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Prove di paura: Barbari, marginali, ribelli
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Prove di paura: Barbari, marginali, ribelli

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Il fantasma della paura attraversa le società contemporanee. Ci sono, alla sua base, fatti eterogenei: la crisi economica, l’impoverimento diffuso, l’incertezza sul futuro, la novità oscura della globalizzazione, il disordine sociale, il terrorismo, la criminalità di strada. Ma è quest’ultima ad essere isolata e strumentalizzata da media alla ricerca di scoop e da una politica miope, priva di tensione morale e interessata solo al consenso. Così, anche se la criminalità non aumenta e l’immigrazione dà futuro a una società altrimenti in esaurimento, crescono il carcere e il razzismo. E la collettività individua i suoi nemici: i barbari, i marginali, i ribelli. Non è la prima volta nella storia. Ma sempre ha prodotto guasti e tragedie…
LanguageItaliano
Release dateSep 19, 2016
ISBN9788865791226
Prove di paura: Barbari, marginali, ribelli

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    Prove di paura - Livio Pepino

    www.lisagelli.wordpress.com

    Indice

    Prologo

    I. Strabismi

    II. Barbari

    III. Marginali

    IV. Ribelli

    V. Politiche

    Postilla

    Prologo

    Nei vent’anni che vanno dal primo Governo Berlusconi (10 maggio 1994) alle dimissioni del presidente della Repubblica Napolitano (14 gennaio 2015) l’Italia ha attraversato una crisi economica e politica senza precedenti, almeno a partire dal secondo dopoguerra. Ciononostante il conflitto sociale è stato più contenuto di quanto fosse lecito attendersi. Per altro verso, le forme maggiormente aggressive della criminalità di strada hanno avuto una costante, seppur limitata, flessione. Parallelamente, mentre si sono spenti, con alcune sanguinose appendici nei primi anni 2000, gli ultimi fuochi del terrorismo interno, il Paese è stato risparmiato dalle scorrerie del terrorismo internazionale che hanno insanguinato l’Europa. Eppure il clima del Paese si è profondamente deteriorato.

    Ho visto uomini e donne lanciare bottiglie molotov contro altri uomini e altre donne (e soprattutto bambini) colpevoli di essere nati altrove e di essere malvestiti e straccioni. Ho visto clochards uccisi dall’abbandono o dalle percosse. Ho visto forze di polizia in assetto di guerra sgombrare campi, sotterranei e giardini, cacciando via (non si sa verso dove) uomini, donne, vecchi e bambini colpevoli di essere poveri. Ho visto, al seguito, camion della nettezza urbana caricare e avviare alla distruzione materassi sporchi, suppellettili rotte, vecchi elettrodomestici (cioè le case dei poveri). Ho visto leggi in cui si criminalizzano popoli, comunità, gruppi (anche nel nostro Paese, seppur meno che altrove). Ho visto gente applaudire e giornali esultare per questo nuovo corso della politica e chiederne un ulteriore inasprimento. Ho visto seminare odio e disprezzo verso i diversi per razza, per cultura, per idee. Tutto nel silenzio o con distinguo di circostanza di gran parte della politica e di molti intellettuali. Mentre chi denunciava la cultura sottostante a queste prassi e vi si opponeva era considerato, volta a volta, retrò, buonista, astratto, sovversivo.

    Ho visto anche il dolore e la rabbia delle vittime di reati, modesti o efferati, commessi da familiari, da vicini di casa, da uomini e donne venuti da lontano. E ho visto l’indignazione graduarsi a seconda della provenienza, del colore della pelle, della religione, delle idee dell’autore del reato. E l’attenzione delle istituzioni sfumare, presto, in disinteresse, accompagnato da strumentalizzazioni deformanti della politica e dei media. Mentre al sostegno e all’accoglienza provvedevano per lo più (quando c’erano) singoli o gruppi.

    Così si sta costruendo, in modo metodico e diffuso, il «nemico», con una rappresentazione che fa apparire naturale e spontanea la reazione, il rifiuto e, alla fine, l’annientamento e la distruzione fisica. Tutto viene giustificato evocando violenze, prevaricazioni, soprusi (veri o presunti) del nemico di turno: migranti, poveri, marginali, ribelli… E denunciando una paura e un’insicurezza sempre più intollerabili indotte da quei comportamenti e da quelle presenze.

    Non è la prima volta che ciò accade. Anzi la paura, come sentimento collettivo, ha condizionato in maniera massiccia la storia dell’umanità. Alla base di guerre, persecuzioni, genocidi c’è stata sempre, seppur non da sola, la paura dell’altro. Una paura di fronte alla quale tutto diventa lecito, ancorché orribile: quasi una gigantesca legittima difesa. Intanto si perde, fino a diventare irriconoscibile, la ragione stessa della paura. E le persone vengono disumanizzate, ridotte a simboli di inimicizia e ostilità.

    Questo ho visto negli anni. Di questo sono stato testimone. E ciò mi ha indotto a scrivere.

    * * *

    Più che un saggio teorico (per il quale mi mancherebbero competenza e strumenti) il libro è il frutto di un’esperienza di vita, di lavoro, di incontri, di letture. Questa origine si riverbera anche sulle citazioni, che sono l’esito di approfondimenti disordinati più che di una ricerca meticolosa, e che scontano non poche, involontarie omissioni.

    Devo, ovviamente, dei ringraziamenti. Soprattutto a loro – i barbari, i marginali, i ribelli – dai quali molto ho imparato. Più che dai giuristi.

    Torino, gennaio 2015

    I. Strabismi

    Tempi moderni

    Il tilt scatta mercoledì 10 agosto 2011. «È tornata la paura!», annuncia la Cnn e le prime pagine dei media di tutto il mondo rilanciano la stessa parola: «paura». Non è certo una novità, almeno dall’11 settembre di dieci anni prima, ma in quel caldo giorno d’estate c’è una coincidenza inedita che rende incerte, anche nell’immaginario collettivo, l’identità e l’origine del fantasma che spinge i leader politici a precipitosi rientri dalle vacanze¹. Per alcuni, infatti, la ragione della paura sta nel crollo delle borse, ennesimo segnale del carattere strutturale della crisi; per altri nell’esplosione, a Londra, di riots imprevisti e violenti, che hanno visto, il giorno precedente, il primo morto. La contestualità dei due eventi ha un forte valore simbolico, tale da indurre gli osservatori più attenti a rivedere semplificazioni e certezze.

    È, infatti, plasticamente evidente la pluralità delle ragioni della paura e la sua connessione con il contesto economico e sociale dei Paesi industrializzati (del nostro tra gli altri).

    C’è, alla base di tutto, l’impoverimento. Dopo decenni di diffuso benessere. I poveri crescono. A dismisura. Nel 2013 le persone in condizione di povertà assoluta erano, nel nostro Paese, 6 milioni e 20.000, pari al 9,9 per cento della popolazione, mentre l’anno prima erano 4 milioni e 814.000 (7,9 per cento) e nel 2011 solo 3 milioni e 415.000 (5,2 per cento). Ed erano 10 milioni e 48.000 (16,6 per cento) le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili, a fronte dei 9 milioni e 563.000 (15,8 per cento) del 2012 e degli 8 milioni e 173.000 (13,8 per cento) del 2011. Senza contare l’area della deprivazione o della vulnerabilità, cioè gli 8 milioni e 600.000 cittadini che, nel 2012, non erano in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno, avevano arretrati di affitto, di mutuo o di bollette e non potevano permettersi un pasto adeguato ogni due giorni. Dal 2011 al 2012, nell’arco di un solo anno, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito, mediamente, del 4,8 per cento e la situazione è in costante peggioramento. Nell’ottobre 2014, poi, la disoccupazione ha raggiunto il valore più alto dal 1977: il 13,2 per cento del totale e il 43,3 per cento tra i giovani. L’impoverimento è cosa diversa dalla povertà². Chi ha vissuto il benessere e un consumismo esasperato vive con angoscia anche la semplice prospettiva di una vita austera e frugale. Figurarsi quando in forse non è il di più ma il necessario. Così – stando alla più recente rilevazione dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza³ ‒ nel gennaio 2014 il 61 per cento degli intervistati poneva al primo posto tra le emergenze del Paese la disoccupazione e/o la situazione economica (rispettivamente il 49,4 e l’11,6 per cento) e tre intervistati su quattro, pari al 72,5 per cento, erano seriamente preoccupati per la perdita del lavoro, della pensione o dei risparmi, e per il conseguente venir meno del necessario per vivere.

    Con l’impoverimento cresce, ancor di più, la disuguaglianza. Da anni. Nel 2009 l’amministratore delegato della (allora) Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito, senza tener conto delle stock options, un compenso di 4 milioni e 782.000 euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano⁴. Poi la forbice si è ulteriormente allargata⁵. E la disuguaglianza non solo cresce ma diventa cultura diffusa⁶. Ciò moltiplica la competitività e la paura di soccombere nella lotta per la sopravvivenza con tutti gli altri, vissuti come avversari, ostili, nemici.

    Diventa, inoltre, ogni giorno più chiaro che quella attuale non è una situazione di difficoltà contingente. Il futuro, che un tempo lasciava intravedere (o immaginare) aspettative di un miglioramento inarrestabile delle condizioni di vita e di una crescita economica senza fine, oggi evoca non solo sacrifici momentanei ma timori e paure di una selezione sociale in cui solo alcuni ce la faranno mentre gli altri saranno lasciati irrimediabilmente indietro. E ciò in un contesto in cui vengono meno le protezioni dello Stato sociale contro le disgrazie e gli accidenti della vita (dalle malattie alla perdita di lavoro) o anche solo contro fragilità fisiologiche, come la vecchiaia. E in una cultura in cui trionfa l’esclusione (perché – si dice – la società non può permettersi il lusso di chi non ce la fa o è superfluo, quando non dannoso, per la collettività) e tutti possono, da un giorno all’altro, diventare scarti.

    Si aggiungano le promesse deluse della democrazia⁷, che hanno cancellato le illusioni della stagione successiva alla seconda guerra mondiale. Basterebbe. Ma c’è, ancora, un profondo degrado morale e istituzionale, che produce una vera e propria corruzione del sistema e un ostentato disinteresse della politica a dare soluzione ai problemi di milioni di donne e di uomini. I guasti riguardano lo stesso assetto etico del Paese, il comune sentire, le forme del giudizio e del comportamento. Il mondo politico, nella sua gran parte, ha smarrito il confine tra normalità e indecenza e non trova ostacoli in un sistema dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra tutto ciò con compiacimento e mettendoci, anzi, del suo. Così è stata sancita l’ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell’evasione fiscale, dell’ostentazione del privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti. Le conseguenze sono univoche. Secondo la citata rilevazione dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza, nel gennaio 2014 l’inefficienza e la corruzione politica sono al secondo posto tra le emergenze del Paese e tre intervistati su quattro – tanti quanti sono in ansia per la propria situazione economica – esprimono una consistente preoccupazione per le prospettive politiche.

    Viviamo, per riassumere, in un’epoca nella quale la povertà si estende a strati sempre più ampi, i grandi valori sono affievoliti o addirittura scomparsi, sono in atto trasformazioni profonde e ingovernabili (o comunque ingovernate), si tocca con mano la debolezza (se non l’inesistenza) della politica. Quella in cui siamo immersi è una società impoverita, conflittuale, talora – non solo nelle periferie – degradata, senza prospettive e senza politica. E in questo contesto l’incertezza sul futuro si trasforma sempre più in paura⁸.

    Ci sono dei precedenti, anche vicini. Per esempio gli anni successivi alla prima guerra mondiale. Ma questa volta la crisi è più profonda e attraversa tutte le società occidentali. Con un elemento nuovo. Per tutti, come per la piccola Scout, protagonista del famoso romanzo di Harper Lee⁹, la paura maggiore è data da ciò che non si conosce, che non si vede, che sta oltre la siepe. È la fin troppo evocata globalizzazione, che produce effetti profondi anche sul piano culturale e politico. Ciò determina, da un lato, insicurezza per il presente e, dall’altro, incertezza per il futuro: un mix che alimenta «la più spaventosa e meno sopportabile delle nostre paure»¹⁰.

    Eppure, sulla scena politica e mediatica e (di conseguenza) nel vissuto dei più, i sentimenti collettivi di paura e insicurezza vengono abitualmente e acriticamente associati alla criminalità di strada¹¹, al disordine, alla violenza di frange estreme¹². Comprenderne la ragione è il primo passo per affrontare razionalmente la situazione.

    Felicità versus paura

    Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti ci sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogniqualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali princìpi e di organizzarne i poteri nella forma che sembra al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicit๳.

    Vivere serenamente, al riparo da malattie, infortuni, disgrazie, dissesti economici, aggressioni all’incolumità e ai beni è un’aspirazione antica come il mondo, comune a tutte le donne e a tutti gli uomini. Tra desideri e realtà, peraltro, c’è sempre uno scarto, che si avverte in misura più acuta con riferimento alla vita quotidiana. È questo scarto che provoca insicurezza e paura. Quando, poi, esso supera il livello di guardia, la paura diventa un problema sociale: oltre a complicare la vita dei singoli, mina le basi stesse della convivenza.

    Le conseguenze si toccano con mano, a livello individuale e di scelte politiche e istituzionali: aumentano l’intolleranza e l’aggressività (soprattutto nei confronti dei diversi), crescono i suicidi e i casi di sofferenza psichica, si diffondono i fenomeni di autoesclusione individuali o di gruppo, si moltiplicano – nelle strade – telecamere e guardie armate, si inaspriscono i sistemi legislativi e amministrativi, si affaccia il localismo egoistico delle regioni ricche, trovano seguito e successo populismi e capi carismatici (che prendono il posto di un impegno politico di cui non si vedono sbocchi), entra nel linguaggio relativo al conflitto sociale il termine guerra e via di seguito in un crescendo senza fine che, lungi dal contenere ansia e paura, le moltiplica. Ciò è tanto più acuto in epoche, come l’attuale, in cui vengono meno le antiche abitudini e i riferimenti di sempre e le migrazioni mostrano ogni giorno – magari come vicine di casa – persone diverse nel colore della pelle, nella lingua, nella religione, nell’abbigliamento. In cui le città diventano universi sconosciuti dove si può camminare per ore senza incrociare volti noti. Magari, incontrando disordine e degrado. Così viene meno, con cortocircuiti devastanti, la coesione sociale e si intrecciano, in parallelo, paure molteplici e fino a qualche anno fa ignote.

    La città e il bosco

    Le paure collettive, legate ai vissuti quotidiani, sono in verità risalenti. Ne dà una suggestiva e moderna descrizione, a cavallo tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo, Sant’Agostino di Ippona che, per descrivere l’insicurezza della società, ricorre all’immagine del bosco contrapposta a quella della città ed evoca il perenne e aperto conflitto tra «coloro che, componendo la vera società dei cristiani possono vedersi e rappresentarsi come un soggetto collettivo pienamente umano perché pervaso da un’ispirazione di origine divina […] e coloro che, esterni, estranei o ribelli possono essere intesi […] come massa di soggetti spiritualmente deprivati, incapaci di capire, simili ad animali vaganti nel buio di un bosco e insofferenti dei vincoli stabiliti dalla società cristiana»¹⁴. Si anticipa, in questo passo, un elemento costante nelle paure contemporanee: l’individuazione della fonte di ansie e insicurezze negli esterni, negli esclusi, ovvero i pagani, gli ebrei, gli eretici, gli stranieri, i malviventi (nel senso letterale di persone che vivono male).

    La paura dell’altro, del resto, sta alla base delle strutture politiche e istituzionali su cui si è retta nei secoli la convivenza tra le persone e i popoli: le città e lo stesso Stato.

    Da sempre le città hanno tra le principali ragion d’essere la protezione dai pericoli e sono per questo circondate, in prevalenza, da mura imponenti o da palizzate¹⁵. Ciò vale anche per le città moderne, che nascono proprio per vincere i fantasmi dell’insicurezza:

    Fu dall’incurabile miseria e dal terrore di quest’epoca [dalla caduta di Roma al XII secolo, ndr] che si svilupparono certi speciali atteggiamenti di fronte alla vita, che influirono fortemente sullo svolgimento di tutte le più importanti istituzioni sociali dell’Occidente, e particolarmente la città. Cinque secoli di violenza, paralisi e incertezza avevano fatto nascere nel cuore degli europei un profondo desiderio di sicurezza. Quando ogni occasione poteva rivelarsi una cattiva occasione, quando ogni istante poteva essere l’ultimo istante, il bisogno di difesa sovrastava a qualsiasi altra preoccupazione, e un asilo sicuro era press’a poco tutto quanto fosse lecito chiedere alla vita. […] Grazie alle mura ogni villaggio poteva diventare un’altra fortezza: la popolazione si sarebbe rifugiata in quest’isola di pace¹⁶.

    Lo Stato moderno, a sua volta, si legittima, nella teorizzazione di Hobbes e del suo Leviatano¹⁷, per vincere la paura provocata dalle violenze reciproche tra i cittadini. È un paradigma che capovolge la concezione classica dell’uomo come animale sociale, portato per natura a vivere aggregandosi con i suoi simili, e della società politica come proiezione armonica di un ordine naturale preesistente. Il capovolgimento operato da Hobbes è totale: l’uomo è un essere in permanente conflitto con gli altri uomini per la sopravvivenza e per l’affermazione di sé¹⁸ e le relazioni sociali sono una sorta di guerra a tutto campo, che può essere disinnescata soltanto con la cessione di ogni potere al Leviatano, mostro biblico, sovrano assoluto, dio naturale, che solo è in grado, con l’uso della forza e, occorrendo, del terrore, di assicurare ai sudditi la pace e la sicurezza¹⁹.

    La città diventerà nel tempo luogo di paura, perché chiunque può entrarvi, ognuno può muoversi come vuole, l’anonimato impedisce i controlli, l’imprevedibilità è assoluta e vi si sviluppano commerci e attività economiche di ogni tipo (lecite e illecite). E lo Stato, il Leviatano di Hobbes, sarà spesso protagonista di oppressione e corruzione sul versante interno e di guerre continue all’esterno, al punto che sempre meno la società si sentirà da esso protetta²⁰. Ma resta il fatto – ed è importante averlo presente, anche per non ripetere gli stessi errori – che la città e lo Stato, prima di diventare essi stessi fattori di insicurezza, si sono intrecciati con l’intento di vincere la paura.

    Malviventi

    Nel contesto descritto assumono un ruolo particolare, come già accennato, alcuni fattori tradizionali di insicurezza e paura: la criminalità, la violenza, il disordine, accomunati in un’unica categoria, in una sorta di regno del male o del peccato. Gli elenchi minuziosi delle diverse tipologie di peccatori, vagabondi

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