dèi lo avevano precipitato in un mondo inadatto e in un tempo sbagliato. La sua vita, sempre che avesse avuto un senso, non aveva apportato nulla né alla sua né alle nuove generazioni. Eppure c’era stata un’epoca in cui il suo lavoro era apprezzato, ma Gabriel non se ne ricordava più. La derisione con cui era stato accolto il frutto delle sue lunghe e appassionate ricerche lo aveva stroncato. Nulla di quanto accaduto prima era rilevante né aveva ormai valore.

    Bisogna sapere che Gabriel Kurasi Waruconde era un paqo, un sacerdote, medico e spiritista andino. Non un surrogato di sciamano a uso del turismo, intendiamoci, e neppure un paqo qualsiasi: Gabriel aveva studiato medicina naturista all’università San Martín de Porras, a Lima. Il certificato di laurea faceva ancora bella mostra sulla parete opposta all’uscio di casa. Suo padre lo aveva iniziato all’attività sacerdotale, ma aveva voluto che si formasse pure una solida cultura scientifica.

    Ancora bambino, Gabriel dava a vedere di possedere attitudini e poteri differenti dai suoi coetanei. Era un essere solitario e di poche parole. Spesso camminava senza alcun timore per le alte distese fredde della puna[1] e qualche volta arrivava a giocare al limite delle nevi eterne. All’età di dieci anni volle sperimentare il terrore di dormire all’aperto durante una tormenta. Si buscò una bella polmonite, ma una volta guarito ritentò l’impresa, stavolta coperto con qualche poncho in più. I fenomeni naturali, soprattutto se magici (o apparentemente tali), lo interessavano e appassionavano. Non era mai sazio di chiedere informazioni e spiegazioni ai suoi familiari, che poi rielaborava e, in qualche modo, ritualizzava. Poco prima che concludesse la scuola secondaria, suo padre volle sapere cosa intendesse fare una volta finiti gli studi. «Il paqo, proprio come te» lo assicurò Gabriel. Il genitore rimase un momento pensieroso, poi disse «Bene, vedremo se ne hai la stoffa.»

    La prima prova che dovette sostenere fu il patto con Illapa, il fulmine. Restò solo e a digiuno sulla puna a fraternizzare con gli spiriti tutelari finché una saetta non gli cadde vicinissimo facendolo piombare in uno stato di semi incoscienza stipato di allucinazioni. Successivamente gli toccò bagnarsi in un lago nei pressi del ghiacciaio San Juan per ripulirsi dei concetti e delle sovrastrutture ideologiche e comportamentali, acquisite con la modernità, che lo allontanavano dal vivere in comunione con la natura. Dovette poi studiarsi e comprendere i propri sogni e le proprie visioni. Apprese a comunicare con gli antenati, a espellere i cattivi spiriti, a leggere la qoqa, a vedere le malattie nelle carcasse dei porcellini d’india o nelle uova, a conoscere le piante, a fare unguenti e impiastri, e tante, tante altre cose ancora. A vent’anni poteva già considerarsi un vero paqo andino. Gli disse suo padre

    «Nel mondo esistono molte altre piante medicinali e altri modi di curare. Studia, va all’università, conosci. Sai? a noi paqo è stato tramandato un detto dell’Inka Yupanki che dice: il medico erborista che ignora le virtù delle erbe o che, conoscendone alcune, non procura di conoscerle tutte, sa poco o nulla; converrà che lavori fino a essere perfettamente aggiornato per quanto attiene alle utili come alle dannose, se vuol meritare il nome di cui s’insignisce[2]. Tieni sempre ben presente, però, che ogni persona è un mondo a sé stante: ciò che giova a uno, può non andar bene a un altro. I metodi di cura basati su dati statistici sono la cosa più stupida inventata dall’uomo. E di un’altra cosa non scordarti: spesso il corpo è la finestra dell’anima; curarlo non serve se non guarisce lo spirito.»

    Gabriel andò a Lima, apprese, conobbe, realizzò.

    Terminati gli studi, divenne in breve tempo il referente medico e religioso della comunità. Non si facevano i riti del "pago a la tierra" se non li officiava lui. Un defunto non era seppellito se prima Gabriel non aveva celebrato il tradizionale saluto andino. Un malato andava al posto di salute solo se ce lo inviava il paqo. Era tanto considerato che spesso era chiamato, per visite mediche o per officiare riti, nella cittadina di Yucay, a un paio d’ore di ripida discesa da San Juan, e qualche volta anche a Urubamba, il capoluogo provinciale. Là aveva conosciuto sua moglie Virginia e da lei aveva avuto due bambini, Gabriel Junior e Sami, e una bimba, Ch’aska.

    Nulla faceva prevedere il suo improvviso declino. Quale fu dunque la causa del tracollo? Gli anziani della comunità dicono che tutto cominciò quando venne chiamato a consulta da un vecchio pastore che viveva ai piedi del Nevado Illawaman[3].

    Secondo suo nipote Gregorio, i fatti si svolsero in questo modo.

    Dopo essere stato visitato, l’anziano uomo invitò il medico a bere un mate[4]. Nella cucina il paqo notò che in un angolo erano ammonticchiati un buon numero di khipu. Non erano le cordicelle che si usano ancor oggi per contare le greggi; erano composte da strani rettangoli cromatici tessuti accuratamente a mano da cui si dipanavano altri fili di diverse lunghezze e colori. Sui fili si vedevano chiaramente dei nodi piuttosto elaborati. I khipu erano malandati e un po’ scoloriti e qualcuno sembrava incompleto. Gabriel chiese al pastore che cosa ci facesse là quell’ammasso di corde. Questi gli rispose di averlo rinvenuto in una grotta, qualche anno prima. Un improvviso ed esteso periodo di calore aveva ridotto la superficie del ghiacciaio, evidenziando l’apertura in cui egli aveva trovato riparo durante un acquazzone. Disse pure che il luogo s’incontrava a una mezza giornata di cammino da casa sua, ma di non essere più in grado di ritrovarlo perché il ghiacciaio si era di nuovo espanso e la neve gelata aveva nascosto l’entrata della grotta.

    «Sicuramente sono khipu antichi» osservò il paqo. «Gli Spagnoli distruggevano tutti i khipu che incontravano perché, dicevano, erano opera del diavolo. In realtà, non capendoli, ne avevano paura. Temevano che il significato fosse tanto rivoluzionario da mettere in pericolo la loro supremazia. Forse anche la loro stessa cultura. O, per lo meno, potevano evidenziare una realtà diversa da quella che essi propinavano. Il problema» continuò con un pizzico di rammarico, «è che oramai non c’è più nessuno che li possa decifrare.»

    «Wiraqocha Paqo» ribatté il pastore, «wañukuqkunawan rimamuy. Qam ruwayta atinkim. Chaytam ninqa. Wasiyta khipunaqta apay. Ñawinchaykunaykipaq. Qam atinkim. Yapa quykuwayku kusikuyta. Chiqa nisqayki kaptin. Qam atinkim ruwayta[5].»

    Gabriel caricò il grosso e intricato ammasso di corde sul suo asino e se lo portò a casa. Dapprincipio non sapeva cosa farne, poi pensò che l’avvertire l’Istituto Nazionale di Cultura o il consegnarli a un qualche museo non sarebbe stata una cattiva idea.

    Sennonché una notte, quando ancora era indeciso su come comportarsi, fece un sogno strano ed estremamente vivido. Il vecchio pastore lo venne a visitare vestito secondo una foggia che, posteriormente, dopo aver consultato la Nueva Corónica di Guamán Poma de Ayala, identificò come inka. Disse di chiamarsi Condoriri e di essere l’autore dei khipu. Gli mostrò alcuni simboli, che egli riconobbe essere rettangoli presenti nelle cordicelle che teneva in casa, e gliene riferì il significato. Poi prese un khipu e glielo mise tra le mani dicendo: «Studialo, tu puoi farlo.»

    Gabriel si svegliò stringendo la coperta. Ripensò al sogno e s’accorse di ricordarlo perfettamente da cima a fondo. Sorrise, si girò su un lato e si riaddormentò. Il mattino dopo, una volta in piedi e pronto per iniziare la nuova giornata di lavoro, il sogno si ripresentò nei suoi pensieri nella propria interezza. Andò allora nella stanza dove teneva i khipu e cominciò ad analizzarli. Individuò subito il simbolo della Pachamama, la Madre Terra, e ricordò che in mancanza di cordicelle laterali il significato era lo stesso del simbolo rappresentato; ma se ne aveva, allora esso assumeva valori differenti in base al colore e al numero e tipo di nodi presenti sulla cordicella stessa. Un filo turchese a lato del simbolo della Pachamama significava l’Hanan Pacha, o mondo di sopra, uno ocra il Kay Pacha, o mondo in cui si vive, e uno rosso l’Ukhu Pacha, il mondo di sotto. I nodi semplici su un filo marrone, ossia dello stesso colore del khipu, davano al simbolo il valore della sillaba abbinata al numero di legature presenti; invece, i nodi sul filo ocra significavano azioni o stati relazionati con la terra: nodo semplice verbi indicanti un inizio dal nulla, come generare o nascere; doppio nodo verbi associati a un inizio da qualcosa già esistente, come svilupparsi, germogliare o fiorire; triplo nodo verbi che segnalano una conclusione, come morire o maturare. I nodi sulla cordicella di colore rosso indicavano azioni o stati riferiti al fuoco, quelli sulla cordicella turchese all’aria e al cielo in generale; nel caso il filo fosse bianco i suoi nodi si sarebbero collegati a verbi d’acqua. Se però i fili colorati si trovavano sopra o sotto il simbolo, allora il valore era doppio, ossia al nome del simbolo si doveva aggiungere quello del significato dei nodi sulle cordicelle.

    Il paqo prese una cordicella che scendeva dalla principale e cercò di decifrarla applicando le conoscenze acquisite nel sogno. C’erano tre simboli: quelli del Sole e della Madre Terra erano praticamente appiccicati tra loro. Sotto il simbolo della Madre Terra c’era un filo giallastro con un nodo semplice che lo collegava all’emblema del Fulmine. Gabriel lesse: Inti, Pachamama, generare, Illapa. Riorganizzò la frase e disse

    «Da Inti e dalla Pachamama si generò Illapa.» Restò sconcertato, non sembrava tanto difficile. Un’analisi più approfondita, però, rivelò cordicelle ben più complesse e con simboli sconosciuti. Comunque la prima cosa da fare era di ordinare i khipu e tentare di dar loro una sequenza. Pazientemente prese a svolgere l’ammasso di fili cercando di non romperlo. Una volta che i khipu furono sparsi nella stanza, esaminò ciascuno di essi alla ricerca di elementi comuni. Notò che la maggioranza iniziava con una piccola croce andina scura e metallica, che più tardi realizzò esser d’argento, dalla quale, oltre alla corda principale, si dipanava un filo con dei nodi. Si convinse che le legature presenti su quel filo dovevano indicare la progressione, sicché prese a ordinare i khipu in base al numero precisato da quei nodi. Quando ebbe finito poté rilevare che quattro khipu si riferivano a un argomento diverso. Tre di essi, infatti, iniziavano con una piccola conchiglia ed erano ordinati a partire dal due; dunque mancava quello con un solo nodo sul filo ordinatore. L’ultimo khipu non aveva simboli e principiava con una grossa e assai complicata legatura; Gabriel intuì che fosse numerico, non era, cioè, parlante.

    Grazie al sogno, in poco tempo era riuscito a dare una sequenza alle corde e a balbettarne qualche significato. Ora, però, iniziava il compito più difficile e per svolgerlo a dovere necessitava documentarsi, studiare i simboli e trovare un senso al loro dipanarsi.

    Decise allora di andare a Cusco e iscriversi come fuori corso alla facoltà di Archeologia dell’Universidad San Antonio Abad, così da poter accedere alla sua biblioteca.

    Questo, dunque, sarebbe stato il prologo da cui ebbero inizio le peripezie di Gabriel Kurasi Waruconde.

    I parenti e gran parte delle persone che lo conobbero sono d’accordo nel considerare che la decifrazione dei khipu prese a Gabriel molti, molti anni. Durante tutto quel periodo frequentò biblioteche, viaggiò in lungo e in largo per il Perù, s’intervistò con studiosi e storici, analizzò reperti archeologici e si riunì con altri paqo famosi. Ovviamente ne risentirono il lavoro e la famiglia, tanto che Virginia lo lasciò e ritornò a Urubamba con i figli già grandicelli.

    Né Gabriel Junior né Sami vollero seguire le orme paterne; di più, arrivarono a vergognarsi d’esser figli di cotanto padre quando il vecchio paqo cominciò a dipendere dall’alcol. Ch’aska, al contrario, ebbe sempre grande rispetto e ammirazione per il genitore. Spesso lo visitava, gli riassettava la casa, gli preparava il desinare di vari giorni e restava ad ascoltarne i progressi, le gioie e le delusioni. Si sposò presto, Ch’aska, ed ebbe subito un figlio che chiamò Gregorio, come il fratello del marito. Gregorio crebbe contagiato dall’amorevole prodigarsi della madre nei riguardi del nonno. Passata l’adolescenza, pensò di convincere Gabriel a iniziarlo al sacerdozio, ma poi si persuase che per essere paqo uno deve nascere con il dono, e lui quel dono non ce l’aveva. Decise, comunque, di studiare infermeria perché sentiva la necessità di essere utile agli altri. Pur non comprendendo completamente il compito che si era dato il nonno, cercava di assecondarne richieste e desideri, convinto com’era che si trattasse di qualcosa di veramente importante.

    Ma continuiamo con il racconto di Gregorio.

    Quando ebbe finito di decifrare i khipu, Gabriel si armò di foto e documenti e andò a Lima per sentire il parere di un noto storico e massimo conoscitore della civiltà incaica. Questi dopo aver visto le immagini e letto le conclusioni del paqo, aprì le braccia dicendo.

    «Senta signor Kurasi, mi spiace deluderla, ma non esiste evidenza alcuna che gli Inka ebbero una scrittura. Le foto che lei mi ha portato, mi scusi sa? ma non mi dicono niente se non che potrebbero riferirsi a un interessante esercizio enigmistico. Le testimonianze di Anello Oliva e di Padre Cumis, arrivarono molto tardi nel tempo e potrebbero ricondursi a quanto le dicevo or ora: un interessante esercizio enigmistico. Anche la citazione dal Padre Acosta non mi dice molto se non che i kiphu necessitavano di un lettore di cordicelle che avesse sviluppato doti mnemoniche specifiche. Nessuno tra i primi cronisti cita khipu parlanti, mentre sì, si fa referenza ai khipu numerici e mnemonici. In quanto all’antichità delle cordicelle da lei rinvenute, si potrebbe fare la prova del carbonio 14, certo, ma sarebbe un costo insopportabile per le sue possibilità. E anche per me, gliel’assicuro. Dovrebbe cercarsi uno sponsor, che so, una università o una fondazione, che le finanzino l’analisi. Tuttavia temo che non le sarà facile trovarlo. Come le dicevo, non esistono evidenze di sistemi di scrittura precolombiani in Perù, e reputo improbabile che qualcuno si carichi di un costo tanto elevato per provare che sarebbero potuti esistere khipu parlanti. Tanto più, come torno a ripeterle, che potrebbero essere interessanti esercizi enigmistici posteriori alla conquista. E poi» concluse il luminare, «mi scusi sa? ma il contenuto dei suoi khipu apporta poco o nulla a quanto già si sapeva sulla cosmogonia e la ritualità andina.»

    Il paqo, deluso e assorto, si accomiatò dicendo.

    «Forse sarebbe stato meglio che l’avessi contattata prima di iniziare il lavoro.»

    «Già!» fu il laconico saluto dello storico.

    Benché scoraggiato, Gabriel non s’arrese. Pensò che se avesse indetto una conferenza stampa presentando un khipu e le proprie conclusioni, avrebbe stimolato l’interesse degli ambienti scientifici. Perché, se ben era vero che i contenuti delle cordicelle non comportavano alcun progresso nella comprensione della civiltà andina, la rilevanza del ritrovamento del vecchio pastore consisteva nel fatto che gli antichi abitanti delle Ande, sì, ebbero una scrittura.

    Sicché affittò una sala della biblioteca del distretto di Wanchaq, a Cusco, e vi invitò giornalisti, accademici e Autorità. L’evento, però, non ebbe il successo sperato. I giornali più importanti se ne disinteressarono completamente e solo un periodico locale a scarsa tiratura pubblicò la notizia dell’avvenimento, ma solo come un fatto curioso. I pochi accademici presenti pareva si fossero accordati nel ritenere fantasiose le conclusioni di Gabriel, quantunque non tutti fossero in disaccordo sulla possibilità che gli Inka avessero avuto una scrittura. Un consigliere comunale s’interessò vivamente al khipu, ma con la finalità di comprarlo per metterlo in bella mostra nella hall del suo albergo a P’isaq.

    Stavolta Gabriel rimase scottato. E se avessero ragione loro? pensò. E se fosse stato tutto uno scherzo del pastore? Eppure i simboli erano tessuti troppo bene per essere stati fatti da persone prive di specifiche conoscenze dell’arte tessile. E il sogno? Come poteva un sogno tanto complesso adattarsi ai canoni della semplice suggestione?

    No, doveva rassegnarsi, a nessuno importava sapere se gli Inka avessero avuto o no una scrittura. Oramai la società non dava valore che alle cose che concedevano significativi ritorni economici. Certamente se la scoperta fosse stata fatta da un qualche luminare, ci sarebbe stato maggior interesse. Forse. Ma i luminari sono troppo pieni di sé per dar credito a persone estranee alla loro casta. «Non sono sufficientemente preparate» dicono.

    Ritornò all’antica vita di paqo. Ma il mondo già non era come prima. Anche il piccolo villaggio di San Juan era cambiato. Le nuove generazioni, vuoi perché venute a conoscenza delle sue strane vicissitudini, vuoi perché ne ignoravano le capacità, preferivano accorrere al centro medico e curarsi con farmaci chimici. Di fronte agli osannati ritrovamenti scientifici e tecnologici, le tradizioni e i riti andini stavano lentamente perdendo valore presso la gente e le celebrazioni, con sempre maggior frequenza, avevano finalità turistiche. Oltre a ciò, molti giovani s’inurbavano alla ricerca di migliori condizioni di vita e lasciavano il villaggio spesso per non più ritornare. Gabriel avrebbe potuto sopravvivere a tutto ciò, ma non poté sopportare d’essere canzonato e il suo lavoro di ricerca ridicolizzato.

    «Mi ero fatto il nodo su questa corda per rammentarmi qualcosa, potresti aiutarmi a ricordare cosa?» gli dicevano. Oppure «Mi puoi svolgere questa equazione? È un sesto grado.» O ancora «Conosci il simbolo della PanzaMama?» E «Sapevi che dal chilo e dal pomodoro si generò yapa[6].»

    Un bel giorno chiese a Gregorio di caricare sul dorso dell’asino i khipu e di accompagnarlo dal vecchio pastore. Questi era morto da tempo. La sua casa era disabitata e piuttosto malandata. Il tetto di paglia era parzialmente caduto e la porta non esisteva più. Gabriel depositò l’ammasso di cordicelle in quella che un tempo fu la cucina. Quando si accorse che il ghiacciaio si era ritirato per gli effetti del cambio climatico, disse a Gregorio di andarsene pure, che lui sarebbe tornato a casa una volta sistemata una faccenda.

    Il giovane indovinò che il nonno voleva disfarsi e dei khipu e della documentazione raccolta in tutti quegli anni di ricerche. Tornò a San Juan, analizzò superficialmente le carte ammonticchiate sul mobile-biblioteca, prese quelle che gli sembravano più importanti e le portò a casa sua a Urubamba. Quando tornò la settimana dopo a visitarlo, Gabriel gli raccontò di aver incontrato la grotta in cui il pastore aveva rinvenuto i khipu e di averveli riposti. Disse pure di aver bruciato tutto quanto concerneva quelle maledette cordicelle e di non volerne più sapere.

    Nonostante non passasse un fine settimana senza che Ch’aska o Gregorio lo andassero a trovare, la solitudine, provocata dall’assenza di ciò che aveva riempito la sua vita e dal poco lavoro offertogli, prostrò il paqo che lentamente scivolò nell’alcol. Il liquore di canna da zucchero gli faceva dimenticare i morsi della fame come e più delle foglie di coca, gli lasciava la mente libera e ottundeva i suoi sensi sì da non recepire i lazzi e il compatimento della gente.

    Successe poi che a Cusco capitò uno scrittore italiano che stava facendo ricerche sull’urbanistica della città antica, e l’Università gli offrì uno spazio di dissertazione su temi politici e ambientali. Durante l’evento venne fuori che il conferenziere aveva in mente di scrivere un romanzo sul nono Inka. Gregorio, che casualmente era presente, al termine della riunione s’avvicinò allo scrittore dicendogli di avere del materiale che avrebbe potuto interessarlo.

    Fu così che Alessandro Scalzi venne in possesso delle copie dei documenti di Gabriel Kurasi Waruconde. Il suo pragmatismo gl’impedì di prendere posizione rispetto al contenuto dei fogli, ma li considerò utili per aprire uno spiraglio sul mondo magico-religioso dei popoli andini. Decise quindi di utilizzarli per il suo romanzo così com’erano, magari con qualche nota a piè di pagina o chiarimenti tra parentesi quadre che si aggiungevano a quelli già posti dall’autore.

    Ecco i documenti:

    P. Acosta: "Son quipos unos memoriales ó registros hechos de ramales, en que diversos ñudos y diversos colores significan diversas cosas. Es increíble lo que en este modo alcanzaron, porque cuanto los libros pueden decir de historias, leyes, ceremonias y cuentas de negocio, todo eso suplen los quipos tan puntualmente, que admira. Había para tener estos quipos ó memoriales oficiales diputados, que se llaman hoy dia Quipo camáyo, los cuales eran obligados á dar cuenta de cada cosa, como los Escribanos públicos acá, y así se les había de dar entero crédito; porque para diversos géneros, como de guerra, de gobierno, de tributos, de ceremonias, de tierras, había diversos quipos ó ramales; y en cada manojo de estos tantos ñudos, ñudicos é hilillos atados, unos colorados, otros verdes, otros azules, otros blancos, y finalmente tantas diferencias, que así como nosotros de veinte y cuatro letras, guisándolas en diferentes maneras, sacamos tanta infinidad de vocablos, así estos de sus ñudos y colores sacaban innumerables significaciones de cosas. … Yo vi un manojo de estos hilos, en que una India traía escrita una confesión general de toda su vida, y por ellos se confesaba, como yo lo hiciera por papel escrito; y aun pregunté de algunos hilillos, que me parecieron algo diferente, y eran ciertas circunstancias que requería el pecado para confesarle enteramente."[7].

    Oliva: "Sono belli i loro quipos, poiché i saggi sostengono ch’essi hanno il valore religioso di unirsi al centro principale, il Sole. Chauarurac mi domandò se Cristo avesse scritto qualcosa: si come ciò non fu, mi rispose esser cosa logica, in quanto se si scrive con penna, inchiostro e carta, vengono vanificati simboli e parola. Nei quipos, per lui vera scrittura in quanto legamento infra Dio e l’uomo, son racchiusi lo spirito e l’idea. Per la qual ragione, i re ordinavano che i figli de’ notabili frequentassero scuole che venia insegnata l’arte della filografia dei quipos. Nei quipos che io stesso lessi, era narrato...".

    P. Cumis: "… i quipos, che al vulgo non è dato conoscere, quelli narranti la storia veritiera inga […] sono differenti di quelli di numero o aritmetici. Infatti, portano sulla corda, pendenti dalla principale, simboli elaborati, i quali venivano tessuti dalle acllas [vergini scelte], tant’è che i quipocamayoc [lettori di cordicelle] li portavano seco e l’inserivano sulle pendenti facendo nodi differenti. Di codesti quipos reali non si getta più seme ….".

    Condoriri: "All’inizio del tempo il mondo era materia amorfa e oscurità. E c’era lo spirito delle cose che vi aleggiava tutt’attorno. Quando lo spirito si congiunse con la materia, essa prese vita e si chiamò Pachamama [Madre Terra]. E dallo spirito e dalla materia viva si originarono Inti [il sole], Killa [la luna] e Qoyllur [le stelle][8]. Essi squarciarono la tenebra e donarono la luce. Il passaggio dall’oscurità alla luce definì i limiti delle cose. E da Tayta Inti [il padre sole], e dalla Madre Terra si generò Illapa [il fulmine]. E da Illapa e dalla Pachamama si produsse Unumama [Madre Acqua]. E Tayta Inti e Unumama diedero origine a Phuyu [la nuvola]. E Phuyu fecondò la Pachamama che procreò tutti gli esseri viventi. Nella Madre Terra avvenne la gestazione di piante, animali ed esseri umani. La Pachamama partorì nelle cavità dei monti i primi uomini di ogni etnia e i primi animali di ogni specie che da lì occuparono i territori loro assegnati. Lo spirito delle cose dispose allora le stelle in modo che tutti gli esseri avessero dei somiglianti nel cielo [alcuni nelle costellazioni e altri negli spazi oscuri interstellari] incaricati del loro incremento. Urqochillay e Katachillay rappresentano il lama e il suo piccolo, Chukichinchay è il puma, Mach’aqway raffigura il serpente, Qolqa riproduce i depositi, Atoq è il rospo, Lluthu è il somigliante della pernice, Michiq è il pastore[9]... Lo spirito originario ci regalò infine la Chakana[10] che è il ponte di comunicazione che unisce il mondo materiale con quello spirituale. In essa sono racchiusi i numeri sacri che definiscono le strutture religiose, i fondamenti filosofici del mondo andino[11] e... [frammenti di cordicelle incomprensibili, forse indicanti la separazione del tempo e le direzioni geografiche].

    ... esseri viventi… maschio e femmina… due parti… complementari… sopravvivenza … [il khipu è piuttosto rovinato, ma è chiaro che narra della dualità del cosmo e di ciò che in esso si muove].

    Così come creò dei somiglianti nel cielo, lo spirito originario ha popolato la terra di cose che assomigliano agli esseri viventi. Sta all’uomo cercarle, trovarle e venerarle. Quando un oggetto somigliante è trovato, diviene qonopa [deità tutelare personale o domestica]; esso va riposto in luogo sicuro e onorato con offerte affinché possa dare serenità e abbondanza. Ma l’uomo potrebbe trovarsi di fronte anche al suo somigliante. Se lo riconosce esso diventa il suo wayqe [suo fratello], e da questi sarà protetto per il resto della vita.

    Ogni elemento della natura ha propositi e norme [duali] che furono indicati dallo spirito originario e che quindi sono sacri. Essi si trovano modellati nella materia sotto forma di monti, valli, pianure, mari, laghi e fiumi. Affinché gli elementi possano convivere fra loro è necessario che non si rompa l’equilibrio stabilito dallo spirito.

    Ogni volta che l’uomo si appropria o si vuole appropriare di qualcosa che appartiene alla natura, causa uno squilibrio nello spirito delle cose che si deve ristabilire con un’offerta. Quando si taglia un albero o si caccia un animale, quando si ferisce la terra per seminarla o per raccoglierne i frutti, quando si costruisce una casa, si getta un ponte, s’innalza un terrazzamento, si scava un canale, per tutto ciò si deve chiedere il permesso allo spirito delle cose facendo un’offerta. Non farlo porta conseguenze gravissime come malattie, alluvioni, smottamenti, carestie, incendi e conflitti.

    Così come l’uomo sottrae quanto si origina nella natura, allo stesso modo deve fare dono dei frutti del suo lavoro, ossia di ciò che genera, produce o alleva, dal figlio ai frutti raccolti. Un’offerta è tale se ha un valore uguale o maggiore alla cosa di cui ci si è appropriati o ci si vorrebbe appropriare, oppure anche di ciò che si chiede. I sacerdoti sono le persone preposte a retribuire la natura attraverso i sacrifici; in questo modo si ristabilisce l’equilibrio tra il mondo spirituale e quello materiale.

    Il territorio in cui viviamo è composto da una parte di sopra e da una parte di sotto che rappresentano lo spirito e la materia. I punti di connessione costituiscono la linea dell’equilibrio... Le piogge e i corsi d’acqua mettono in relazione i luoghi sacri dell’alta puna con le terre di sotto dove si formano le nubi. Wayra [il vento] sospinge le nubi verso i luoghi sacri dell’alta puna così da concludere il ciclo vitale della natura.

    Ogni luogo sacro ha i suoi sacerdoti e richiede di offerte particolari conosciute da quei sacerdoti i quali, per mezzo di riti specifici, trasferiscono al mondo in cui viviamo il pensiero dello spirito delle cose. Un’offerta sbagliata o fatta senza l’intermediazione del sacerdote significa una mancanza di rispetto verso lo spirito delle cose che la rifiuterà. Le offerte… osservando nel fumo… [khipu rovinato, pare pure che ne manchi qualcuno perché i successivi narrano cose più concrete].

    Lo spirito delle cose non si può vedere, è immateriale e compenetra tutto ciò che esiste. I nostri antenati lo chiamarono Illa Teqsi Wiraqocha [ossia Wiraqocha[12] fondamento di luce]. Alcuni gruppi hanno voluto raffigurarlo come un essere che racchiude in sé caratteri umani e animali. La figura è umana e ha il bastone di comando ma è composta dal condor, dal puma e dal serpente, rappresentanti rispettivamente del mondo di sopra o dello spirito, del mondo di mezzo dove viviamo e del mondo di sotto dove andremo dopo la morte terrena per fecondare la Pachamama. Il condor esprime pure la bellezza e la maestosità, il puma la forza e l’energia e il serpente la saggezza.

    Da Wiraqocha e dalla Pachamama vengono tutte le cose ed esseri viventi. A essi ci si rivolge attraverso degli intercessori che sono i primi Awki [divinità] che furono creati. I luoghi dove li si prega e adora sono [sacri e noi li chiamiamo] waka. Ogni cosa o essere vivente che, per dimensione o diversità dal resto della propria specie, causa meraviglia e timore, pure quello è waka, sacro… Quando un uomo viene colpito da Illapa e non muore, significa che il fulmine lo ha scelto come suo rappresentante presso gli altri uomini; ne diviene quindi un suo sacerdote. Lo stesso può dirsi di un bimbo che viene alla luce quando tuona o quando il cielo è percorso dai fulmini. [Mancano alcune cordicelle]… ragazzi con atteggiamenti femminili e giovani donne con attitudini mascoline sono indirizzati al sacerdozio.

    Capitolo II

    Sfumature di un tramonto

    Il vecchio se ne stava sdraiato sul divano di pelle screpolata, la testa reclinata sul bracciolo, le mani incrociate sul ventre, la gamba sinistra aggrappata allo schienale, la destra tirata sui cuscini. Un tenue filo di bava gli scendeva lento sulla gota. Non fosse per il leggerissimo ronfare pausato, lo si sarebbe spacciato per morto.

    Indossava un paio di pantaloni di fustagno marrone inguainati in grosse calze di grigia lana d’alpaca; un consunto giaccone di pelo verdastro gli copriva il torso.

    Davanti a lui, sul tavolino di legno scrostato, che placido e irriverente occupava il centro della sala, attorniato da fogli stampati e fotocopie sbiadite, un taccuino era aperto su una pagina fittamente scritta su cui faceva bella mostra un’impegnativa penna di metallo. Accanto al taccuino, una bottiglia vuota e un bicchiere sporco di vino parevano indizi di una notte di veglia e di lavoro.

    Ólenka passò dal corridoio diretta in cucina. Il fruscio delle tre polleras, ossia le gonne indossate dalla donna una sopra l’altra, gli fecero aprire gli occhi.

    «Ólenka?» chiamò.

    «Sono io papacito[13]» gridò dalla cucina la donna.

    «Che papacito e papacito» rispose adirato l’uomo.

    «Non ti arrabbiare, papà.»

    «Non sono né papà né papacito

    «Va bene, va bene don Alejandro, non si agiti tanto, che non ti fa bene alla tua età.»

    «Un po’ ti danno del tu e un poco del lei, non si sa con che logica» farfugliò il vecchio ricomponendosi. «E poi… Ólenka… anche per i nomi si rivolgono all’estero.»

    «Come dice?» strillò la donna.

    «Niente, niente d’importante. Solo… ma perché i tuoi ti hanno imposto un nome russo?»

    «Non le piace?»

    «Non è che non mi piaccia, o meglio, non è questo il punto. Perché non ti hanno messo un nome andino?»

    Udì una risata fresca e poi la voce di Ólenka che diceva.

    «Mica sono belli i nomi andini!»

    Parafrasando Denis Fonvizin, citato da Dostoevskij nel suo Note invernali su impressioni estive, don Alejandro pensò La ragione il peruviano non ce l’ha, e considererebbe il possederla come sua massima disgrazia.

    «Certo, certo, se non è straniero non è bello, vero?» proferì sarcastico.

    «Oh don Alejandro, com’è monotono con questa sua cultura andina» disse la donna affacciandosi alla porta della sala. «Si metta il cuore in pace, l’antica cultura delle Ande non c’è più, è già da un bel po’ di tempo che non esiste più. Ed è pure inutile che se ne stia tutto il tempo sui libri rovinandosi gli occhi o facendo ghirigori sui quaderni con l’unico risultato di anchilosarsi le dita: a nessuno interessa più il mondo andino. Morto Arguedas, è morto il quechua ed è morto tutto, a dispetto del bilinguismo e della legislazione includente.»

    «Sa tutto lei» brontolò il vecchio mettendosi a sedere sul divano. «E intanto indossa la pollera» ridacchiò ironico.

    «Ho sentito, sa? Già, e allora perché non si è cambiato di nome e continua a voler essere chiamato Alejandro?» sbottò Ólenka ritornando in cucina.

    «Alessandro» sbraitò l’uomo stizzito «mi chiamo Alessandro, non Alejandro!»

    Quel nuovo sentimento di appartenenza, così vicino nel tempo al moto di biasimo provato per l’esterofilia peruviana, lo confuse un poco.

    «Che ci faccio in Perù?» si chiese. Cercò una risposta nelle pieghe della memoria, ma il corso dei suoi pensieri fu distolto dai rumori provenienti dalla strada sottostante. Indossò il giaccone per difendersi dal freddo mattutino della media Sierra peruviana, si alzò e si diresse a una delle finestre prive di tende che inondavano la sala di grigia luce della mattina. Dall’alto del terzo piano il suo sguardo s’affacciò sulla trafficatissima via in cui viveva. Il subbuglio della strada gli diede una leggera nausea. Gli costava fatica abituarsi al relativamente recente chiasso dopo tanti anni di tranquillità. Guardò il cielo bigio e gli scabri monti lontani avvolti in una tenue foschia, poi buttò un’occhiata sul centro cittadino e sulla cattedrale di cui, da quando il vicino dirimpetto aveva deciso di elevare di due piani la sua casa, non poteva vedere che la cupola. Sentì uno strano sentimento di paura e frustrazione; si rese conto di essere prigioniero di quel mondo che aveva tanto amato e che inesorabilmente stava cambiando.

    Già, riprese a pensare, che ci faceva in quel Paese oramai? Vi era arrivato per arricchire il bagaglio di tipi umani da utilizzare nei suoi libri. In seguito c’era rimasto per studiare la storia e i costumi delle Ande con l’idea di provvedersi di una cornice utopica per fantasticare su un’umanità differente. Infine aveva cercato di fabbricarsi degli strumenti sociali e intellettuali per proporre i tradizionali valori andini nel mondo moderno.

    Sennonché di libri non ne aveva più scritti se si eccettuava un’iniziale raccolta di racconti, e la proposta culturale, seppur di successo, aveva solo scalfito la granitica scorza della società post-industriale. Ora però che l’età avanzava e le forze cominciavano a lasciarlo, si ritrovava senza più una rotta da seguire.

    Per abitudine si diresse verso il bagno ma, arrivato in prossimità della porta che immetteva nella camera da letto, senza un motivo apparente vi entrò cominciando a frugare con gli occhi la stanza. Il suo sguardo fu attirato da un foglio incorniciato seminascosto tra i libri impilati sul comodino. Era una pagina di taccuino che conteneva spezzoni di una poesia letta sulla bacheca dell’università, dove a volte dava lezioni d’italiano nei corsi di maestria e dottorato, e ivi trascritta tempo addietro. Non ne conosceva l’autore ma ricordò che gli era piaciuta moltissimo. Prese la cornice, sedette sul letto e lesse. Mormorò:

    «Lo que encontraban mis pasos

    era la agonía de ese mundo

    que empezaba a extinguirse

    sin habérsele comprendido

    a cabalidad…

    Tal vez es mejor así…

    ---

    Y no volví la mirada…

    Mis pasos desandan el camino andado,

    en la guerra inútil de querer salvarlos,

    en lo íntimo de mi conciencia

    comprendí que nunca más volveré...»[14]

    Recitò i versi più volte, come per assaporarli, e trovò che si adattavano perfettamente al suo stato d’animo. Si sentiva perso nel labirinto del suo stesso esistere e realizzava confusamente che era necessario trovare una strada per uscirne tenendo ben chiaro che nulla di quanto c’era stato prima importava più. Un ciclo si era concluso, uno ulteriore che s’aggiungeva ai tanti passati; ora bisognava iniziarne di nuovi. Alla sua età certo non era cosa facile e, a voler ben guardare, affatto necessaria. Ma era appunto la non necessità che rendeva plausibile, desiderabile e finanche eccitante un nuovo inizio. Non c’era niente da perdere e tutto da guadagnare. Doveva solo far tesoro delle sue capacità e delle sue conoscenze. Doveva, cioè, ricominciare a scrivere per raccontare le Ande e le sue genti.

    Tuttavia Ólenka aveva ragione, della cultura andina, in Perù, c’era rimasto davvero pochino! Forse alcune contrade delle regioni meridionali si reggevano ancora secondo le antiche usanze, ma era più per mantenere un modello culturale in funzione del turismo che per scelta escatologica; oppure per ricevere i soldi delle Organizzazioni Non Governative di turno, intrappolate nella staticità intellettuale della rigenerazione di un improbabile paradigma anticapitalista. Anch’egli ne era rimasto affascinato e abbindolato fino a che non aveva realizzato, in un sussulto di kantiana memoria, che tra idee contrapposte è giusto e logico che si formino sintesi. E aveva pure compreso che, essendo ormai prigioniero di schemi e idiosincrasie che gli distorcevano la corretta visione dell’essere nel mondo, non sarebbe stato lui a poter proporre possibili soluzioni.

    Quello che invece Alessandro non capiva era che la modernità è invasiva, lo è sempre stata; è come una pianta infestante che dove mette radici non permette la sopravvivenza d’altra vegetazione. La modernità è una forma culturale sprezzante, depredatrice, che pur ammettendo dilazioni alla propria acquisizione, non tollera sintesi.

    Sicché doveva reputarsi fortunato per avere avuto il privilegio, in certe feste o riti e, in passato, nel lento trascorrere del quotidiano in lontane contrade, di vedere rivivere la tradizione; probabilmente però quell’onore non era condiviso da chi con quegli stereotipi ci doveva campare. Di fatto, i gioielli della cultura andina, la reciprocità, la responsabilità, la ridistribuzione, la solidarietà, l’equilibrio, erano rinchiusi in un mondo fatto di regole piuttosto rigide e assai poco pratiche. Era risibile che negli ultimi tempi nientedimeno che i seguaci della new age si erano impadroniti di quei cliché per mandare messaggi di pace e d’amore cristologico, quando non c’era nulla di più distante e inesatto nella cultura e nella storia dei popoli delle Ande.

    Ora, però, sono arrivato a un punto di non ritorno, pensò.

    Certamente poteva abbandonare tutto, dirsi che era stato solo un passatempo, accettare supinamente l’acre sapore della sconfitta e dedicarsi agli ozi della vecchiaia. La rinuncia e lo starsene con le mani in mano, però, non facevano parte del suo stile di vita. Meglio era continuare a investigare, cercare i peli nell’uovo, dannarsi sui libri e stare davanti a uno schermo fino a cadere addormentato con gli occhi rossi e lacrimosi.

    D’accordo, ma tutto questo perché? per dare un senso a che cosa?

    E pur ammettendo che ci fosse un senso, quella sua ricerca sul nono Inka a cui stava lavorando a chi poteva interessare? Non sarebbe diventata un saggio e dunque, poiché lasciava aperte troppe ipotesi, poteva non aver un gran valore per gli storiografi e gli studiosi del mondo andino. Sarebbe stata l’intelaiatura di un romanzo (d’accordo, i romanzi storici a volte hanno successo), ma il tema trattato non era particolarmente epico e verteva in modo particolare su un uomo e il suo concetto di Stato. Pertanto la lettura non sarebbe stata agevole e, probabilmente, non pochi lettori si sarebbero annoiati. E allora?

    «Interessa a me» si disse candidamente lo scrittore.

    Indubbiamente quella forma letteraria gli offriva una maggior libertà d’azione, spazi per l’invenzione, sì da poter immaginare fatti enigmatici, poteri occulti, personaggi fiabeschi e amori straordinari che vestivano, per così dire (e alla maniera di Umberto Eco), avvenimenti storicamente provati. Avrebbe potuto, per esempio, dipingere Pachakuteq e la sua moglie principale, Mama Anawarkhi, come una coppia assetata di potere che arrivava a ottenerlo con un colpo di stato; oppure proporre il personaggio come un novello Bruto che, pur senza uccidere il supposto patrigno, tramava per cambiare i vertici della Nazione e il suo ordinamento. Così facendo avrebbe arricchito la narrazione di suspense e magari di un po’ di sesso, che non ci sta mai male. D’altronde le informazioni sul nono Inka, pur essendo molte, fluttuavano tra la realtà storica e il mito; non c’era, infatti, sicurezza alcuna che fosse figlio di primo letto dell’Inka al potere o che non fosse un subdolo approfittatore, per cui qualsiasi verità romanzata che arrivasse a metterlo sul trono e lo definisse come ideatore dell’Inkario, sarebbe potuta andar bene.

    Quelle, però, non erano che moderne trovate letterarie che avrebbero potuto rendere più agevole la lettura ma non dare l’idea di una cultura differente. E poi l’interesse di Alessandro era un altro. La sua ricerca verteva sull’avere risposte a una questione sensibile e attuale: un mondo diverso è possibile? La struttura sociale andina, se avesse avuto l’opportunità di svilupparsi adeguatamente, sarebbe potuta diventare un’alternativa alla società europea e occidentale? Secondo lo scrittore, l’unico modo per dare risposte a quelle domande, seppur in modo ipotetico o utopico, era attraverso l’uso della forma romanzo.

    Alessandro era dunque rimasto in Perù essenzialmente per scrivere un romanzo, chissà l’ultimo romanzo della sua vita. Tuttavia dubitava che quella fosse la vera ragione. Temeva che la sua ricerca e quel suo impegno letterario, così come la stessa, ormai antica decisione di abitare in Perù, fossero solo un trucco, un alibi per una fuga. Ma fuga da che? Dalla vita borghese, chissà. O, più probabilmente, dagli obblighi che lo status borghese comporta!

    «Sicuramente è una scelta di libertà» mormorò senza convinzione.

    «Ma signor mio» immaginò che qualcuno gli dicesse «non faccia la vittima. Lei è un cinico e un egoista. Vorrebbe godere dei privilegi derivati dal suo essere stato persona di successo, prima, e straniero in un Paese esterofilo, poi, senza dover tirar fuori un solo quattrino!»

    «Macché, macché» direbbe un altro «è solo un patetico vecchio che si rende conto del proprio fallimento e cerca pretesti spuri per sentirsi bene!»

    «Ma signori, che dite? Quanti di voi accetterebbero questi miei fatidici privilegi in cambio del proprio tenore di vita? Quanti di voi criticano il proprio status sociale senza avere il coraggio di operare variazioni sostanziali all’esistenza?»

    E già! Tanta gente era venuta a trovarlo e molti, a parole, avrebbero voluto essere al suo posto… ma nessuno si era poi risolto a restarci, con lui.

    Tutto sommato, sì, forse era stata una fuga, forse era scappato da un mondo esageratamente consumista e troppo oppressivo. Oh, non oppressivo nel senso che uno non potesse esporre le proprie idee e fare determinate cose in piena libertà (benché alla fin fine l’informazione che uno maneggia sia sempre di parte e i dictamen delle mode assai poco elastici); oppressivo nel senso della presenza dello Stato con le sue regole, le sue tasse, le sue politiche che hanno sempre un ruolo impositivo. E tutto ciò solo per far marciare la Nazione in modo funzionale ai gruppi di potere. Uno nasce in un posto suo malgrado, e già quello è un bel macigno sul cammino della libertà individuale, e viene educato, marcato suo malgrado, secondo criteri definiti dallo stare in quel luogo specifico. Significa che acquisisce determinate caratteristiche, e non altre, formando il suo bagaglio di esperienze, simpatie e conoscenze in base a scelte volute da altri, perfetti sconosciuti.

    Ripose il quadretto sul comodino. Si alzò e andò in cucina a fare colazione.

    Mentre mangiava il pane e latte (da tempo aveva ripreso quell’abitudine infantile, in parte per comodità, in parte per ridurre la quantità di zuccheri che una colazione continentale comportava), riprese a ragionare sulla sua opzione per il Perù.

    «E dunque, sì» si disse «forse una fuga c’è stata. Forse a suo tempo avevo scelto di vivere (d’accordo, per tutta una serie di ragioni, bla, bla, bla, ma il fatto è questo e punto) in un Paese che certamente m’interessava, ma soprattutto dove la presenza dello Stato era assai blanda e dove vigevano più le regole ataviche che quelle imposte dai ceti dominanti.»

    Adesso, però, anche quella motivazione era venuta meno. Lo Stato peruviano era ormai prigioniero delle teorie economiche neo liberali che citano che una nazione deve funzionare attraverso le tasse dei propri cittadini, mentre produttori e commercianti sarebbero liberi di arricchirsi a piacere in cambio dei posti di lavoro offerti alla popolazione (i cui salari ritornerebbero a produttori e commercianti attraverso l’incentivo del consumismo, il controllo delle banche e l’ingannevole uso delle assicurazioni). Che poi, erano idee vecchie come il cucco verniciate a nuovo e infilate in una cornice teorica al passo con i tempi, tant`è che accoglievano, né più né meno, i concetti con cui i fazendeiros gestivano le proprie piantagioni. Ossia, chi lavorava per loro doveva comprare quanto gli serviva per vivere nell’emporio della fazeinda; i costi, però, erano tali che non riusciva a saldare il debito se non quando moriva![15]

    E con quelle belle pensate gli spazi individuali si erano ulteriormente ridotti: le persone divenivano sempre più ostaggi di un sistema astratto che definiva i comportamenti reali. La progressiva monetizzazione con la sua vorticosa discesa nelle spire degli imperi del consumo e del mercato, costringeva lo Stato a militarizzarsi per far fronte alla criminalità (ma anche alla viveza[16] dei cittadini), ramificandosi in una miriade di entità che partendo dai soldati passava per la polizia nazionale, il serenazgo[17], le polizie municipali e le ronde contadine, terminando finalmente con i poliziotti privati, detti huachimanes[18], famosi più per la storpiatura del nome inglese che per l’effettività del loro impegno. L’impossibilità di pagare salari adeguati a quelle moltitudini armate faceva sì che esse si rivolgessero ai cittadini chiedendo loro una collaborazione in cambio della supposta protezione, una specie di tassa sulla sicurezza insomma[19]. Alla fin fine, accettando il neoliberismo, la società era diventata più ingiusta, tronfia e decadente.

    Pertanto la fuga era arrivata al suo epilogo e l’unica motivazione rimasta era di carattere culturale. Ma no, forse non era neppure quello, forse la ragione vera era Pachakuteq e come caspita aveva fatto a cambiare il mondo in cui viveva!

    «Poveretto!» ci sarebbe sempre qualcuno disposto a criticare «ora la mette sul patetico. In realtà lei è un pusillanime che ha ceduto alle lusinghe della bella vita pur di non impegnarsi.»

    «Certamente» qualcun altro aggiungerebbe «con il racconto degli aiuti umanitari lei è vissuto alle spalle dei suoi compatrioti.»

    «Ma no, ma no signori miei, voi state delirando. E quando mai ho fatto la bella vita? Non ho forse cercato di migliorare le condizioni di tanta gente lavorando in progetti sociali? Per caso non ho tentato di arginare le nuove mode economiche riproponendo le culture ancestrali? E dove sono gli agi? Un divano sfondato di pelle sgretolata? La doccia elettrica da quindici dollari? E poi, suvvia, come mi si può accusare di essere vissuto alle spalle altrui quando i denari ricevuti sono andati tutti nei progetti? Io per me ho tenuto solo una parte dei ricavi del mio lavoro.»

    «Via, via, lei continua a buttarla sul patetico. In realtà ha avuto una buona vita, non ha dovuto affrontare grossi problemi né grandi difficoltà, ha lasciato queste incombenze agli altri.»

    «Ebbene sì, non posso negare di essere contento della mia vita. Ho fatto ciò che mi piaceva, è questo un peccato? Ho dato, mi sembra, più di quanto abbia ricevuto, ma il dare è più gratificante dell’avere e dunque che male c’è a vivere bene e in pace con la propria coscienza?»

    «Ah, ah, ah! La sua arroganza è pari al suo cinismo! È facile fare i conti col denaro altrui.»

    «Oh no, signori, voi siete disinformati, parlate solo per tenere la lingua in bocca! Il progetto lo iniziai con i miei di quattrini, solo in seguito arrivarono quelli di parenti e amici. Siamo sempre alle solite: quanti di voi criticoni lo avrebbero fatto? Perché è facile aprire la bocca e vomitare sentenze, ma difficile rimboccarsi le maniche e agire. Credete in qualcosa? Dimostrate di crederlo con fatti concreti, non a parole. Abbiate coraggio e mettetevi in gioco! Magari qualcuno pensa di tranquillizzare la propria coscienza facendo piccole donazioni! Fa la carità, facile no? Ma poi… beh, che senso ha continuare a parlarne? I progetti sociali sono terminati, soldi non ne cerco e non ne arrivano più, e io resto qui solo per concludere la ricerca che iniziai venendo in questo Paese e per scrivere un romanzo su Pachakuteq.»

    Già, Pachakuteq! Dopo tanti anni di Perù in cui Alessandro aveva coltivato più che altro il giardino dei ricordi della storia andina occupandosi invece principalmente del Paese reale, la figura del nono Inka era entrata prepotentemente nella sua vita e l’aveva spinto a volgere la sua ricerca in quella direzione. Fu a causa della sensazione d’inadeguatezza nel vivere in una società post-moderna, capitalista e individualista? E che connessione esisteva tra il mondo attuale e quello andino del XV secolo? Erano questi alcuni dei quesiti che il vecchio scrittore s’era posto prima d’intraprendere quell’ennesima fatica e a cui non gli era stato poi così difficile dare delle risposte. Il motivo principale era quel suo mondo d’ogni giorno sempre più intraducibile, sempre più illogico, sempre meno adatto all’uomo, sempre più votato alla propria fine. Che fare? Come cambiarlo? Se si vuole, erano le stesse domande che si rivolgeva trent’anni prima, solo che a quel tempo aveva creduto possibile fermare la paurosa accelerazione verso la massificazione recuperando il tempo perduto, la filosofia andina, le antiche abitudini. A conti fatti, non era riuscito a mettere che pagliuzza sui binari del treno della modernità. Molti dei ragazzi che aveva aiutato a crescere viaggiavano nei vagoni di terza classe, vivendo una vita più spartana ed ecosostenibile; ma pur sempre su quel treno si trovavano.

    E dunque ecco la figura di Pachakuteq che arriva e cambia la direzione verso cui era diretto un certo mondo. Che poi l’avesse cambiata in meglio o peggio non era importante, ciò che contava era che ci fu una rottura epocale e a partire da lui niente fu come prima. L’arrivo degli Spagnoli cambiò di nuovo quel mondo, ovvio, ma mentre costoro lo trasformarono con un intervento esterno, quegli lo rinnovò dall’interno, quindi con un movimento di auto-generazione di un modello culturale autoctono e antropocentrico.

    «E quanta necessità di ricreare modelli culturale più vicini all’uomo ci sarebbe bisogno nel mondo attuale!» si diceva Alessandro.

    Lasciò la tazza della colazione nel lavello, tornò in sala e sedette sul divano. Poi si sporse in avanti verso il tavolino e facendo scivolare lentamente la penna sul legno prese il taccuino tra le mani. Ne lesse alcune linee e sbottò

    «Oh Pachakuteq, Pachakuteq, da dove sei uscito? Dal cilindro di un prestigiatore?»

    Capitolo III

    El gringo

    Alessandro Scalzi era uno scrittore, ma forse sarebbe meglio dire che era stato uno scrittore. E pure di un certo successo! Il suo primo libro fu più una scommessa goliardica che un progetto nato dal desiderio, o la necessità, di raccontare qualcosa. Ne era uscito un romanzetto dal linguaggio giovanile, ben confezionato, ironico e con la giusta dose di suspense, giocato tutto su orazioni brevi dove le subordinate erano ridotte all’osso.

    Il libro ebbe un discreto successo e la piccola Casa Editrice che lo stampò gli propose un contratto assai favorevole per onorare il quale avrebbe dovuto scrivere un romanzo per ognuno dei tre anni successivi.

    Accettò sulle ali dell’entusiasmo, ma se ne sarebbe dovuto pentire amaramente quando, già al secondo anno, aveva perso completamente l’ispirazione e gli infruttuosi tentativi di mettere nero su bianco si rivelarono esercizi di ricopiatura di cose già dette. Tuttavia portò a termine il libro che, strano a dirsi, ebbe un successo straordinario. L’ultimo romanzo al quale Alessandro lavorò e che a lui sembrava il più riuscito, fu un fiasco clamoroso e indusse la Società Editrice a sostituire il nuovo contratto di collaborazione con uno generico di esclusiva. Insomma, avrebbe pagato una modica somma annuale in cambio dell’esclusività sul materiale letterario dell’autore. Se poi il materiale fosse stato accettato, l’Editore gli avrebbe girato circa la metà del costo di copertina di ogni copia venduta, nel caso di libri, o una certa quantità di denaro per gli articoli. Se invece il materiale fosse stato rifiutato, egli avrebbe potuto cercarsi un altro disposto a pubblicarlo.

    Giunto più o meno nel mezzo del cammin di nostra vita, Alessandro, alla ricerca come tanti altri di nuovi orizzonti e del senso dell’esistenza, fece un lunghissimo viaggio in America Latina e da quell’esperienza nacque un libro di racconti che fu il suo ultimo, discreto successo. S’innamorò della cultura andina e si stabilì in una città della Sierra centrale peruviana per studiare e scrivere di quel suo amore letterario. Continuò comunque a redigere articoli, in genere su questioni politiche o ambientali, che l’Editore piazzava su diversi giornali e che ogni tanto raggruppava in un libro di saggi. Tutto ciò, assieme alle ristampe dei romanzi, continuava a garantirgli una seppur piccola rendita annuale.

    Dopo aver messo su casa, cominciò a frequentare i mercati, le botteghe artigiane e le feste tradizionali, luoghi, questi, dov’egli credeva di ritrovare l’antico spirito di quel popolo, e a riempire interi taccuini fitti di appunti. Ebbe poi l’occasione di visitare le dimore di povera gente nei quartieri urbano-marginali, e rendersi conto che molti bambini non andavano a scuola. Così, essendo a conoscenza che uno dei suoi nuovi amici aveva un terreno parzialmente costruito in una zona periferica, lo prese in affitto e vi fondò una scuola gratuita. Per soddisfare le esigenze economiche del centro educativo, pensò bene di dare corsi d’idioma. A corollario di questa attività e per farsi conoscere, aprì un cineclub. Fu in quell’occasione che conobbe Padre Javier, un sacerdote diocesano, saggista e storico della Chiesa, che in gioventù era vissuto in Francia e in Italia. Questo Padre era stato un prete operaio e condivideva con Alessandro delle idee politiche moderatamente di sinistra (basta leggere il Nuovo Testamento, diceva Javier, per rendersi conto di quanto l’uomo moderno, abbagliato dal vitello d’oro del capitalismo, si sia allontanato dalla parola di Dio). Per questo era appena sopportato dalla Curia che cercava di mandarlo a dir messa in parrocchie dove le sue prediche facessero il minor danno possibile. I due divennero buoni amici; spesso erano i primi lettori degli articoli che scrivevano e non era raro che Alessandro chiamasse il sacerdote per migliorare il suo castigliano scritto. Presero pure a condividere i propri progetti, cosicché a volte Alessandro aiutava il Padre nelle sue ricerche e questi gli dava una mano nella conduzione della scuola. Fu di Padre Javier l’idea di provare a definire la triarchia delle funzioni direttive del centro educativo sulla falsa riga di quanto si fece nell’Inkario. Alessandro sarebbe stato il promotore con compiti di rappresentanza verso l’esterno e, internamente, di amministrazione, supervisione e definizione delle linee guida. Il sacerdote avrebbe trasferito le linee guida nel regolamento e nel programma didattico. Al direttore, un signore di mezza età già pensionato, professore di lettere, sarebbero spettati l’applicazione del regolamento e del programma didattico, la gestione dei professori e i contatti con i genitori. I tre dovevano vedersi una volta alla settimana per coordinare l’attività accademica, ma poi sarebbero stati indipendenti nel portare a termine i propri compiti. C’è da dire che le cose non erano così semplici come si potrebbe supporre, poiché la scuola nasceva come un laboratorio che doveva cercare di cambiare i metodi tradizionali d’insegnamento. I tre erano d’accordo nel considerare che fossero i programmi didattici ufficiali a dover essere modificati in base alle necessità del singolo alunno e non questi a doversi adeguare alle esigenze del Ministero dell’Educazione (e, in ultima analisi, alle mode pedagogiche di turno). Erano tutti d’accordo pure sulle linee guida volute da Alessandro (la più importante delle quali era che la scuola dovesse formare e non solo informare) tra cui spiccavano le seguenti: il compito principale di quella istituzione educativa era di far imparare al bambino i lavori che più gl’interessavano, o a cui era più portato, in considerazione del fatto che sarebbe stato già molto se fosse riuscito a concludere la scuola secondaria; le nozioni scolastiche dovevano essere acquisite dall’alunno attraverso il lavoro; la scuola era il mondo, pertanto il centro educativo doveva aprirsi alla gente. In questo senso i tre erano contrari all’apprendimento olistico proposto in molti centri scolastici d’avanguardia, proprio perché al singolo bimbo probabilmente non interessavano tutte le attività di quel percorso formativo. Ovviamente erano ancor più contrari all’apprendimento nozionistico impartito in quasi tutte le scuole del Paese. Fecero dunque un’inchiesta tra i bambini per sapere quali erano i mestieri che piacevano loro, dopo di

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