I segni della tendenza suicidaria nella scrittura
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I segni della tendenza suicidaria nella scrittura - Marilena Cremaschini
Bibliografia
Capitolo I - Le motivazioni del suicidio
1.1 Definizione del suicidio
Il suicidio è un atto di auteliminazione, un gesto rivolto alla propria persona e diretto a togliersi la vita.
La persona suicidaria decide consapevolemente di terminare la propria esistenza in modo definitivo.
È una decisione programmata, ragionata, organizzata con metodo e minuzia, spesso preceduta da diversi tentativi di provare il geto ed il suo effetto emotivo.
Quando è soltanto tentato si temono gli eventuali ripensamenti, si dubita di proseguire un'azione che non lascia speranze.
Infinite possono essere le motivazioni che stanno alla base di una tale scelta, tante quanto sono le storie personali e le particolarità del soggetto, le patologie di cui soffre, il suo vissuto, della sua famiglia e della sue origini, delle persone e dell'ambiente in cui cresce, del contesto in cui si trova a vivere, dei traumi che ha segnato la sua esistenza.
In alcuni casi uccidersi è la sublimazione di un gesto spirituale, politico, un ideale per cui il soggetto si sacrifica al fine di raggiungere una meta più elevata, per essere esempio o stimolo per gli altri.
Il soggetto, sacrificando la propria esistenza, vuol apportare un contributo significativo al suo credo e nella sua comunità.
Nonostante l'eroicità del gesto, gli psicologi vedono nell'azione una disfunzionalità emotività del soggetto, una rottura dell'equilibrio mentale con totale distacco dalla realtà.
Il suicidio viene considerato soltanto l'agito di una persona malata incapace di prendere delle decisioni consone ed opportune, nulla a che vedere con l'eroicità del gesto che rimane per la medicina ingiustificato.
Vi son altri casi invece in cui il suicida, pur avendo la finalità di togliersi la vita, voglia di fatto colpire e punire un'altra persona, un famigliare o una persona amata, che l'agente ritiene essere il solo responsabile della sua angosciante esistenza, e delle sue condizioni di disagio e dell'impossibilità di porvi rimedio diversamente.
L'auto-distruzione diventa pertanto lo strumento con cui il suicida infierisce sugli altri, famigliari o amati, per vendetta, rabbia, risentimento, perché si ritengono responsabili della propria condizione, incapacità, sofferenza, o perché non sopportano l'idea di separarsene, ritenendoli, in modo totalitario ed assoluto, dei meri prolungamenti della propria esistenza.
Per questi motivi gli altri, coloro che sono ritenuti responsabili
della sua condizione, vanno colpiti in modo tale che abbiano il rimorso di non aver cambiato le cose ed impedito il suicidio, l'angosciante senso di colpa della responsabilità del gesto che solo loro potevano evitare e per cui nulla hanno fatto per evitare l'evento.
In tali casi di suicidio, l'autore lascia solitamente un biglietto di addio in cui manifesta la motivazione del gesto e la rabbia sottostante, in modo che l'intero mondo possa capire che è stato costretto nella scelta del suo gesto a causa della sua condizione, creata da altri.
Indipendentemente dal motivo che spinge l'autore a commettere il gesto suicidario, solitamente l'autochiria rappresenta l'aspetto terminale di una storia di malattia depressiva, che in forma grave perseguita il soggetto e che lo spinge anche ripetutamente a tentare il gesto, sino all'atto completo e devastante.
La depressione in tali casi è una malattia che ostacola il desiderio di vivere, pertanto il soggetto desidera unicamente la morte attivandosi solo per ricercare il modo più efficace per esprimerlo.
L'atto terminale è la massima espressione di una incapacità a vivere, di una mancanza di speranza e rassegnazione.
Il suicida non vede il proprio futuro, non vede alternative, soluzioni o miglioramenti.
Avverte il proprio stato come una condizione senza via di uscita e senza risoluzione.
L'unico modo di porre fine alle sofferenze interiori, ai patimenti, e disagi è quello di porre fine alla propria infelice esistenza.
Nella soppressione della propria esistenza, il suicida afferma il proprio desiderio di non vivere, di non sopportare ulteriormente la sua condizione e desidera una nuova non-vita, una realtà che nulla ha a che vedere con quella vissuta e terrena, libera dal dolore, dalla solitudinee dalla sofferenza.
Gli studiosi, sopratutto psicologi e sociologi, hanno da sempre cercato di dare una risposto al perché una persona decida di togliersi la vita, di trovare una motivazione che fosse univoca, in modo tale da cercare le soluzioni più adeguate per evitare tale drammatico gesto.
I sociologi dell'inizio del XIX secolo ebbero a formulare delle primeteorie definite biologiche
in quanto improntate ad uno studio della persona, un'analisi prevalentemente soggettiva diretta ad attestare le condizioni patologiche, di malattia del soggetto suicidario.
Culturalmente e cristianamente, al tempo del 1800, la vita era consacrata a dono divino, che soltanto Dio poteva togliere.
Intollerabile la circostanza che la vita potesse esse privata dal un gesto volontario e desiderato del cristiano, che in tal modo contravvenendo alle regole divine, le quali norme cristianeda una parte tolleravano l'omicidio a cui andava rivolta comprensione eperdono, dall'altra condannavano totalmente il suicidio in quanto ritenuto atto imperdonabile e condannabile con una scomunica e l'allontanamento dai riti sacrali.
Quindi per la medicina del tempo, che si affiancava ai dogmi cristiani, il suicida era una persona malata, deviata, posseduta da satana, un abominio, incapace di avere una propria volontà e di prendere delle decisioni, totalmente scevra di senso morale ed etico.
L'unico rimedio per le persone che tentavano il suicidio era quello di sottoporle ad esorcismi e ricoveri forzati in istituti dove venivate forme disumane di trattamento quali ad esempio l'elettrochoc.
Soltanto a decorrere dall'inizio del 1900 la moderna sociologia ha cercato di dare una spiegazione al gesto di autochiria oltrepassando la condizione personale e biologica dell'autore, e l'idea che si trattasse di una persona posseduta dal demonio o deviata, ponendo invece l'attenzione sul contesto ambientale e sociale in cui il soggetto era vissuto ed era stato condizionato nella crescita.
Un esempio di tale prospettiva d'esame è quella seguita dagli studi conseguenti alla grave crisi economica americana del 1929.
Gli sociologi del tempo hanno rilevato come il suicidio fosse largamente in uso, sopratutto tra i maschi, da coloro che pativano la condizione di povertà, la perdita del lavoro o l'impossibilità di provvedere ai bisogni quotidiani della famiglia.
Tale disagio era patito prevalentemente dagli uomini, i quali si ritenevano i capi-famiglie aventi la responsabilità di tutti i loro cari e la responsabilità di tutte le condizioni o situazioni che gravassero sulla casata.
Il disagio della mancanza di possibilità economica