Ciò che resta del silenzio
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Ciò che resta del silenzio - Alessio Fabbri
633/1941.
Ciò che resta del silenzio
Scrivere è una passione che ho sviluppato quasi di pari passo con un altro forte interesse: la ricerca delle mie origini. Era quasi scontato che, in modo del tutto spontaneo, questi due mondi si contaminassero e dessero vita ad un esperimento storico-letterario come il presente romanzo breve.
Non sapevo quasi nulla di mio nonno Lino, e così ricercando informazioni e trovando la via verso casa
ho messo piede in luoghi dal fascino eterno, là dove i miei avi hanno tribolato, sorriso, vissuto. Lino è cresciuto lontano dalla sua famiglia d’origine, e perciò ho deciso di prendere spunto dalla prospettiva di suo padre Domenico. In qualche maniera, così facendo, ho la sensazione di restituire qualcosa e di colmare lacune che esistono da sin troppo tempo.
Nell’aspetto narrativo e d’invenzione, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, mentre nel limite del possibile ho cercato di dare un’attinenza storica e precisa circa persone e fatti di cui m’è stata data testimonianza. Dedico questo romanzo breve ai protagonisti principali di questo eventi, agli avi che non ho conosciuto ma che, in qualche maniera, mi hanno parlato di sé.
Capitolo I
Preludio
L’orologio a pendolo segna le nove. Nessun suono sembra oltrepassare quella vecchia finestra, il cui legno secolare trattiene nelle sue vene il marchio del tempo. La si scorge maldestramente apposta ed instabile, eppure nessuno stimolo esterno sembra poterla attraversare.
Marradi è un borgo che conta poco più di ottomila anime, e che sublima lo sguardo al solo apparire. Secoli di storia ne hanno marcato gli angoli di pietra, le strette vie ed i sentieri nascosti. Il baccano c’è, è la fuori, nel mondo che si nasconde dietro quel vetro oscurato: un vociferare continuo, il passaggio dei carri e di qualche automobile, le grida dei bambini che giocano sulle scalinate di terra dei monticelli, degli anziani che li sgridano e delle donne che cantano in riva al fiume mentre lavano via il sudore dai panni dei loro uomini. Non odo nulla di tutto ciò, ma lo percepisco con i ricordi. So che esiste un luogo di vita e di emozioni, che quasi graffiano la lastra trasparente che viene soavemente accarezzata da quella grossa tenda bluastra. Filtra in qualche modo anche un lieve sapor di legna bruciata, un odore tipico dei luoghi di montagna, in questo angolo di verde nel quale risiedo ma del quale, a malapena, scorgo ora le sfumature.
C’è solo il ticchettio di quel vecchio mobile ottocentesco a dominare il mio universo, qui dove sopisco i miei ultimi sonni.
Ormai anziano ed invalido, mi vedo incapace di dormire sino alle ore più mature della mattinata, abituato ai vecchi orari da lavoro che hanno scandito gli attimi più operosi e vitali della mia esistenza. Come ogni giorno, anche oggi apro gli occhi al levarsi del sole sopra i monti e lì, steso su quel grande letto, di quelli ampi e rialzati come solo una volta li facevano, resto ad osservare il soffitto, disegnando attimi fuggiti, speranze e rimpianti che affollano ormai la mia labile mente.
Ricorro a quei ricordi, rincorro gli attimi di ciò che è già passato, a quegli usi e costumi ai quali ormai son fin troppo affezionato. Sollevo quindi le coperte, e lo faccio guardando l’oscurità della mio precario quarto, scostandomi dalla mia stantia posizione notturna. Le mura che mi circondano non mi appartengono fino in fondo: è altrove la mia vita, è stata scritta ed