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Lea. Una vita spesa bene?
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Ebook174 pages2 hours

Lea. Una vita spesa bene?

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About this ebook

Gli avvenimenti più importanti di una donna. E' il momento quindi di presentare e far rivivere agli altri una parte del suo vissuto, vale a dire quello che è stato.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 20, 2016
ISBN9788892613720
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    Lea. Una vita spesa bene? - Cermine di Rubba

    ricordo"

    La protagonista dell’opera ha messo nero su bianco quanto al presente ha ricordato. Senza troppo riflettere. Di getto. Senza pensare. Ne e emersa una odissea esposta alla spartana. La dove i ricordi affiorano come it vento: the non si sa da dove viene ne dove va.

    Con l’intento appunto di

    FERMARE PAGINE DI VITA

    CHE COME FOGLI DI CARTA

    VOLANO VIA.

    Post scriptum:

    Per volere della Signora Lea, non ha voluto the i protagonisti principali dell’opera fossero citati.

    Quella mattina quando la ragazza aprì gli occhi, vide attraverso la finestra un cielo nuvoloso e penso the anche quel giorno sarebbe comparsa la pioggia. Stranamente non aveva ancora nessuna voglia di alzarsi. Si appoggio comodamente sul cuscino. Prese un album di fotografie, vale a dire it medesimo the la sera prima aveva lasciato aperto sul comodino. L’album conteneva tutte foto in bianco e nero: foto di altri tempi.

    Nella prima pagina c’era la fotografia di una giovane donna dai biondi capelli. Le arrivavano alle spalle. Sorrideva all’obiettivo mentre sorreggeva una bimba piccola the non si reggeva ancora in piedi.

    Quests ero io con la mia mamma disse a voce alta Lea, poi chiuse gli occhi e per qualche minuto si fermo a pensare.

    La seconda foto era di una bambina. Dimostrava tre o quattro anni. Un faccino imbronciato con le mani infilate nelle tasche di un cappottino di colore nero. Gambe grassottelle, senza calze e ai piedi scarpine di vernice con it cinturino nero sopra al collo del piede.

    Un altro ricordo di un giorno particolare: Quella mattina io avevo accompagnato i nonni ad ascoltare la consueta Messa della domenica. Al ritorno percorrendo a piedi un viottolo, in mezzo ai campi, it nonno si fermo dinanzi ad una pianta di nespole, ne raccolse una diecina e mi disse di metterle in tasca. Nel farlo uscirono dalle tasche tanti piccoli biglietti colorati. I nonni si guardarono sorpresi,

    Sono Lire dissero, chissa chi le ha messe nelle sue tasche.

    Ad ogni modo it nonno fece in fretta a infilarle nel taschino della sua giacca. Io non sapevo cosa fossero le Lire, ma mi sentii come se qualcuno mi avesse derubata. Non dissi niente. Chissa perche, ma da quella volta non volli pii sentir parlare di nespole.

    Nitido riaffiora un altro ricordo. Credevo di averlo dimenticato, invece:

    Vivevo in una piccola casa in mezzo alla campagna ed it tempo scorreva molto lentamente. Una sera, verso l’imbrunire, la nonna mi prese per mano e mi accompagno nella camera della mamma. Stanza the era fiocamente illuminata da una lampada a petrolio - ai quei tempi non c’era ancora la corrente elettrica - almeno nel paese in cui vivevo.

    1

    La mamma era a letto appoggiata con la schiena su due cuscini e tra le braccia reggeva una vistosa bambola con una cuffietta rosa in testa. La nonna, tenendomi per mano disse: Vedi, finalmente hai una sorellina, non sarai pii sola. Avrai qualcuno con la quale giocare. Sei contenta?

    Io continuavo a guardare, non capivo, perche quella bambola potesse restare nel lettone con mia madre, mentre io dovevo andare a dormire, assieme ai nonni, nella piccola stanza nel sottotetto dove faceva molto freddo? La nonna mi ripete la domanda. Io continuavo a guardare ma, non ero per niente contenta. Avevo it mio cane Fido col quale giocare, i conigli, la pecora, the si chiamava Celina e la capra Veronica. A cosa mi serviva una sorella? Dissi di Si, ma non ero per niente contenta.

    Giunse it momento di andare all’asilo. La mamma mi preparo un grembiulino, un piccolo colletto bianco, un cestino per la merenda - dove di solito c’era solo una di quelle piccole mele del nostro campo -; qualche volta un panino piccino o un biscotto … fatto in casa.

    In asilo c’erano tanti bambini. Qualcuno era ricco ma, not tutti, cioe la maggioranza, eravamo poveri. Tanti lo erano ancora di pii. Io ero molto timida, non riuscivo ad integrarmi con gli altri. Facevo diligentemente quanto mi si comandava di fare. L’asilo era diretto dalle suore Benedettine.

    Un triste giorno successe una cosa strana. Chiesi alla Suora di andare al bagno. Purtroppo, calpestai qualcosa the avrebbe dovuto finire nel water e cosi scivolai per terra. La suora mi recupero, prima mi ripuli, ero tutta impiastricciata, e poi, dopo un paio di solenni sculacciate mi mise in castigo dietro una siepe di bambi.

    Quando la mamma venne a prendermi, avevo consumato tutte le mie lacrime. Poco tempo dopo mi vennero i pidocchi, la mamma penso the sarebbe stato meglio tenermi a casa. E cosi it calvario fini.

    Non sapevo cosa fossero i giocattoli, i bambini del vicinato venivano a casa nostra e mentre la nonna faceva la calza e ci sorvegliava, not con la creta facevamo tutte le costruzioni possibili: dalle persone, agli animali e alle case. E, tante altre cosucce. Io, I’unica cosa the possedevo era una bambola, si chiamava Bella e me I’aveva regalata uno dei miei zii. II corpo della bambola era fatto di cartapesta, i capelli biondi ricci, gli occhi azzurri ed un abitino blu con i fiorellini. Era la mia unica arnica, ad essa confidavo tutti i miei pensieri, le mie paure e le mie pene. La portavo con me anche quando accompagnavo la nonna a raccogliere i fagioli, tra le file di mais, e lei mi raccontava le storie the aveva letto nella Bibbia; aveva imparato a leggere in tarda eta: dopo essere andata in pensione. Era molto brava, comprensiva e umana.

    A letto mettevo sempre la bambola accanto a me. Me la tenevo stretta e cosi mi sentivo meno sola.

    Un giorno per distrazione la lasciai sopra ad uno scalino della ripida e stretta scala the portava al piano superiore. La mamma si fece aiutare da un suo fratello a portare gii un mobile, non ricordo pii, fosse stato un coma oppure una cassapanca, e, purtroppo non si accorsero della povera Bella deposta su di un gradino e la poverina fini in frantumi. Incominciai a piangere e continuai per giorni. Da allora non volli pii sentir parlare di bambole.

    D’estate faceva tanto caldo. Di sera, talvolta, la mamma mi prendeva in braccio e scendeva in cortile, ci sedevamo sul marciapiede ed insieme guardavamo it cielo. Ed io le dicevo:

    Mamma, come vorrei poter prendere nella mia mano anche la pii piccola di quelle stelle e tenermela stretta sul mio cuore. E la mamma: Sarebbe un guaio, se fosse possibile, tutti vorrebbero farlo e non ci sarebbero pii stelle nel cielo.

    Intanto guardavamo le lucciole the ci giravano attorno ed ascoltavo i concerti dei grilli e delle rane. Poi piano piano gli occhi mi si chiudevano e la mamma mi portava a letto, ed io nelle sue braccia mi sentivo felice.

    II tempo trascorreva lento. Intanto era giunto it momento di iniziare ad andare a scuola. La mamma mi cuci un grembiulino nero, mi fece un paio di scarpin, cioe scarpe con la suola ottenuta da un vecchio copertone di bicicletta e la tomaia di velluto nero, a cui aveva aggiunto un grazioso ricamo colorato. La zia mi regalo un colletto bianco ricamato con sopra un uccellino e tanti fiorellini oltre ad un bel vistoso nastro azzurro.

    II mattino fatale arrivo. La mamma mi preparo per tempo una ciotola di latte caldo con un po’ di polenta, mi aiuto a vestirmi, mi consegno la cartella di cartone, mi accompagno alla porta e mi disse di comportami bene.

    Mi avviai per la strada bianca costeggiata da immensi alberi per raggiungere la scuola. Dovevo percorrere circa due km, ma dopo 500 metri, ad una curva c’era un piccolo borgo abitato da gente ancora pii povera di noi. Parecchi bambini e bambine della mia eta mi aspettavano, si univano a me, ed insieme ci si avviava ad affrontare l’imprevisto.

    La scuola era in centro del paese, una costruzione scura, aule austere, vecchi banchi di legno con calamaio, ma noi all’inizio ricevemmo dall’insegnante solo una matita per iniziare a tracciare le aste sul primo foglio del quaderno. La maestra era una vecchia signorina. Molto elegante e gentile, severa, molto brava, ma paziente. Si chiamava Delia e la ricordo ancora come fosse ieri.

    Una sola volta mi capita una disgrazia: arrivai per prima e aperta la porta dell’aula scorsi per terra un quadro, the probabilmente era caduto a causa di una folata di vento. Lo feci osservare alla maestra, the in quel momento stava arrivando. Lei penso the io fossi stata I’artefice di quel disastro e mi mise per tutto i pomeriggio in castigo dietro alla lavagna. Non ebbi it coraggio di replicare e rimasi tutto it tempo, muta e piena di vergogna. La sera non raccontai a casa nulla dell’accaduto e nessuno riusci a capire perche non volessi assolutamente mangiare. Sentii mia madre dire alla nonna: Io questa bambina non la capisco, e sempre malcontenta.

    L’inverno era la stagione the amavo meno, certo mi piaceva la neve, the copriva tutto e faceva diventare tutto it paesaggio con it manto bianco. I pettirossi, intanto, venivano a beccare sulla siepe, chissa cosa. II freddo era intenso, non avevamo nessun modo per riscaldarci all’infuori di una cucina economica a legna.

    Ogni settimana, la mamma nella stalla riempiva una grande tinozza con dell’acqua calda, mi faceva spogliare ed entrare dentro, mi strofinava tutto it corpo con it sapone the faceva lei stessa. Dopo di me era it turno di mia sorella.

    Per andare a scuola avevo una spessa giacca, un passamontagna, delle calze, the la mamma faceva con la lana della nostra pecora; erano si calde ma mi pungevano tutte le gambe. E poi gli zoccoli the erano i sostituti delle scarpe.

    Andavano molto bene per pattinare lunghi tratti ghiacciati della strada. Pero, quando a scuola la maestra mi chiamava alla lavagna, cercavo di fare meno rumore possibile, mi sentivo imbarazzata ed avrei voluto scomparire all’istante.

    Oltre a questo, visto the nell’aula c’era solo una piccola stufa per riscaldare I’ambiente, ogni alunno aveva it compito di portare ogni giorno con se un paio di pezzi di legno, per alimentare it fuoco. La maestra si teneva addosso it suo bel cappotto verde, ma io pensavo the fosse per it fatto the era anziana, poiche, di solito, le persone anziane hanno pii freddo.

    Mi ricordo, come fosse ieri, the la maestra ci disse: "Oggi e (’ultimo giorno di scuola, dopo ci sono le vacanze di Natale, avrete it tempo per fare it presepio, chi puo anche I’albero di Natale, e chi e stato buono potra aspettare anche i regali di Gesi bambino. Quando inizieremo di nuovo la scuola saremo nell’anno 1950.

    E cosi, the a casa si iniziava con la preparazione del presepio. Noi di famiglia, avevamo gia tante piccole statuine, conservate con cura in soffitta, e ogni anno ne ricevevamo alcune di nuove. Avevamo un piccolo spazio per I’allestimento del presepe. C’era la ricerca del muschio per coprire la grotta ed i pascoli intorno alla sezione dedicata dal presepe. Un piccolo pezzo di specchio per fare un laghetto e un po’ di cotone per rappresentare la neve. Ogni sera ci si riuniva insieme per ammirare it nostro lavoro e discutere dei possibili miglioramenti. Poi, come d’abitudine, si recitava it Rosario a seguito del quale, a letto di corsa.

    La vigilia di Natale appendevamo ai piedi del letto le nostre calze ed attendevamo con trepidazione it mattino per scoprire cosa avremmo trovato. Magari solo carbone ? No. Di solito c’era un mandarino, una mela, una carruba e qualche caramella per not era egualmente una festa, anzi, una grande festa.

    II giorno di Natale, veniva atteso con tanta ansia, era un giorno veramente particolare. Quando si tornava dalla messa si trovava gia it tavolo imbandito di ogni bene e quando it pranzo era terminato si incominciava a giocare a tombola e si andava avanti fino a sera, vale a dire oltre le ore 10. Per not bambini, comunque, era un giorno indimenticabile.

    II papa lavorava all’estero e veniva a casa per it Natale e una seconds volta in estate. Per not era un evento eccezionale, ogni volta portava con se un grande scatola piena di tanti bastoncini di cioccolato cosi buoni the al solo pensiero mi sento un languore nello stomaco, oltre a tante altre leccornie the da not non c’erano. E poi tante notizie the a not sembrava provenissero da un mondo tanto lontano. Per la verita, lo vedevamo talmente poco, the dopo aver atteso tanto tempo la sua venuta, almeno per quanto mi riguarda, non vedevo l’ora the arrivasse l’ora della sua partenza. Era molto severo e mi incuteva tanta soggezione.

    Ricordo che una volta, per Pasqua ci porto per la prima volta un coniglietto di cioccolato. Mia sorella lo mangio immediatamente, mentre a me piaceva tanto conservalo, tanto e vero che lo posai sopra la credenza. Quando rientrammo dalla messa, it sole che entrava dalla finestra lo aveva completamente rammollito ed it povero coniglietto si era afflosciato tanto da rassomigliare ad una pizza. Mi misi a piangere e non volli nemmeno assaggiarlo.

    La primavera si presento bellissima. Lungo la strada, tornando da scuola, raccoglievamo piccoli mazzi di bucaneve, di primule e di altri fiori, che ora sono scomparsi. I prati erano coperti da un manto di fiori gialli, quelli della cicoria selvatica e tanti altri. Noi piccoli, a volte ci avvicinavamo alla vigna per mangiare i dolci pampini delle viti. Poco lontano c’era una roggia con I’acqua limpida, dove gli adulti pescavano le cozze, i gamberi e piccoli pesciolini, che poi, visto che erano tanto piccoli, Ii

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