Il bambino delle fate
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Il bambino delle fate - Annalinda Buffetti
Livorno.
1
Settembre, 1948
Eugenia stava sognando.
Piedi infantili calpestavano la sabbia. Odore di salsedine, rumore di onde. Tra le erbe rade, spiccavano le piante esili del finocchio selvatico. Eugenia ne strappò uno stelo e lo masticò lentamente, pregustando il sapore intenso di anice che si sarebbe sprigionato al contatto con l’acqua. Aveva la bocca asciutta, bruciata dalla sete. Davanti a lei, il mare si muoveva piano, in un respiro lento; sulla riva c’erano i suoi figli.
Andiamo bambini! Alla fonte. Andiamo a bere.
Alla fonte, in fondo alla discesa di Nugola, Eugenia si sarebbe dissetata, avrebbe spento quel fuoco insopportabile. Federica le corse incontro e le strinse la mano, ma Augustino rimase immobile davanti al mare, sordo a ogni richiamo, ad ascoltare il rumore delle onde che si ripeteva all’infinito, sempre uguale.
Un fischio improvviso lacerò il sogno.
I suoni e i rumori ovattati, eco di ciò che succedeva intorno, divennero più reali e cercarono di prendere il sopravvento. Eugenia si aggrappò al sogno per chiamare suo figlio, per convincerlo a seguirla, ma era come voler trattenere l’acqua con le dita.
I dettagli svanirono. Brandelli di immagini si sovrapposero, si sfilacciarono, si ricomposero in un istante. La sirena della metallurgica. Rodolfo davanti al cancello della fabbrica. La sirena dell’allarme antiaereo. Il buio del rifugio.
Eugenia aprì gli occhi.
Le ci volle un momento per mettere a fuoco la scena, nella penombra dello scompartimento. La tendina del finestrino era stata abbassata per filtrare la luce pomeridiana e il paesaggio che scorreva ai lati del treno appariva tagliato a metà, rivelando, al di là delle sterpaglie cresciute accanto alla ferrovia, la parte inferiore di vecchie case e una campagna coltivata a tratti.
Era il paesaggio di casa, sognato e rievocato tante volte in quattro anni di lontananza.
Torno a casa! si disse Eugenia sollevando la tendina, e le case tagliate a metà le apparvero nella loro completezza. Ebbe la visione di tetti sfondati e di mura crollate, che rivelavano l’abbandono. La guerra, ricordò.
Si era aspettata di ritrovare il paesaggio com’era prima dei bombardamenti, ma tante cose dovevano essere cambiate, durante la sua lontananza.
Quel ritorno era stato reso possibile da un invito inaspettato. Venite a trovarci, le aveva scritto la cugina Armida. Non abbiamo spazio per ospitare tutti, però almeno tu e Rodolfo potreste venire da noi per un po’.
Ora erano quasi arrivati a Livorno e pareva un sogno.
Due donne sedute davanti a lei parlavano fitto ed Eugenia si sorprese ad ascoltarle, mentre un gradevole calore le si diffondeva nel petto: quella era l’inconfondibile parlata livornese, la parlata di casa.
Solo Augusta aveva mantenuto invariato l’accento e il modo di parlare; gli altri, per farsi capire, li avevano adattati, addomesticati, come diceva Amilcare.
Il pensiero andò alla suocera. Ce la farà a stare dietro a tutto, da sola? si chiese Eugenia preoccupata. La casa… la Penerona… i bambini…
Si sentì stringere il cuore e cercò di pensare ad altro, mentre guardava il paesaggio che scorreva ipnotico davanti al finestrino. La sete che aveva guidato il suo sogno si fece sentire ancora, reale e intensa.
È rimasta un po’ d’acqua?
Rodolfo, con lo sguardo intontito, si girò verso di lei.
Ora guardo,
disse. ’Un avresti dovuto mangia’ quel panino col salame e basta, a Genova… ’Un hai mangiato altro in tutta la giornata e si vede che t’ha messo sete.
Aprì una sporta che li aveva accompagnati in un altro viaggio, quattro anni prima, e ne tolse una bottiglia di vetro e un bicchiere di metallo ammaccato.
È rimasto solo un fondo di bottiglia, mi dispiace.
L’acqua era tiepida e non bastò a spegnere la sete.
Una delle due donne si chinò verso di lei, sorridendo.
Ha sete, signora? Noi s’è portato tanta acqua e ’un s’è bevuto.
Tolse da un borsone di tela un bottiglione pieno d’acqua ed Eugenia, sempre restia ad accettare qualsiasi cosa dagli altri, esitò solo un momento e poi porse il bicchiere. Mentre beveva, attingendo più volte alla fonte insperata, ascoltava le parole delle due donne, lasciandosi sommergere piacevolmente dalla dolce parlata toscana.
Vorrei tornare a Livorno, anche per un giorno, solo per senti’ parlare la gente. Qui ’un si capisce nulla di quello che dicono!
aveva detto burbera Augusta quando le avevano parlato del viaggio, ma poi aveva aggiunto: Non vi preoccupate per i figlioli, ci si pensa noi. Andate a Livorno e divertitevi
.
L’immagine della suocera le portò alla mente altri ricordi: la guerra, il viaggio verso la Lombardia, le stanze sopra l’osteria… Poi, finalmente, una casa vera.
Aimone, il cugino di Amilcare, era scomparso da poco senza lasciare traccia, il portinaio era morto subito dopo in un incidente con la moto e Petronilla, da loro ribattezzata la Penerona, era rimasta sola nella grande villa.
La casetta è vuota. Venite ad abitare vicino a me, almeno avrò un po’ di compagnia!
aveva detto.
Avevano traslocato subito, trasportando le loro poche proprietà sul carretto del Piero, come avevano già fatto alcuni mesi prima. Il trasloco era stato come una festa e gli amici del paese li avevano accompagnati lungo la strada.
Ma la festa era durata poco. La presenza ingombrante della Penerona si era fatta sentire immediatamente.
Se la ritrovavano in casa a ogni ora del giorno, a fare da padrona. Aveva da ridire su tutto: le davano fastidio i bambini che giocavano nel cortile d’entrata, i panni stesi ad asciugare, la voce di Augusta, sempre troppo alta…
Per un po’ avevano sopportato in silenzio, poi Augusta era scoppiata e l’aveva trattata male. Lei l’aveva guardata come se fosse un insetto disgustoso, aveva raccolto lo scialle a frange abbandonato su una sedia e aveva fatto un’uscita teatrale. Pescivendola!
le aveva detto sprezzante, prima di allontanarsi.
Se Dio vòle… ’un si farà più rivede’!
aveva detto Augusta.
Speriamo che ’un ci mandi via… ora che mi sono trovato un bel posticino per lavorare.
Ma la preoccupazione di Amilcare e il sollievo di Augusta si erano dimostrati infondati: il giorno dopo, la Penerona era ancora lì, come se non fosse successo niente, a chiedere uno zabaione con tanto marsala e tanto zucchero.
Le cose erano andate avanti così per un bel po’ e poi a un tratto la donna non si era fatta più vedere.
Pinetta, la nipote della sciura Settimia, che andava alla villa a cucinare e a fare le pulizie, era andata da Augusta, preoccupata. La sciuraPetronilla è diventata strana,
aveva detto.
Tanto normale ’un è mai stata…
No, però adesso è più strana di prima.
Il dottor Scannagatti, amico di famiglia, l’aveva visitata, le aveva fatto molte domande e poi aveva chiesto a Pinetta se era disposta a trasferirsi alla villa per curarla. La ragazza non aspettava altro: una bella camera tutta per sé e uno stipendio più alto per un lavoro che, più o meno, aveva sempre fatto.
Le cose, però, erano andate via via peggiorando. In quei giorni la Penerona era convalescente da una brutta bronchite e stava quasi sempre a letto.
Meglio così, pensò Eugenia, almeno non fa danni!
Si sistemò meglio sul sedile, per alleviare il mal di schiena.
Mi sembra di viaggiare da una vita!
disse a voce alta, passandosi un fazzoletto sul viso. Si sentiva sporca e sudata.
È tutto il giorno che siamo in viaggio,
spiegò Rodolfo alle due donne. Siamo partiti stamani dal paese dove abitiamo ora. Lì non c’è la stazione e così una nostra amica ci ha accompagnati a prendere il treno in un paese vicino.
Gli venne in mente la signora Gatti che guidava maldestramente la grossa macchina del marito per le strade sterrate. Abbiamo cambiato treno un paio di volte. Il viaggio non finiva mai: ci siamo fermati a tutte le stazioni… proprio a tutte.
Rodolfo di solito era taciturno, forse si era un po’ sciolto sentendo finalmente aria di casa.
Se ripenso al viaggio che s’è fatto quattr’anni fa, da sfollati, su un camion pieno di casse e di scatoloni, questo sembra uno scherzo,
disse Eugenia. Siamo stati in giro tre giorni per l’Italia, prima d’arrivare in Lombardia… È stato un viaggio tremendo!
Mai come il nostro, signora, quando si voleva anda’ via dal paese dove s’era sfollati all’inizio della guerra e che ’un ci pareva più sicuro,
disse la donna più anziana. Si viaggiava come i gamberi: un po’ avanti e un po’ indietro. Il treno partiva dalla stazione, dove c’era pieno di soldati tedeschi, e noi ’un si vedeva l’ora di levassi di lì… poi sonava l’allarme… allora il treno tornava indietro, si scendeva tutti e si correva dentro la stazione. Se ripenso a quando si credeva che la guerra non avrebbe toccato la nostra città…
Lasciò la frase a metà, ma tutti capirono cosa intendeva dire. Avevano creduto fino all’ultimo che la guerra riguardasse altre persone e altri luoghi, poi era arrivata la prima bomba e altre migliaia l’avevano seguita.
Quando la guerra è finita e siamo tornate a casa… ’un l’abbiamo più trovata. Siamo andate a vivere con altra gente, in una casa all’Ardenza. Per ora va bene così, poi si vedrà,
concluse la donna.
La ragazza seduta accanto a lei tolse da una borsa un panino avvolto in un tovagliolo, fece l’atto di offrirlo e poi cominciò a mangiare di gusto.
Arista, pensò Eugenia, aspirando il profumo appetitoso e si accorse di avere fame.
E voi dove abitavate prima della guerra?
le chiese la donna anziana.
A Livorno anche noi!
rispose lei, come se fosse una cosa ovvia.
Livornesi?
La donna appariva dubbiosa. ’Un mi pareva dall’accento della signora.
Rodolfo era costernato.
’Un mi dica che s’è già perso l’accento! ’Un è possibile che dopo quattr’anni soli ’un si capisca più che si viene da Livorno!
Siamo stati parecchio con della gente che parla una lingua strana e forse abbiamo perso l’abitudine a parlare livornese,
mormorò Eugenia, preoccupata.
Dove siete andati a stare, dopo sfollati?
In Brianza, vicino a un lago. È in Lombardia,
precisò Rodolfo, vedendo lo sguardo interrogativo della donna.
E ora state tornando a Livorno per restarci?
Eugenia avrebbe voluto rispondere di sì.
No,
intervenne Rodolfo. Si va a vede’ come vanno ora le cose. Si va per un po’ da una cugina della mi’ moglie. Per ora siamo messi bene dove si sta.
Dove abita, questa vostra cugina?
Sta in via del Leone.
È stata fortunata. In quella zona le case sono ancora in piedi… quasi tutte.
La ragazza aveva finito il panino, si pulì la bocca col tovagliolo e osservò: Se mancate dal tempo di guerra, troverete dei cambiamenti
.
Rodolfo si girò verso di lei. Hanno ricostruito?
Hanno fatto qualcosa ma per ricostruire ci vorranno anni.
Il treno fischiò e Rodolfo si alzò per guardare dal finestrino.
Siamo arrivati a Livorno!
annunciò. Stiamo per entrare nella stazione. Comincia a prepara’ la roba, Eugenia. E speriamo che Vinicio sia venuto a prenderci… sennò s’arriva domani, se si deve anda’ a piedi!
Il treno rallentò, sussultò passando su uno scambio e lentamente, con uno stridio prolungato dei freni, si fermò.
2
Augusta rammendava un calzino, seduta nella rientranza della finestra del soggiorno. Le piaceva quell’angolo della casa, dominante sul resto dell’ambiente e nello stesso tempo appartato, discreto.
Una bella tenda di cretonne a fiori divideva in due la stanza, isolando uno spazio destinato ai letti dei bambini. Ora la tenda era aperta e rivelava un cesto di giocattoli rovesciato e Federica e Augustino che trafficavano, frugando nel mucchio.
O come devo fa’? C’è più buo che calza!
brontolò Augusta, esaminando un altro calzino con occhio critico.
La bambina le si avvicinò e pescò nel cestino da lavoro una calza rossa. Ci infilò una mano e il calzino si trasformò subito in un pupazzo.
Nonna, quando tornano babbo e mamma?
Nini, babbo e mamma sono partiti stamani. Staranno via un paio di settimane. ’Un ci stai bene con nonna e nonno?
Sì… però mi piace di più quando stiamo tutti insieme.
Augusta la guardò intenerita. A sei anni la bambina era alta e magrolina. Aveva lineamenti minuti e un’aria angelica che la facevano apparire dolce e remissiva, ma in realtà aveva un carattere di ferro.
Perché ’un vai un po’ in bicicletta, intorno alla fontana, mentre il tu’ fratello gioca in casa? Da quando la adopera lui, te ’un ci sei più potuta salire!
Non importa, e poi ora non mi va.
Federica si sedette imbronciata su un panchetto vicino ad Augusta. Voleva chiederle una cosa, ma non sapeva come cominciare il discorso. Alla fine si decise.
Nonna… come nascono i bambini?
L’ago sfuggì al controllo della rammendatrice e punse dolorosamente il dito sotto il buco del calzino. La rammendatrice perse anche il controllo delle parole e snocciolò una serie di imprecazioni. Federica la guardava in silenzio, aspettando la risposta.
O proprio a me la doveva fa’ questa domanda? pensò Augusta imbarazzata, mentre prendeva tempo per asciugare la gocciolina di sangue che stillava dal dito.
Allora, nonna?
Ah sì… volevi sapere…
Come nascono i bambini!
Dè… nascono sotto un cavolo, no?
disse alla fine, sostenendo imperturbabile lo sguardo della bambina.
Un cavolo?!
Un cavolo,
confermò solennemente. I babbi e le mamme trovano i loro figlioli sotto i cavoli.
Ma nonna, i cavoli sono le verze che la moglie del Vassena ha adoperato per fare quella schifosissima roba puzzolente?
La cazzuola, sì… invece era proprio bòna. Io lo posso dire perché me la sono mangiata quasi tutta!
Il nonno ha detto che faceva schifo.
Lui è sofistico, ’un s’adatta ai sapori nòvi. Vòle sempre mangia’ le stesse cose.
La cazzuola: un piatto rustico, robusto, che non incontrava il favore di palati delicati come quello del Conte, ma che a lei era piaciuto tanto. Augusta risentì il gusto della carne di maiale, delle cotenne cotte lungamente insieme ai cavoli dell’orto e si accorse di avere fame.
Federica intanto rifletteva: sotto i cavoli dell’orto del Vassena non aveva mai visto bambini appena nati.
Sei proprio sicura, nonna, di questa storia dei cavoli e dei bambini?
Sicurissima!
Ma sotto i cavoli dell’orto del Vassena ci sono solo le schifosissime lumache rosse!
Augusta rimase un momento in silenzio, elaborando la risposta.
"Quello che volevo dire è… che i bimbi nascono sotto i cavoli… ma i cavoli devono essere