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Morte al Raja - L'ascesa del Capitano Pembalas
Morte al Raja - L'ascesa del Capitano Pembalas
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Morte al Raja - L'ascesa del Capitano Pembalas

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About this ebook

In un arcipelago sconosciuto a largo delle coste dell'isola di Sumatra, in un tempo, l’inizio dell’Ottocento, in cui l’onore degli uomini si alternava confusamente fra il romanticismo e la viltà, John Petel subisce per l’ennesima volta l’ingiuria della sorte: messo al centro di un intrigo politico è costretto a fuggire fra le insidie di una natura selvaggia per trarsi in salvo. Spinto oltre a ogni umana convenzione per sopravvivenza si trova dinanzi a una scelta: scomparire e dimenticare una seconda volta il proprio beffardo passato oppure impugnare le armi e affrontare la sorte ostile per mutarla di segno. La sua scelta lo renderà al contempo un vendicatore assetato di sangue, ma anche un liberatore. La sua scelta lo renderà il Capitano Pembalas…
LanguageItaliano
Release dateAug 23, 2016
ISBN9788822835734
Morte al Raja - L'ascesa del Capitano Pembalas

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    Morte al Raja - L'ascesa del Capitano Pembalas - Giovanni Speranza

    Francesca

    Prefazione

    Pembalas è l’eroe senza ombre di questo romanzo di avventure. Un eroe granitico che non sopporta scalfitture: braccato sfugge a un intero esercito guidato dal suo acerrimo nemico Maltidy, luogotenente del raja Zakaria Sami, e mette su una flotta di pirati che solca le acque dell’Oceano Indiano per mettere in atto un’atroce vendetta contro l’impero britannico.

    Pembalas non è un ribelle qualunque che lotta contro l’invasore; è un europeo, John Petel, che rinnega il suo sangue quando non lo riconosce più. Ciò che muove e ravviva di fuoco perpetuo il suo animo è il desiderio di vendetta e la sete di giustizia che esige prima per sé e poi per un intero popolo.

    Gli eventi si svolgono nell’arcipelago delle Emikyklos e nelle acque circostanti, nel 1833. La ricostruzione di un paesaggio esotico e di un tempo ormai lontano è affidato al ricorrere di nomi di armi e imbarcazioni e vegetazione e fauna e colori e sapori di un altro mondo, ma ben assimilati ormai da più generazioni attraverso letture salgariane. Si inseguono in modo lineare quadri di fughe in una giungla lussureggiante ma ostile, di duelli corpo a corpo con imprudenti inseguitori e con bestie dalla forza formidabile, di scontri grandiosi e cruenti, di stratagemmi sorprendenti, brillantemente riusciti.

    Gli scenari indonesiani si contaminano a tratti con radi ma chiari riferimenti alla Grecia antica; così come l’uso frequente di epiteti e di vere e proprie formule richiamano modelli di scrittura di memoria classica. L’amore di Pembalas per la Grecia sembra l’ultimo retaggio di un’identità occidentale, il passaporto europeo di John Petel.

    Nella prima parte del romanzo la ciclicità degli episodi, che risulteranno noti a molti amanti del genere, e presto riconoscibili agli altri, culla il lettore che si lascia stupire dai dettagli della scrittura curata e da piccole trovate narrative guizzanti e avvincenti. Nella seconda parte si tirano le fila della narrazione e si ricompongono i frammenti in precedenza disseminati fra duelli e inseguimenti; anche l’eroe incontra il suo destino e accetta il suo ruolo di vendicatore in modo consapevole.

    La scrittura fluida e senza inceppature si attarda appena in descrizioni minuziose ma scorrevoli ed è al completo (ma consapevole) servizio di una narrazione che sembrerebbe inesauribile.

    Il risultato finale è una piacevole riacquisizione di giochi perduti e fantasie addormentate, che arrivano da lontano, veicolati da una penna appassionata e fiera come il suo eroe.

    Manuela Labate

    Introduzione

    A Sud-Ovest delle coste di Sumatra, solcate per quasi mille chilometri le tumultuose acque dell’oceano Indiano, poteva scorgersi un piccolo arcipelago costituito da isole disabitate. Lì, dove mai era stata ospitata la presenza dell’uomo, il tempo sembrava quasi essersi fermato all’epoca della genesi stessa del mondo. La verdissima e nutrita vegetazione riempiva a dismisura le terre emerse tant’è che alcuni tratti della foresta erano talmente fitti che solo gli animali minuti e agili potevano passarvi. Piante fra le più singolari e bizzarre abbellivano il panorama costituito da scorci unici e vari: spiagge di sabbia bianca e finissima oppure coste frastagliate a picco sul mare zeppe di rientranze e caverne sottomarine.

    Il primo uomo ad approdare in questo paradiso incontaminato era stato l’ufficiale inglese Sir William Lee Moore alla fine del XVIII secolo. Il britannico aveva fondato tre colonie nelle tre isole maggiori, le uniche a oggi abitate, e notando la disposizione delle stesse a semicerchio aveva dato all’arcipelago il nome greco di Emikyklos (ἑμικύκλος).

    La corona britannica, intenta a curare altrove interessi molto più remunerativi, ben presto si dimenticò di queste nuove e piccole comunità che crebbero nella piena autarchia, dotandosi persino di un proprio re che chiamarono Raja.

    La notte del 26 Settembre del 1833 una pioggia burrascosa batteva veementemente l’arcipelago delle Emikyklos... 

    PARTE PRIMA

    1. La fuga

    Un uomo avanzava a fatica attraverso la fitta vegetazione. Sebbene la sua muscolatura fosse imponente, il suo incedere era lento e macchinoso: una ferita lo rallentava. La mano destra teneva con forza il fianco sinistro tamponando la fuoriuscita di sangue che sembrava poter sgorgare senza freno alcuno, fino al completo dissanguamento. Ogni passo si poneva dinnanzi all’altro con lena incerta, si poggiava pesante sul suolo affondando nell’erba verdissima. L’acqua piovana con violenza sbatteva sulla larga fronte e colava sulle ciglia occludendo la visibilità. Le vesti di lino, fradice, aderivano perfettamente alla turgida muscolatura. Il respiro affannoso denunciava, non per ultimo, lo sforzo inaudito a cui l’uomo era sottoposto. Il Diavolo delle Emikyklos non faceva adesso tanta paura! Eppure l’eco delle sue gesta, che tanti appellativi suggestivi gli aveva procurato, lo voleva capace di ogni impresa e chiunque lo avesse per nemico sapeva bene che darlo per spacciato o quasi morto era un errore: perché gli sarebbe bastato un colpo di coda per tramutare le sorti avverse in favorevoli. Il Baronetto John Petel da tempo aveva dismesso il suo nome aristocratico, troppo disgraziata la sorte e ingiurioso il fato per mantenerlo, a favore di quello indigeno di Pembalas!

    Tuttavia un nome che incute terrore e commemora imprese, seppur immense e ancor più magnificate dalle credenze del popolo, non valeva a molto se lo scopo era portare a casa la pelle quando una dozzina di guardie ben armate ti stanno alle calcagna. Così, soffocando in gola i lamenti dovuti alla ferita tremenda che squarciavagli il fianco, il decaduto Baronetto impilava con maggior vigore i passi l’uno appresso all’altro, regolarizzandoli e riuscendo perfino a correre per brevi tratti.

    «Fermo, cane! O ti infilo una palla in testa!» Si sentì d’improvviso.

    L’ultimatum terribile rompeva i rumori della natura e sovrastava perfino il fragore della pioggia che, incessante, continuava a riversarsi sulla foresta.

    «Spara pure, servo del Raja!» Ribatté senza denunziare timore Pembalas, quasi più preoccupato di salvare la sua fama di guerriero indomabile che piuttosto la vita.

    Il soldato non se lo fece ripetere una seconda volta: esplose un colpo di carabina che sibilò accanto all’orecchio destro di Petel facendogli perdere l’equilibrio e causandogli una disgraziata caduta in una scarpata presso le sue spalle.

    «Ho ucciso il Diavolo delle Emikyklos!» Gridava in festa il soldato, chiamando a raccolta i commilitoni mentre il corpo del decaduto Baronetto scivolava, apparentemente privo di vita, giù per la ripida gola.

    Un gruppo di tre guardie si avvicinò al soldato che tanto si vantava per quello che, a suo dire, era un ottimo colpo; fra di esse vi era il Capo della sicurezza del Palazzo: Maltidy. Era un uomo poco più alto di cinque piedi, fra i trenta e i trentacinque anni, dai tratti malesi, regolari; carnagione quasi bronzea, un paio di baffetti stirati sotto il naso e lungo le gote, gli occhi spiritati, i capelli corti ma ugualmente arruffati, di muscolatura definita ma contenuta.

    «Cosa hai combinato? Stolto!» Apostrofò Maltidy il povero soldato, il quale si cacciò il sorriso compiaciuto che continuava a ostentare dopo aver esploso la fucilata micidiale.

    «Ma era il Diavolo delle Emikyklos! E io l’ho ucciso per il Raja, per sua Maestà…» Si giustificava il soldato.

    «Credi che il Raja avrebbe inviato i suoi migliori uomini, con il Capo della sicurezza del Palazzo in testa, se avesse voluto solo un cadavere? No! Voleva quel porco vivo! Per appiccarlo sulle mura del palazzo lasciandolo morire lentamente e al contempo dare una lezione a tutti i suoi nemici!»

    Il soldato si fece piccolo piccolo e, dietro al suo fucile, tentava di rispondere a Maltidy senza però macchiarsi di insubordinazione, ma abbastanza per tenere ancora la testa attaccata al collo. Il Capo della sicurezza del Palazzo, però, non gli diede il tempo di ordinare pensieri e parole: estrasse una pistola dalla cintola, gli poggiò la canna in fronte e schiacciò il grilletto. Dopo il fragore, l’acre odore della polvere da sparo conquistò brevemente l’aria e le cervella del soldato si sparsero dappertutto perfino in faccia a Maltidy, subito lavate dalla pioggia incessante e torrenziale.

    «Buttate il suo corpo da dove è stato visto cadere Petel e seguitelo con lo sguardo in modo che possa orientarci su dove cercare: chissà che da morto non possa sanare i danni che ha causato da vivo.» Aveva freddamente disposto il Capo della sicurezza del Palazzo.

    I commilitoni, che fino a pochi giorni prima avevano scambiato battute, giochi e prostitute con quel povero cristo, lo presero di peso e lo buttarono giù per la gola quasi fosse la carcassa maleodorante di un animale. Senza che alcuno si ribellasse o fosse anche solo inorridito da quella scena raccapricciante.

    I soldati si affannavano a scendere rapidamente giù per la scarpata, incuranti del terreno reso viscido dalla pioggia, per non alimentare con la loro inettitudine l’ira del loro superiore. Maltidy seguiva dall’alto della gola i movimenti dei suoi promettendosi che in ogni caso non avrebbe lasciato vivo Petel fino alla nuova alba. In realtà il Raja non aveva disposto la cattura del decaduto Baronetto, ma semplicemente la sua eliminazione tuttavia Maltidy non avrebbe sopportato che qualcun altro si impossessasse di quella vita se non lui stesso: era ormai divorato dall’ossessione di annientare il mito del Diavolo delle Emikyklos.

    Il corpo del decaduto Baronetto era scivolato per diverse decine di metri finché un dosso di fanghiglia ne aveva rallentato il precipitare e lo aveva fermato del tutto, presso una sporgenza dove il pendio si faceva sempre più dolce fino quasi a scomparire. Giaceva lì, stremato, ferito e ammollo nel fango il temibile Pembalas!

    Nello stesso istante in cui lentamente apriva gli occhi se li sentì inondati di pioggia battente così, con un istintivo scossone e un poderoso colpo di reni, nonostante la ferita, riuscì a mettersi seduto. Il primo pensiero fu quello di controllate la cintola e l’interno della camicia avvedendosi di essere completamente disarmato: durante la caduta sia la pistola che il pugnale erano scivolati via per disperdersi nella vegetazione, mentre la spada era già stata smarrita durante la fuga dal Palazzo reale. Quale sorte spettava ora al temibile Pembalas? La fine sarebbe giunta per mano dei servi del Raja, degli animali selvaggi o per l’effetto della lacerazione che non smetteva di rilasciare sangue? Ora che si era così prossimi alla fine cosa restava di tutte le pugne, dei duelli all’ultimo sangue, delle teste ed arti mozzati, dei compromessi con la coscienza? Non vi era che un uomo solo, ferito, infangato e inconcludente! Se lo ripeteva Petel in quell’istante; nemmeno la tremenda ferita lo distraeva da quella riflessione: perdere tutto senza aver mai avuto nulla, cosa può temere di più un uomo?

    Lo sconforto non è una soluzione e non lo è a maggior ragione nella sfortuna. Petel era uomo concreto, sbaragliava nemici con la stessa facilità con la quale una fiera sbrana un’indifesa preda; da situazioni assurde se ne era già cacciato decine di volte e quella in cui era impelagato ora era solo una fra le tante.

    «Dritte le gambe!» Disse Pembalas infondendo nuova linfa in quel corpo martoriato «Dritte! Domani questa sventura sarà solo un altro aneddoto da raccontare in una putrida osteria…» Continuava il decaduto Baronetto.

    Mentre la voce tornava possente e profonda come la conosceva e le parole incoraggiavano l’animo, di pari passo anche i muscoli riacquistavano un antico vigore e in men che non si dica Pembalas si trovò di nuovo in piedi, fiero e sdegnoso come non mai.

    «Disarmato?» Si chiese mentre ripassava gli occhi sulle mani vuote «Questa non è cosa da poco, ma un guerriero indomabile non fa cose da poco o comuni. Non mi avranno…»

    A poche centinai di metri dalla sporgenza, in cui il corpo di Pembalas si era fermato trattenuto dal fango, vi era la costa che a picco cadeva sul mare. Da lì una isoletta di modeste dimensioni poteva essere raggiunta a nuoto con poche vigorose bracciate. Non si trattava di un atollo come molti altri innumerevoli che compongono l’arcipelago delle Emikyklos, perché quel fazzoletto di terra era la dimora di un vecchio sciamano specializzato nell’arte della guarigione. Questi già molte volte aveva sanato le orrende ferite che Petel spesso si era procurato in truculenti corpo a corpo e che guarendo avevano però lasciato profonde cicatrici nel suo corpo. Ancora una volta la salvezza del decaduto Baronetto passava fra le mani del vecchio canuto e per mezzo dei suoi intrugli di erbe.

    Petel si rimise in marcia. La gola si era fatta più dolce e il cammino presentava meno insidie nella morfologia del terreno, eppure non era ancora in salvo: i soldati di Maltidy avanzavano inesorabili e sebbene il decaduto Baronetto non li vedesse arrivare sapeva che il Capo della sicurezza del Palazzo li avrebbe aizzati contro di lui finché non sarebbe saltato fuori il suo cadavere.

    La pioggia non dava clemenza: quando fitta e torrenziale, quando leggera e fina che quasi dava l’impressione di lasciare intercapedini fra una goccia e l’altra, continuava a riversarsi sull’equatoriale arcipelago.

    D’un tratto Petel, dall’alto della scogliera, scorse l’isoletta del vecchio canuto: bisognava scendere fra quelle insidiose rocce e bagnarsi nelle acque della baia per giungere a destinazione. Mentre il decaduto Baronetto passava in rassegna le appuntite rocce, in parte sbozzate della furia degli elementi e in parte aguzze e taglienti per conformazione geologica, scegliendo un punto adatto per iniziare la discesa, i soldati del Raja rivelarono la loro presenza.

    «Le impronte proseguono verso la scogliera…» Si sentì dire da un primo soldato.

    «Bisogna accelerare il passo, Maltidy non ci perdonerà se ce lo facciamo scappare un’altra volta…» disse un secondo soldato.

    Evidentemente le guardie del Raja erano giunte presso la sporgenza su cui Pembalas si era risvegliato e da lì avevano seguito le profonde orme nel terreno reso fangoso dal diluvio venuto giù dal cielo. La situazione volgeva al peggio eppure il decaduto Baronetto non si fece intimidire dalla presenza dei soldati fin quando riconobbe un’altra voce ostile che gli fece spuntare una profonda ruga di inquietudine sulla fronte.

    «Dov’è? Dov’è?» Ripeteva, infervorato nell’animo, Maltidy.

    Mentre il gruppetto avanzava dalla foresta verso la scogliera, Petel indietreggiava dando le spalle allo strapiombo.

    «Eccoti!» Disse Maltidy spuntando dalla vegetazione e riconoscendo l’inseguito «Ti porterò a Palazzo per farti appiccare oppure morrai per mia mano! Così ho sempre voluto e così sarà!»

    «Asciugati la bava dalla bocca, servo del Raja, non mi avrete mai!» Ribatté Pembalas.

    «Dove credi di poterci scappare? Sei carne morta!»

    «Devi ancora raggiungermi!»

    Mentre Pembalas pronunziava queste parole alzò le mani al cielo: in quel momento l’etere venne squarciato da un accecante fulmine e percorso da un straordinario tuono. La connessione fra le parole di Petel e i fenomeni della natura sembrarono quasi alimentare il mito del Diavolo delle Emikyklos tant’è che i soldati indietreggiarono di un passo, tutti eccetto Maltidy reso tenace più dal disprezzo che dal coraggio. Fu un attimo: il decaduto Baronetto con un balzo all’indietro si fece cadere dall’alto della scogliera e, mentre precipitava per qualche decina di metri, unì le braccia e si infilò a cuneo nelle mosse acque della baia con un tuffo formidabile.

    Maltidy dapprima si vestì di incredulità per quell’atto tanto coraggioso e d’appresso realizzò che il suo nemico gli aveva giocato un ennesimo tiro mancino: anche se non fosse sopravvissuto all’arduo tuffo si era ancora una volta sottratto alla resa e questo era per il Capo della sicurezza del Palazzo l’onta peggiore. Maltidy scattò sul ciglio della scogliera e guardando giù sbraitava, bestemmiava e apostrofava Petel pur non vedendolo riemergere dai flutti contorti.

    «Porco schifoso! Ti troverò! Ti scuoierò! E sarai un altro trofeo nella mia casa!» Malediva l’inquieto Maltidy.    

    ​2. Il vecchio canuto

    Il suo corpo vigoroso fluttuava privo di sensi affiorando appena dalla distesa marina. Le correnti se lo contendevano al pari di due infanti con un ninnolo splendido e ambito: nessuna sembrava avere la meglio mentre il decaduto Baronetto scivolava lentamente verso una bianca spiaggia dai granelli finissimi come la polvere.

    Di spiagge, nelle Emikyklos, se ne contavano a centinaia. Oltre cinquanta isole componevano l’arcipelago: la maggior parte erano minute e disabitate.

    Solo tre atolli raggiungevano dimensioni tali da richiedere diversi giorni per attraversare da costa a costa e solo tre città erano state fondate in queste terre vergini, in esse risiedeva la quasi totalità degli abitanti delle Emikyklos. Nessun centro abitato riusciva a primeggiare sull’altro per dimensione o prestigio, come suggeriva l’appellativo di tre capitali: sintesi mirabile dell’indistinguibilità che aveva contagiato questi baluardi della civiltà umanizzata.

    Ad Ovest si trovava Patrajo, sull’isola di Sudazo, posta su una rientranza completamente dipendente per sussistenza dal mare. A Est si trovava Air Gerik, sull’isola di Satur, nota per gli innumerevoli criminali dei suoi bassifondi. Infine vi era Treko, sull’isola di Ramash, forse la più importante avendo qui sede il palazzo del Raja.

    A Sud di Treko un bosco fitto di palme e fronde contorte si stagliavano in mezzo al mare. In quella isoletta si era ritirato in tempi assai lontani un vecchio canuto che, solitario, viveva in pieno rispetto della cultura malese a cui apparteneva.

    Nella notte appena trascorsa aveva imperversato un temporale dalla potenza inaudita: rombi assordanti avevano tuonavano senza posa, lampi accecanti si erano impossessati del cielo disegnando scariche elettriche immense, il vento era sembrato in taluni momenti ruggire e ululare mentre fiumi d’acqua erano piombati dalle nuvole funeree quasi nel disperato tentativo di lavare un qualche imperdonabile peccato ignoto agli spauriti abitanti del luogo.

    La capanna del vecchio canuto, umile antro nel quale si ritirava la notte, si era piegata più e più volte sotto l’effetto di quelle forze, che di umano avevano solo lo stupore che suscitavano nella popolazione delle Emikyklos, eppure aveva resistito fino alla fine delle intemperie.

    Al mattino non una nuvola copriva i calorosi raggi solari, non una sola avvisaglia di cattivo tempo poteva scorgersi dalle terre che, martoriate, facevano ora i conti con i postumi della furia degli elementi.

    Safiq Azmì era in spiaggia. I suoi piedi nudi non affondavano nei granelli resi compatti dall’umidità dell’acqua che si era riversata la notte passata. Si reggeva su un bastone ricavato da un possente albero di durion con il manico intagliato e modellato a forma di testa di cobra; leggermente ricurvo in avanti, avanzava verso il bagnasciuga. Aveva lunghi capelli e barba bianchi; carnagione assai scura, più simile ad un africano che piuttosto ad un malese; occhi nocciola, zigomi sporgenti, corporatura esile, gambe rinsecchite e braccia ossute.

    Il vecchio canuto fissò le iridi verso Nord, verso la città di Treko che da quella distanza pareva ben misera opera. Il mare dinanzi all’isoletta era cavalcato da ciuffi d’onde che impattavano dolcemente le une addosso alle altre, portando a spasso tronchi e detriti scaricati in acqua dal temporale della notte appena conclusa. Emise un flebile sospiro mentre abbassava fiaccamente gli occhi che scivolarono in mezzo alla distesa marina. Tuttavia l’occhiata sommaria si soffermò su una strana massa che lenta si stava arenando sulla spiaggia e verso la quale Safiq Azmì iniziò a muoversi.

    Ogni passo era rivelatore: la vista meglio distingueva i particolari risvegliando nel vecchio canuto le peggiori preoccupazioni che di tanto in tanto lo attanagliavano.

    Giunto a una distanza tale da non poter più fraintendere ciò che si trovava innanzi, le sue gambe si piegarono e le sue ginocchia affondarono nel bagnasciuga mentre, genuflesso, tirava in secca il corpo esanime di John Petel.

    Passò e ripassò le sue mani lungo il corpo del decaduto Baronetto alla ricerca di qualche ferita. Quando scostò lo sparato sinistro della camicia vide una tremenda lacerazione, provocata da un’arma da taglio, in parte infettata a causa della prolungata immersione nell’acqua marina.

    «Diavolo,» chiamò Azmì «non temere…ti guarirò.»

    Il vecchio canuto amava chiamare Petel "Diavolo". Le imprese compiute dal decaduto Baronetto gli avevano procurato questo temibile epiteto eppure se le bocche che avevano plasmato la leggenda del Diavolo delle Emikyklos lo avessero visto ridotto in fin di vita anche solo la metà delle volte in cui lo aveva visto Azmì, probabilmente nessuno avrebbe creduto nella sua invincibilità: invenzione vacua e irreale partorita da menti fragili e inconsapevoli.

    Il vecchio canuto trasportò il corpo di Petel nella sua capanna, lo adagiò sopra un’amaca e iniziò a curargli la lesione. Era una ferita lineare con un taglio perpendicolare alla linea della vita, fra le ferite da arma bianca una delle meno complicate da guarire. Azmì dapprima disinfettò con cura il taglio, tamponandolo con un impasto ottenuto masticando un intruglio di erbe terapeutiche; dappresso iniziò a ricucire la ferita dall’interno e infine preparò un infuso in grado di alleviare il dolore e abbassare la febbre.

    Per tre giorni l’implacabile Pembalas giacque inerme in una sperduta capanna, cotto da una febbre altissima e straziato dal delirio più profondo. Quando, lentamente, alzò le pesanti palpebre trovò al suo capezzale il fidato amico.

    «Questa volta ho temuto di perderti sul serio Diavolo.» Esordì il vecchio canuto «Ignoravo quanto tempo hai trascorso ammollo nell’acqua marina e quanto fosse grave la tua ferita.»

    «Non abbastanza…» Rispose Petel con la voce ancora impastata per il lungo riposo « …per tirare le cuoia.»

    «Non hai perso l’ironia…» Osservò Azmì.

    «Da quanto sono qui?» Chiese il decaduto Baronetto fra diversi colpi di tosse.

    «Tre giorni e tre notti.» Riferì il vecchio canuto porgendo un bicchiere d’acqua all’amico «Dimmi, come sei finito sulle mie spiagge?»

    «C’è stato un inseguimento nella giungla…» Riprese Petel dopo una breve pausa «…mi avevano ferito e per salvarmi dalle guardie del Raja mi sono tuffato da una scogliera. Non ricordo più niente…»

    «Perché le guardie del Raja ti inseguivano?»

    «Zakaria Sami mi ha usato per i suoi subdoli scopi. Ho stupidamente abboccato al suo raggiro e poco dopo lui ha chiesto a Maltidy di uccidermi, ma è riuscito solo a ferirmi…»

    «Zakaria? Maltidy? Sono qui nelle Emikyklos

    «Sì…sono qui per colpa mia!» Affermò mestamente il decaduto Baronetto «Mi hanno usato per deporre Yassim, il fratello di Zakaria…»

    «Yassim…» Ripeté pensieroso Azmì «…quel cane rimase Raja solo pochi mesi, ma fu avido come pochi: forse è un bene che non sia più seduto sul trono.»

    «Non lo so…» Rispose Petel guardando con cipiglio il suo interlocutore «…non voglio più preoccuparmi di questi squallidi giochi di potere, voglio solo salvarmi la pelle.»

    «E sia, ma non è affare da poco.» Sottolineò il vecchio canuto «La tua unica possibilità è spingerti nel porto di Air Gerik, imbarcarti su una nave pirata che a decine sono ormeggiate in quel luogo, e tentare di raggiungere Sumatra o la Malesia. Solo lì sarai davvero al sicuro.»

    «Come posso arrivare fin lì?»

    «Sulla parte opposta di questa isoletta, presso un dismesso capanno degli attrezzi, c’è una canoa che da tempo non uso più: prendila e usala per raggiungere l’isola di Ramash! L’attraversata più breve ti porterà a Sud di Treko, da lì inizia a marciare verso Ovest senza allontanarti dalla costa fin quando non avrai raggiunto Lampur: è un villaggio di pescatori e sovente i suoi velieri fanno rotta verso il porto di Air Gerik.»

    «Sembra un lungo viaggio…»

    «Non solo lungo…» Indugiò Azmì «…ma anche pericoloso. Solo il Diavolo delle Emikyklos può farcela, ma sappiamo entrambi che quell’uomo non esiste se non nei racconti dei creduloni.»

    Petel arricciò il naso e si lasciò sfuggire una smorfia di profondo disappunto. Sentirsi dire di non essere quello che tutti si aspettano è insopportabile, specie per i grandi uomini. Eppure il decaduto Baronetto non andò oltre quell’espressione, non ribatté verbalmente all’amico: non se la sentiva, era stato medicato in fin di vita così tante volte che gli sarebbe stato difficile non approvare le sue parole, ma chiunque altro non sarebbe uscito vincitore da una simile conversazione.

    «E se i soldati del Raja venissero a cercarti?» Riprese Petel rompendo l’imbarazzante silenzio che si era impadronito della capanna del vecchio canuto «Tutti sanno che sei un mio fidato amico.»

    «Se verranno mentirò, come ho sempre fatto.» Rispose il vecchio canuto «Non preoccuparti per me, piuttosto ricorda: quando sarai sull’isola di Ramash rimani sempre vicino alla costa! Non inoltrarti verso l’interno, è una terra selvaggia e orrendi racconti ho udito su quei luoghi…»

    «Seguirò i tuoi consigli Safiq, l’ho sempre fatto.»

    Un improvviso rumore irruppe nella capanna: sembrava uno strano fruscio e proveniva dalla vegetazione intorno all’abitazione del vecchio canuto. Poteva essere il vento che, alzatosi appena, aveva generato quel particolare strepitio tuttavia le orecchie di Azmì, sempre all’erta, conoscevano troppo bene quei luoghi da non distinguere l’arrivo di un estraneo.

    «Devi scappare, adesso!» Si affrettò a dire il vecchio canuto «Loro sono già qui…»

    Petel si piegò di un lato e scese dall’amaca. Poggiando i piedi a terra non riuscì a trattenere un mugolio di dolore: la ferita sul fianco non era ancora guarita del tutto.

    «Il tuo tempo qui è finito Diavolo! Se vuoi sopravvivere devi stringere i denti e correre verso la mia canoa…»

    «Cosa ne sarà di te Safiq?» Chiese preoccupato il decaduto Baronetto.

    «Lo sapremo a breve…» 

    ​3. Di nuovo in fuga

    Petel scese dall’amaca, quasi con un balzo, e poggiò i piedi per terra con un elegante saltello avvertendo immediatamente un acutissimo dolore che dal fianco si propagò in tutto il corpo. Soffocò in gola un mugolio di dolore mentre, traballante, cercava un punto solido per reggersi in piedi.

    Il vecchio canuto gli corse incontro per sorreggerlo. Il volto sofferente del decaduto Baronetto si incastrò fra la spalla sinistra e il collo di Azmì e il suo respiro a tratti sembrava dovesse cessare: il Diavolo delle Emikyklos non era in grado di muoversi eppure doveva dare fondo a tutte le sue energie perché la fuga non era finita!

    Il vecchio canuto pose il palmo della sua mano sul petto di Petel e, accompagnando il gesto con due occhi eloquenti, lo allontanò con decisione. Il

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