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L'Uomo con il Furgone
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L'Uomo con il Furgone

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About this ebook

Il modus operandi di potente thriller di è il gancio che intrappola il lettore dal primo capitolo e proprio non ti lascia andare. In una tranquilla città sulla costa a nord di Boston, un serial killer sta uccidendo vittime selezionate, per lo più coppie. Curiosamente, però, questo brutale cacciatore serve una vocazione superiore. Il detective Stanley Devonshire sta seguendo una scia di prove, nel tentativo di determinare esattamente come il killer sia riuscito a dare sfogo alla sua furia omicida senza essere scoperto nonostante sembri avere ormai ottant'anni seguendo la stessa trama. All'inizio, non vi è alcun filo riconoscibile della ragione che collega le uccisioni. Così Stan arruola l'aiuto del suo amico di lunga data da Marblehead, detective Mark Brown. Stan è in squadra forzatamente anche con una stupenda poliziotta statale e con un imponente agente federale che lo seguono lungo un viaggio di rivelazione – una contorta rivelazione dopo l'altra. Devonshire è certo di essere vicino alla soluzione dei casi impilati sulla sua scrivania, ma nel suo tentativo d'identificare l'assassino, lui o qualcuno vicino a lui diventerà la prossima preda del cacciatore. The Steel Van lascia il lettore con il fiato sospeso, postulando ipotesi ad ogni svolta mentre il libro tesse una storia fatta di omicidi, segreti e giustizia. Mentre l'autore intreccia i fili tentatori delle rivelazioni, il lettore è trasportato verso una direzione di disagio, una direzione che potrebbe preferire di evitare.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJul 7, 2016
ISBN9781507145340
L'Uomo con il Furgone
Author

Jason P. Stadtlander

Jason es natural de Ohio, pero actualmente vive en el norte de Massachusetts con su familia. Sus andanzas como escritor comenzaron en sexto curso, cuando escribió «Loss of Innocence», un relato corto sobre un oso de peluche que vuelve a la vida, pero que poco a poco se deteriora a medida que su dueño y compañero de toda la vida madura y pierde su imaginación. Fue en este punto de su vida cuando Jason supo que quería escribir. Disfrutaba de la magia de ser capaz de crear un mundo único lleno de nuevas realidades en su mente, un mundo que nadie antes hubiera visto. Desde entonces, Jason ha escrito más de 150 relatos cortos y comenzó su carrera editorial con el lanzamiento de «Ruins of the Mind: An Antology» en junio de 2012. Jason ha trabajado en el campo de la informática desde 1995 y ofrece charlas a padres sobre ordenadores y seguridad informática. Autor trabajador, disfruta relacionándose con sus lectores mediante sus firmas de libros, charlas y encuentros con los medios.

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    Book preview

    L'Uomo con il Furgone - Jason P. Stadtlander

    Riconoscimenti per

    The Steel Van Man

    «Questo romanzo stravolge completamente il genere thriller/poliziesco... L'idea intrigante che l'educazione di un individuo, complementare a una successiva esperienza di vita, possa concludersi con la creazione di un mostro che uccide... ma non indiscriminatamente. Se siete interessati alla psicologia di un killer, questo libro è un must!»

    ––––––––

    — Kath Middleton, Ignite Books/Goodreads

    ––––––––

    «La scrittura di Stadtlander è eccellente. Oltre a intrattenere, attira, disegnando un ritratto del detective principale e la sua controparte nella Polizia di Stato. Come scrittore, porta i personaggi in vita, iniettando un livello di realismo mentre ancora si sviluppa l'intrigo psicologico dietro un complesso serial killer. C'è da chiedersi se qualcosa del genere sia mai accaduto realmente, eludendo la legge. Dopo la lettura di questo libro, nessuno può saperlo. Una storia molto intrigante scritta davvero bene.»

    — Zach Fortier, autore di thriller e polizieschi

    ––––––––

    «Il Signor Stadtlander scrive in maniera perfetta. La prospettiva in prima persona del cacciatore; ti porta dentro nella parte più remota della psiche disturbata di uno psicopatico. I peccati di un'anima contorta hanno corrotto il cacciatore dando, origine a un killer, un feroce assassino che avrebbe potuto facilmente perseguitare l'innocenza, ma che decide invece di salvarla.»

    — Ashley Fontainne, autrice di thriller

    I mostri più spaventosi sono quelli che si nascondono all'interno delle nostre anime...

    —  Edgar Allan Poe

    Per mio padre

    Forse adesso non lo chiamerai più.

    Prometto, andrò a letto.

    Un ringraziamento speciale

    A quelli che amano l'inseguimento e

    la crudeltà di un mostro. . .

    Molte persone hanno contribuito alla creazione di questo libro. Questa pubblicazione non sarebbe mai iniziata o finita senza l'incoraggiamento dei miei amici e della mia famiglia.

    Devo estendere i ringraziamenti a mio padre, senza il quale, il concetto di questo libro non sarebbe mai esistito. The Steel Van Man potrebbe avermi perseguitato da bambino, ma ho imparato a rispettarlo. Ringraziamenti speciali anche per la mia buona amica Margaretta Simpson il cui generoso supporto ha reso possibile la pubblicazione di questo libro.

    Un grazie ai miei beta-reader, alcuni dei quali hanno aspettato con il fiato sospeso (Cindy Robillard e Karen Hunt) ogni nuova bozza. Senza il vostro entusiasmo verso questa creazione, non avrei mai potuto finirla. A tutti quelli che hanno contribuito al mio progetto Kickstarter. Ognuno ha aggiunto una chiave per aprire la gabbia di questa bestia e posso assicurare che essa vi è eternamente grata.

    Grazie al mio caro amico Doug Obey per il suo incoraggiamento su tutte le mie pazze idee. Grazie anche a Bill Kennison in quanto la sua consulenza e guida sono state estremamente utili nell'accuratezza del dettaglio di questo libro. Joanne Norman, grazie per avermi aiutato a trovare un modo per continuare a guidare attraverso Northwood senza correre rischi. Un ringraziamento va anche al mio entusiasta beta-reader Michael Kramer, che mi ha spronato ad acquistare i miei libri solo per la sua avidità. Vorrei estendere i miei omaggi anche al Dr. David Shumaker per la sua assistenza professionale, aiutandomi a entrare nella testa di un killer.

    Un ringraziamento speciale anche alla mia editrice e amica Linda Sickinger che mi ha afflitto a giorni alterni con «Nuovi capitoli?», incoraggiandomi a completare tutto questo prima delle mie aspettative. Per il mio caro amico Craig Coté, che in qualche modo mi ha sopportato, nonostante le mie infinite preoccupazioni sconclusionate riguardo The Steel Van Man e che si è trattenuto dal picchiarmi.

    Sono particolarmente grato alla mia famiglia, Ana, Ian ed Elijah, che hanno contribuito con amore, supporto e pazienza. Mi dispiace, Ian, perché so quanto volevi leggere questo libro... Ma dovrai aspettare finché non sarai più grande; questo libro è solo per adulti.

    La mia più profonda gratitudine va ai miei fan che sono stati così entusiasta di vedere questo libro diventare realtà e senza i quali, sono una semplice persona che sparge parole su una pagina.

    ––––––––

    Introduzione

    I genitori spesso inventano storie per i loro bambini, a volte per intrattenerli, altre per insegnare loro una lezione e altre ancora per tenerli lontani dai guai. Questa storia nasce da un personaggio immaginario, che mio padre ha creato in origine come racconto per me, mio fratello e mia sorella quando eravamo bambini. Ci veniva raccontata più o meno per insegnarci a essere cauti quando incontravamo degli stranieri, ma veniva anche utilizzata per impaurirci, ubbidire ai nostri genitori e andare a letto. Ricordo una notte cercai di uscire di soppiatto dal letto e mio padre mi disse severamente: «Meglio che torni a letto o chiamo l'uomo con il furgone». Niente faceva scorrere la paura nelle mie vene come il pensiero di papà che chiamava l'inafferrabile uomo con il furgone.

    Dal punto di vista della mia mente creativa, l'uomo con il furgone era un mostro predatore che si nutriva dell'innocenza dei bambini; un mostro capace di agguantarli ovunque, eludendo del tutto genitori e autorità. Nonostante questo sembri orribile, da bambino mi tenne, di fatto, vigile e cosciente sulle mie vicinanze nell'area giochi o nel parco.

    Non credo che mio padre abbia mai voluto che il personaggio dell'uomo con il furgone ci impaurisse così tanto come in realtà fece. Una volta che fai uscire un mostro, tuttavia, non è facile rinchiuderlo di nuovo.

    Sperimentazione

    Nel 1928, uno scienziato sovietico sotto il nome di Sergei Brukhonenko presentò un esperimento a una conferenza scientifica internazionale chiamata Terzo Congresso degli Psicologi dell'URSS. Il suo intento fu quello di provare che organi deceduti potevano rivivere. Compreso il cervello.

    Brukhonenko condusse gli esperimenti, provando che una testa poteva essere mantenuta in vita da un primitivo circuito veno-arterio-cardio-polmonare e portò a compimento numerosi test sull'argomento. La sua scienza, tuttavia, fu spesso contestata. Come prova del suo esperimento, e per dimostrare che una testa non era solo parte di un cadavere, fu registrata una pellicola dove Brukhonenko conduceva una serie di esperimenti. Faceva luce nell'occhio della testa, provocando in esso un battito. Quindi colpiva il tavolo con un martello e la testa del soggetto reagiva. Infine, dava da mangiare alla testa un piccolo pezzo di formaggio che finiva sul tavolo, dall'altra estremità del canale esofageo.

    Da quel giorno, contestazione e speculazione attraversarono il mondo intero. Gli scienziati si divisero in due gruppi: quelli che accettarono la possibilità medica e quelli che rimanessero scettici. Questi ultimi insinuarono che la pellicola fosse pura propaganda sovietica o semplicemente impossibile sotto il profilo medico.

    Però, cosa risultò interessante è che molti fisici per la verità diedero credito agli esperimenti di Brukhonenko sulle riviste scientifiche, legittimando la questione nella sua interezza.

    ––––––––

    Uno

    Tutto quello che Jimmy Martinez poteva sentire da quando riprese conoscenza era un sistematico wssbh, wssbh, wssbh. Aprì gli occhi e vide tutto buio. Il suo cuore iniziò a palpitare. Sono cieco. Dio mio, no. Sono cieco. La testa di Jimmy iniziò a pulsare, rendendo quasi impossibile pensare in maniera chiara. Cosa diavolo è successo ieri notte? Aprì la bocca per chiedere se mai qualcuno fosse lì, ma non uscirono parole. Improvvisamente si rese conto che era freddo, come il ghiaccio. Le sue gambe, le sue braccia e il suo torso erano gelati. Il suo corpo stava rabbrividendo, mezzo addormentato. Dove sono? E perché fa così dannatamente freddo qui?

    Battendo di nuovo le ciglia nell'oscurità, Jimmy finalmente vide uno spiraglio di luce. La luce iniziò farsi più intensa ma sfocata, come una fredda lama bianca che lentamente penetrava la sua testa. Chiuse gli occhi di nuovo. Era così stanco, la sua testa faceva così male. Ricordava qualcosa, ma sentiva la sua testa pesante, grossa. Anniversario. Mojito. Troppa roba da bere. La mia bellissima moglie Elena...Così carina. Dannazione! Non riesco a pensare. Solo frammenti e parti.

    La chiarezza si affievolì. Le palpebre di Jimmy diventarono pesanti e crollò di nuovo nel sonno.

    Gli uccelli cinguettano. Un cardellino? Wssbh, wssbh, wssbh faceva il vento. Jimmy lentamente e cautamente aprì gli occhi. Una luce intensa. Come se un pezzo di ghiaccio si fosse conficcato nella sua testa. Dannazione.

    La sua visibilità si schiarì di poco e poté appena distinguere una sagoma sfocata. Strizzò gli occhi, sforzandosi di mettere a fuoco. Sembrava Elena seduta su una sedia. «Elena?», provò a parlare, ma non uscì nessun suono. Il suo nome gli rimase in bocca. Nessuna parola, nessun respiro. Provò a prendere un lungo respiro ma senza successo. Si sentiva strano. Strozzato.

    Jimmy fissò sua moglie, sforzandosi duramente per mettere a fuoco. Una luce calda filtrò sulla sua bellezza e riconobbe il vestito grigio che indossava la notte prima. La sua testa era appoggiata dolcemente su un lato. Lo stava fissando? Indossava una sciarpa. Rossa? Difficile da dire. Era tutto così sfocato. È seduta. Così tranquilla. Sta dormendo?

    «Elena?», strozzò in gola di nuovo. Sentì la sua bocca asciutta, prosciugata. Acqua. Aveva tantissimo bisogno di acqua. Provò a raggiungere l'estremità del tavolo, ma le sue braccia non si mossero. Era tutto intorpidito, formicolante. Jimmy si sforzò di guardare giù verso il suo braccio, ma anche la sua testa non riusciva a muoversi. Paralizzato? Sono paralizzato? Il panico si impadronì di lui.

    Un colpo alla porta seguito immediatamente dal campanello. «Elena», strozzò in gola di nuovo. La sua visibilità stava iniziando a schiarirsi. Sua moglie sembrava strana.

    Elena non indossava una sciarpa. La sciarpa era la sua gola insanguinata, incisa da un orecchio all'altro. Buon Dio, no, la sua bellissima moglie, morta. La donna sedeva con la faccia rivolta verso di lui; la testa piegata su un lato e ricoperta di sangue, fissando a occhi spalancati nella sua direzione. Le lacrime riempirono gli occhi di Jimmy e corsero giù sulle guance. La mia dolce, bellissima Elena. Oh no. Ti prego Signore, no!

    Qualcuno lo chiamò da lontano.

    «C'è nessuno? Jimmy? Jimmy, sei in casa?», la voce era tranquilla, distante e disconnessa. Jimmy era steso, fissando in orrore e in dolore Elena. I suoi singhiozzi erano muti, il suo immenso dolore non riusciva a trovare esternazione. Chi potrebbe mai fare una cosa del genere? E perché? Perché la mia Elena?

    La sua mente volò alla loro figlia di quattro anni Chanel e una vite di paura lo trafisse. Chanel. La nostra piccola preziosa Chanel. È viva? È al sicuro? Il conseguente panico lo inghiottì.

    La testa di Jimmy sul cuscino, si voltò sui lati. Si sforzò, ma riuscì a malapena a distinguere la porta. Jimmy sapeva che la voce era quella del suo amico Jeff. Guardò in fondo al suo piano visivo, verso la porta, impaurito di cosa il suo amico Jeff potesse trovare una volta entrato nella stanza. Eppure, era incapace di avvisarlo dell'orrore che lo attendeva.

    «Jimmy?», Jeff chiese con esitazione appena entrò dalla porta.

    Jimmy guardò Jeff fermo e rigido sui suoi passi. Jeff  guardò verso Jimmy, poi Elena, quindi di nuovo Jimmy. «Porca puttana! Cazzo! Jimmy! Jimmy! Cristo Santo, Jimmy!»

    Fissando in orrore Jimmy, la faccia di Jeff diventò ancora più livida di quella che fece nel vedere Elena. I pensieri di Jimmy impazzirono senza controllo. Che cosa vede? Cos'è? Parlami, Jeff, dannazione, parlami!

    L'espressione scioccata di Jeff cambiò quasi improvvisamente in macabro dolore, con le mani tra i capelli e gli occhi inondati di lacrime. «Buon Gesù», lamentò girandosi e inciampando su una sedia che lo fece cadere fuori dalla stanza. Jeff a stento ce la fece a entrare in bagno prima di cadere sulle sue ginocchia davanti al gabinetto e vomitare.

    I minuti passarono mentre Jimmy rimase steso lì, incapace di muoversi, insicuro su cosa esattamente Jeff avesse visto quando aveva guardato nella direzione di Jimmy. Qualcosa che Jimmy non poteva vedere. Ma qualsiasi cosa fosse, lo aveva colpito anche di più della vista della moglie di Jimmy, Elena.

    Jeff entrò nuovamente nella stanza con un'aria di trepidazione che era palpabile. «Um... Jimmy? Jimmy, puoi sentirmi?», chiese Jeff con la delicata preoccupazione di un bambino.

    «Sì», Jimmy boccheggiò.

    Jeff vide Jimmy mormorare «Sì.»

    «Porca puttana, Jimmy...Cazzo!» Il petto di Jeff stava pompando su e giù mentre cercava duramente di mantenere l'autocontrollo. «Stai calmo, amico. Stai calmo, Jimmy. Io... io chiamo la polizia, Jimmy.»

    Le lacrime scivolarono giù dal viso di Jimmy mentre era costretto a guardare l'orrore di sua moglie morta mutilata, bloccato nella cornice sfocata della sua vista paralizzata. Chiuse forte gli occhi. Prova a concentrarti sulla notte precedente. Ricorda la tua bellissima Elena nella vostra ultima notte insieme.

    Wssbh, wssbh, wssbh, sentì un fruscio.

    I minuti passarono. Per quanto sembrasse lontano, Jimmy sentì Jeff dire: «...per favore, dovete mandare qualcuno qui... per favore sbrigatevi... non c'è molto tempo...»

    Jimmy sentì una porta chiudersi. Jeff se ne stava andando? L'oscurità lo vinse e svenne.

    Il detective Stanley Devonshire sedette nella cucina della casa coloniale che lui e sua moglie Victoria avevano costruito durante i primi anni del loro matrimonio. Stan e suo figlio adolescente, Jonah, stavano finendo il pranzo in quel sabato apatico, quando arrivò la chiamata che lo informò di un omicidio multiplo in Plymouth Avenue.

    «Devonshire», rispose.

    Jonah osservò mentre il padre rispose, a dire il vero, con degli uh e huh, per diverse volte. Quindi improvvisamente gli occhi di suo padre si dilatarono. Qualsiasi cosa riguardasse la notizia, doveva essere brutta.

    Molto spesso Jonah aveva desiderato che suo padre potesse essere come tutti gli altri papà: andare in ufficio, prendere il treno per tornare a casa, mangiare la cena e andare in giro; quelle piccole cose che facevano tutti gli altri padri e figli. Ma da quando la madre di Jonah era morta, trovava più difficile vedere il padre continuare a combattere il crimine. La loro piccola cittadina era ben lontana dall'essere la capitale mondiale del crimine, eppure c'erano ancora volte in cui Jonah si preoccupava realmente per l'incolumità di suo padre. Ricordava le ultime parole di sua madre mentre era in ospedale, dopo esser stata investita da una macchina. Jonah le aveva promesso che avrebbe badato a suo padre. Qualcosa che, l'allora ragazzo di sette anni, aveva creduto più difficile di quanto potesse immaginare. Anche adesso, dieci anni dopo la morte di sua madre, Jonah aveva difficoltà nel guardare suo padre uscire dalla porta ogni giorno. Ogni volta non poteva farci niente, tranne che chiedersi se quella fosse stata l'ultima volta che avrebbe visto suo padre.

    Stan riagganciò e guardò suo figlio. «È un omicidio. Devo andare. Keen e Roberts sono già lì».

    «Va bene», disse Jonah mantenendo il suo riserbo, «ma, papà?»

    «Sì?», rispose Stan, afferrando il suo cellulare dal tavolo e preparandosi a uscire.

    «Sii prudente.»

    Stan abbassò il mento e lanciò uno sguardo a suo figlio come per dire «Sì, va bene.»

    «Sono serio, papà».

    «La vittima è già morta. Cosa mi potrebbe mai accadere?»

    «Papà?»

    «Va bene, va bene. Lo sarò». Jonah fissò di nuovo suo padre con gli occhi grigio scuro della madre. Occhi così simili a quelli di sua madre che Stan poteva quasi percepire lo sguardo di Victoria. «Te lo prometto, ragazzo. Sarò prudente.»

    Stan lo raggiunse e sorridendogli affettuosamente, scompigliò i capelli castani di suo figlio. Poi uscì dalla porta.

    L'agente Keen intercettò il detective Devonshire il secondo dopo che uscì dalla macchina. «Cosa abbiamo qui?», Stan chiese a Keen, camminando velocemente al suo fianco verso la casa.

    «Una donna morta. Trentatré anni. Gola tagliata.»

    «Davvero? Chi l'ha trovata?»

    «Un amico del marito. Jeff Auberdine.»

    «Come è combinata?»

    «Male», disse Keen, «veramente male.»

    Stan annuì, non comprendendo ancora la gravità della situazione. «Gola tagliata. Sì, direi che è davvero brutto.»

    «Oh, molto peggio di quello», disse Keen mantenendo gli occhi sul detective.

    Stan si fermò a metà strada sul viale e studiò Keen. «Peggio di una donna con la gola tagliata?»

    «Molto Peggio», replicò Keen. Adesso aveva tutta l'attenzione di Stan.

    Stan contemplò il tempo uggioso mentre cadeva una leggera pioggerella e un'aria fredda ghiacciava i dintorni. Un'ambulanza era parcheggiata nel viale, con la radio che schiamazzava. Un paramedico uscì dalla casa per prendere una busta.

    «Ehi», chiamò Stan, «qual è la situazione? Perché voi siete qui? Pensavo fosse una donna morta». Il paramedico gli lanciò una specie di sguardo d'intesa, sospirò e scosse la testa. Prese la busta e si diresse di nuovo dentro con Stan al seguito.

    Il pavimento aveva della plastica adagiata a terra tra l'ingresso e la camera da letto, che l'Unità Scientifica Investigativa aveva messo per conservare le prove. I piedi di Stan produssero un suono d'increspamento quando entrò calpestando la plastica, seguendo il tecnico per le emergenze mediche.

    Avvicinatosi al bagno, Stan notò il paramedico visto in precedenza con un altro medico, in piedi nella stanza. A primo acchito, vide la donna sulla sedia, coperta da un lenzuolo. C'era qualcosa sul letto, ma con i due paramedici che bloccavano parzialmente la visuale, non poté distinguere cosa fosse.

    Dando un'occhiata sul muro, Stan vide una fotografia di Jimmy Martinez, sua moglie Elena e la loro piccola bimba, sorridenti, che ricambiavano il suo sguardo. Questa è casa di Jimmy, pensò sgomento. Sebbene non conoscesse bene Jimmy Martinez, lui e Jonah frequentavano il ristorantino della coppia su Paradise Road.

    Stan aggirò i due tecnici per scoprire qualcosa che non avrebbe mai immaginato: una testa, appoggiata sul cuscino del letto, con filamenti che uscivano fuori da quello che era rimasto del collo, attaccato a una macchina dall'altra parte del letto. Era Jimmy, d'accordo...quello che ne rimaneva in ogni caso. «Cosa diavolo?», sospirò in shock.

    Keen gli lanciò uno sguardo. «È ancora vivo», disse Keen a bassa voce nell'orecchio di Stan.

    La mano di Stan corse sulla sua faccia, con le dita aperte e serrando la bocca per l'incredulità. «Cosa? Non ci credo. Non è possibile.»

    Uno dei medici intervenne, sembrando non credere alle sue parole. «È tenuto in vita da questo bypass per il cuore con una pompa di ossigeno. Mai vista una cosa del genere in vita mia. Mai neanche...immaginato». Il paramedico interruppe, scuotendo la sua testa da un lato all'altro, ancora in shock. «Dobbiamo portarlo all'ospedale di Salem. Partiremo tra un momento. Dobbiamo solo allacciare bene il macchinario per il trasporto e accertarci che ciò che rimane di questo tizio sia abbastanza stabile per il trasporto.»

    In tutti quegli anni da sbirro, tutti gli addestramenti completati, i film visti e le lezioni sui traumi. Niente avrebbe potuto preparare Stan a quello che stava guardando in quel momento. Avanzò silenziosamente, piegandosi in avanti e guardando più da vicino, studiando la testa. Al momento incosciente, la testa di Jimmy era rivolta verso la donna ricoperta dal lenzuolo bianco. Stan si girò e camminò verso la donna, alzando il lenzuolo con cura e scuotendo tristemente la testa.

    «Cosa c'è?», chiese Keen.

    «La conosco. È sua moglie Elena.»

    «Anche io e Sarah siamo clienti fissi al ristorante di Jimmy sulla Paradise.»

    «Io, te e circa la metà dei pescatori di Manatahqua Point». Stan pronunciò con tono sommesso.

    Keen lasciò la stanza. «Oh, cavolo...Jimmy». Stan non era sicuro quale fosse stata la prima emozione in quel momento: abietto orrore o compassione. Semplicemente, rimase immobile a fissare la testa mozzata di Jimmy, priva di sensi, sul cuscino con sangue fresco che pompava attraverso il macchinario per tenerlo in vita. «Buon Dio, Jimmy, cosa diavolo ti ha fatto questo tizio?», chiese ad alta voce con un sospiro inorridito.

    Stan guardò verso i medici. «Tu, come ti chiami?», chiese al corpulento quarantenne con i capelli scuri. L'uomo voltò la testa, restituendogli lo sguardo.

    «Paul. Paul Soiref.»

    «La testa è...c'è una possibilità che lui sopravviva?»

    Paul scosse la testa. «Lo dubito. Ma sinceramente non lo so con certezza. Non vedo come, ma d'altro canto non ho mai minimamente visto qualcosa del genere prima. Chiunque abbia architettato tutto questo, sapeva esattamente cosa stava facendo. Praticamente ha installato una macchina per il bypass del cuore e l'ha connessa ad una ECMO.»

    «Ma che cavolo hai detto? Parla comprensibilmente», Stan sfogò la sua frustrazione.

    «Macchina per l'ossigenazione extracorporea a membrana. Ho visto questo tipo di strumentazione due volte prima ad ora. Viene utilizzata sui pazienti in terapia intensiva. Sostituisce polmoni e cuore in casi estremi».  Guardò la testa mozzata di Jimmy e alzò il sopracciglio. «Non c'è niente di più estremo che perdere il proprio corpo, vero?», l'uomo borbottò con parole che indicarono la sua persistente incredulità.

    «Dov'è il resto del corpo?», domandò Devonshire.

    Paul alzò le spalle. «Stai guardando esattamente quello che abbiamo visto noi quando siamo arrivati. Nessun indizio.»

    Stan guardò intorno la stanza da dove si trovava per comprendere la scena. «Potete trasportare... ciò che resta di lui, in maniera sicura?»

    «Penso di sì. Il respiratore ha una propria batteria incorporata che durerà almeno per altri quarantacinque minuti. Con questa dovremmo essere in grado di staccare la spina e trasportare quel che rimane di questo tizio. Stiamo solo aspettando che l'eliambulanza arrivi qui. Atterreranno nel giardino qui fuori e lo trasporteremo fino a Salem. È il modo più sicuro.»

    Stan annuì e lasciò la stanza. Era l'ora di esaminare il resto della casa. Trovò Keen e l'agente Roberts seduti al tavolo della cucina a parlare con Jeff e annotare le sue dichiarazioni. Jeff sosteneva la sua testa con entrambe le mani, chiaramente in shock.

    L'agente Keen informò Stan che si trattava di Jeff Auberdine, colui che si trovava lì al loro arrivo. Stan si sedette mostrando il suo distintivo. «Sono il detective Devonshire. Mi dispiace, capisco che è dura. Per quanto lei sappia, la scena è stata inquinata da qualcuno o è tutto esattamente come quando è arrivato qui?»

    «Non ho toccato niente, anche se un sacco di poliziotti sono andati avanti e indietro», Jeff replicò passivamente. Jeff abbassò le mani dalla faccia e fissò Stan dritto negli occhi. «Perché qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere? Perché? E dov'è Chanel?», aggiunse.

    Stan si rivolse verso Keen e chiese: «Jimmy e Elena hanno una bambina di quattro anni. Era qui quando sei arrivato?»

    Keen scosse la testa. «Ho mandato Roberts e Palmer a chiedere a tutto il vicinato per cercare di trovarla.»

    La faccia di Stan impallidì. La madre con la gola tagliata. Il padre decapitato. E dov'è la bambina? Buon Gesù, dov'è la piccola?

    Due

    Sono una specie di mostro, l'ho sempre saputo. Tuttavia, sono un mostro con uno scopo di base.

    Ogni persona, intelligente o stupida, ha bisogno di uno scopo nella vita. Altrimenti, come arriviamo alla comprensione della nostra stessa esistenza? Alcune scelgono di essere casalinghe, altre scelgono di essere medici, altre scelgono di insegnare. Ogni percorso ha uno scopo. Ci sono troppe opzioni per definire l'esistenza. Non posso, e non potrò, semplicemente esistere. Non posso cambiare il fatto che sono un mostro, mio legittimo retaggio. Ma posso controllare come e quando quel mostro viene liberato. Faccio una stima. Pianifico. Non commetto errori. La maggior parte delle volte.

    La mia mentore mi ha insegnato bene; mi ha insegnato tutto quello che fa di me oggi quello che sono. Ma mi sono evoluto al di là della mia mentore. A differenza di quelli prima di me, ho sviluppato un rigoroso codice etico; anche un mostro necessita dell'adozione di un codice etico. Qualcosa che la mia mentore e il mentore prima di lei non hanno capito. Quelli precedenti sono esistiti semplicemente per cacciare, ma c'è uno scopo più alto nella mia vocazione. Illuminazione? Intervento divino forse?

    Chiamalo come vuoi.

    Quanti sono così fortunati da aver avuto personalmente una mano a pervadere il mondo di atrocità contro i bambini? Bambini come i miei, come i tuoi. Quindi mi sento di dire che la definizione di mostro in qualche modo è imprecisa. In verità, io sono un predatore, un predatore con uno scopo e con metodi di caccia finemente messi a punto. Uno altamente qualificato nell'arte di stanare le sue prede.

    Non uccido mai gli indegni. Piuttosto, cerco ed elimino quelli che usurpano l'innocenza dei puri e inoffensivi. Sì, sarebbe più preciso: sono uno specialista in giustizia perpetua.

    Io sono il cacciatore.

    Per portare la mia giustizia, devo adattarmi, devo essere pienamente integrato, una pedina altamente produttiva del tessuto sociale. Per questo lavoro diligentemente, affinché si realizzi, ma a dire il vero, non è cosa facile...e mai lo è. Se non fosse stato per le precise e dettagliate istruzioni della mia mentore, sarei stato beccato e rinchiuso molto tempo fa. Sarebbe stato un vero peccato, perché se fossi stato rinchiuso, non ci sarebbe stato nessuno a fermare tutte le perfidie perpetrate a scapito degli innocenti, nessuna giustizia pura e assoluta.

    Un mostro? No. Un eroe ignorato... non semplicemente da uno, due o qualche centinaia... ma da generazioni intere. Generazioni che, senza di me, avrebbero tramandato di padre in figlio e di madre in figlia, la nauseante dissacrazione della purezza.

    Io sono il cacciatore. Rettifico gli errori.

    ––––––––

    Tre

    Erano quasi le cinque quando Stan finalmente lasciò casa Martinez. Era buio pesto fuori, il sole di fine autunno era tramontato prima, dando la sensazione che fosse più tardi di quanto in realtà non fosse.

    Stan ritornò al distretto di polizia e iniziò a scrivere le sue note. Con la concentrazione vacillante, continuò a concedersi delle pause, pensando alla raccapricciante scena nella residenza Martinez. Stan richiamò alla mente il suo vecchio amico Bob Palmer, sei anni fa, il padre dell'agente Palmer, durante l'indagine per un omicidio in Porter Street.

    «La gente pensa che solo perché sei un agente di polizia, tu sia immune al dolore, all'angoscia e alla morte, ma non è così. Ogni volta succede qualcosa del genere, mi fa venire voglia di chiamarmi fuori da questo lavoro», gli disse Bob.

    «Quindi perché farlo?», chiese Stan.

    Bob replicò senza esitazione: «Io la vedo in questo modo. Se non lo faccio io, chi lo farà? E per lo meno dando la caccia e prendendo questi figli di puttana io stesso, so che il lavoro è svolto bene.»

    A Stan mancava il suo vecchio amico. Bob morì per un attacco di cuore due anni prima lasciando un posto libero a Stan per una promozione.

    La mente di Stan ritornò a quel momento. Fissò la sua bozza di relazione sullo schermo dove il cursore lampeggiava ripetutamente affianco al nome di Elena Martinez. Tirando fuori la Nikon dalla scrivania vicino a sé, rimosse la scheda compact flash e la inserì nel computer. Stan importò le foto e le stampò, rilasciando nell'aria l'odore d'inchiostro fresco. Foto alla mano, camminò svelto nella sala conferenze e le sistemò per studiarle.

    Sedette al tavolo del piccolo distretto, leggendo attentamente le foto della scena del crimine e quei pochi indizi raccolti. Esaminò foto dopo foto, cercando d'isolare qualche indizio che poteva saltare all'occhio. Stan guardò nuovamente la foto di Elena, seduta elegantemente alla sedia della cucina nel suo vestito grigio carbone, con la gola incisa e gli occhi spalancati. Quanto contrasto in una sola foto: la bellezza di Elena Martinez, semplice, elegante e piena di grazia, contrapposta alla brutalità micidiale del suo assassino. Un omicidio così efferato che sembrava quasi che qualcuno avesse scattato una foto grottesca e l'avesse sovrapposta ad una bella.

    La donna seduta alla sedia. Mani legate con nastro adesivo dietro la sedia, fissando in orrore suo marito. Letto con quasi inesistenti tracce di sangue. Testa mozzata, tenuta in vita sul letto e posizionata in maniera che potesse guardarla. Perché tutto ciò suona familiare?

    La parte della testa tenuta in vita non era familiare, ma moltissimi dei restanti dettagli lo erano. Spontaneamente, giunse un pensiero intrinseco. Gli omicidi di Porter Street. «È tutto come negli omicidi di Porter Street», Stan affermò con decisione ad alta voce.

    Camminò verso l'armadietto degli archivi e tirò fuori una serie di omicidi di sei anni fa. «Shepherd – 22 Porter Street», lesse dal fascicolo. Stan sfilò il fascicolo e lo portò nella sala conferenze dove era già stato disposto tutto quello che riguardava gli omicidi di Plymouth Avenue.

    Un leggero colpetto sull'infisso della porta interruppe i suoi pensieri. Alzò lo sguardo e vide il suo vecchio amico da Marblehead, il detective Mark Brown. Alto, dalla carnagione scura, Mark appariva come un uomo che nel suo tempo libero sfruttava il suo fisico da carro armato e di fatti lo aveva fatto: a un certo punto della sua vita era stato un difensore nella retroguardia per la Boston University e in seguito per due anni nei Pro con i Patriots. Qualsiasi criminale con un briciolo di cervello ci avrebbe pensato due volte prima di mettersi contro Mark Brown. Stan e Mark andarono alle superiori insieme qui a Manatahqua Point e poi furono compagni di stanza laureandi alla Boston University. In fine, Mark venne convinto ad arruolarsi nell'accademia di polizia gestita dalla Polizia di Stato, aggiudicandosi un lavoro a Marblehead.

    «Ehi, amico». Stan mostrò un sorriso fugace in direzione di Mark e poi ripose lo sguardo sulla pila di fogli sul tavolo.

    «Hai un bel casino lì», disse Brown con la sua voce profonda e risonante.

    Ma Stan era preoccupato. «Sì, un bel casino», rispose distrattamente.

    «Ho sentito del povero Jimmy Martinez. Ancora non ci credo.»

    «Lo so. Io e Jonah

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