Rin Tin Tin Tabasco (Vol. 2) - Coccolati a morte
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Manuel Crispo torna con il secondo episodio del ciclo dedicato al detective privato a quattro zampe Rin Tin Tin Tabasco: una realtà alternativa dove gli animali hanno assunto, nel bene e nel male, i ruoli e le capacità tipiche degli uomini, che sembrano scomparsi dalla Terra…
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Rin Tin Tin Tabasco (Vol. 2) - Coccolati a morte - Manuel Crispo
Intrecci
Rin Tin Tin Tabasco (Vol. 2)
Coccolati a morte
di Manuel Crispo
Editing di Simona Focetola
Immagine di copertina di Ilaria Tuti
Produzione digitale: Daniele Picciuti
ISBN: 978-88-98739-78-3
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
© Associazione Culturale Nero Cafè
Edizione digitale luglio 2016
Manuel Crispo
Rin Tin Tin Tabasco
(Vol. 2)
Coccolati a morte
logoebookIndice
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L'autore
1
Sesso a parte, il mio rapporto con Spotty McFerguson aveva seguito il consolidato iter Tabasco
: la birra era diventata una cena, la cena un invito a restare per la notte e l’invito a restare si era prolungato a tempo indefinito. Dopotutto avevo una camera da letto che cresceva, utilizzata perlopiù per conservare la mia collezione di una pregevole rivista erotica interspecie intitolata l’Arca di Noè, cui il rosso McFerguson, in quanto gatto castrato, non era ovviamente interessato.
Io e Spotty non avremmo potuto essere più diversi. Lui era un ingenuo che credeva ancora a Babbo Natale; io non credevo più nemmeno a mia madre da quando, da cucciolo, l’avevo beccata il 24 dicembre a baciare un tizio con tipica barba bianca, che indossava vesti rosse con candide pellicce, sopra un finto pancione. Io rifiutavo con sdegno lo stereotipo del gatto pigro, dandomi molto da fare per evitare di trovarmi un lavoro vero; lui, in quel cliché, vi si adagiava con grazia fachiresca. Io amavo le femmine; a lui erano negate. Io detestavo cucinare; lui era divorato da una passione bruciante: il ricettario del cuoco ratto Remy Dennehy era il suo Corano. L’unica cosa che avevamo in comune era una sfegatata ossessione per il cinema.
Trascorremmo le prime tre settimane della nostra convivenza spianati sul divano di casa, con la sola compagnia di una cassa di birra Leffelin e dello scarafaggio Numeri Goldblatt. Il mio coinquilino, fresco di divorzio, aveva preso subito il rosso McFerguson in simpatia, forse perché da quando la sua famiglia s’era trasferita oltreoceano si sentiva solo, o magari perché l’ex sgherro di Deep Silver Silverson aveva l’abitudine di seminare cibo in giro con la tenacia di un cucciolo smarritosi nei boschi della Francia.
Beh, comunque sia, quella notte tornai a casa disfatto e col morale talmente a terra che, scavando ancora un po’, sarebbe arrivato fino in Cina. Borbottando improperi, gettai il cappello su un mucchio di panni tanto sporchi da reggersi ritti da soli e mi fiondai in bagno. La tenevo da ore. Il contatto delle mie chiappe con il bordo gelido della vasca della sabbietta mi fece rabbrividire. Pochi istanti dopo, la granella era da cambiare. Mi pulii in fretta e furia, mi tirai su i calzoni, presi i guanti di lattice da un cassetto e la paletta dall’altro e, insomma, mi diedi da fare; quando il sacchetto di plastica per i rifiuti fu colmo, mi ritrovai davanti allo specchio del bagno a studiarmi il muso con l’ombra di una vaga depressione sul cuore.
Considerai criticamente il mio pelo color torba quasi uniforme, da cui qua e là facevano già capolino alcuni fili argentei, il ciuffo candido sul petto che mi sbucava dalla camicia abbottonata male, la piccola cicatrice sull’occhio destro. Da cucciolo amavo, visceralmente e per ragioni indecifrabili, uno strano sceneggiato televisivo ambientato in Messico alla fine del secolo scorso, Gnorro - L’eroe indifferente, al punto che una sera, per impedire a mio padre di cambiare canale mi lanciai dalle braccia di mia madre finendo dritto su un tavolino di vetro massiccio e ferendomi così l’arcata sopraccigliare destra. Di quell’avventura mi restava la minuscola cicatrice quasi invisibile, che mi dava – a detta di molti – un’aria di impalpabile strafottenza.
Da quei tempi remoti, due cose erano rimaste sostanzialmente immutate: la mia passione per la tivù e il fatto che le cose più orribili mi accadano sempre quando mi separo dall’abbraccio di una femmina.
Quando uscii dal bagno, mesto e col sacchetto colmo di sabbietta e sporcizia in mano, Numeri mi squadrò ben bene con quell’aria critica che hanno gli scarafaggi più esigenti e, alla fine, mi domandò se fosse tutto ok.
Non era tutto ok. Valéry, la gatta con cui mi vedevo, mi aveva testé comunicato che fra noi era finita. Tornava da suo marito, un tale Menadio, che nella vita faceva il collaudatore di scherzi di Carnevale. Che bello scherzo…
Mi sporsi dalla finestra del salone e lasciai cadere il sacco di sotto, fin dentro il bidone della spazzatura, con un bel tonfo. Un nuovo giorno si stava affacciando ma la mano pietosa della notte copriva ancora giusti e ingiusti come un equanime sudario di piombo: anche perché a Meow York, di giusti, non c’è traccia. Scuotendomi le zampe per cercare di ripulirmi dalla granella lurida e appiccicosa che, nonostante i guanti, mi si era annidata nella folta peluria delle zampe, mi ritrovai a mormorare: «Qualcuno dovrebbe inventare un sistema più sensato per smaltire i nostri escrementi, cazzo».
«Ad esempio?» chiese Spotty.
«Ad esempio, una specie di latrina con acqua corrente incorporata. Hai presente? Un qualcosa che, tramite un sifone o una roba del genere, spinga i rifiuti corporei altrove, magari per via sotterranea, per poi smaltire i liquami, appositamente diluiti e convogliati attraverso un complesso di canali, dritti dritti nell’oceano».
«Tu hai visto troppi film di fantascienza, gatto» sbuffò il rosso.
«Già, probabilmente hai ragione» ammisi. «È solo