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Lenita
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Lenita

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Tradotto per la prima volta in italiano, questo romanzo di Júlio Ribeiro fu pubblicato nel 1888 con il titolo “A Carne”. Provocò scandalo e scalpore tra le famiglie tradizionaliste brasiliane per aver affrontato temi fino a quel momento ignorati nella letteratura, come il divorzio, l’amore libero e il nuovo ruolo della donna nella società.

È stato uno dei libri più discussi e popolari del paese per aver sbalordito una società che vedeva ancora la donna come un essere passivo e inferiore all’uomo, e a molte giovani è stato proibito di leggere l’opera.

Contrario a tutte le convenzioni sociali dell’epoca, l’autore brasiliano osa far conoscere al pubblico una protagonista indipendente, molto colta, con intensi desideri sessuali e che si dichiara a un uomo non per amore ma per desiderio carnale. Diversa dalle eroine tipiche dei romanzi borghesi, vergini intoccabili, caste e sottomesse, Lenita è decisa, ostinata e sensuale.

“L’oscenità” della trama può sembrare puerile agli occhi del lettore di oggi ed evidenzia la notevole trasformazione comportamentale trascorsa in poco più di un secolo.

Il libro racconta la storia di Lenita, una bella ragazza di ventidue anni estremamente colta. Per cercare di superare la morte di suo padre, Lenita si trasferisce alla fattoria di un vecchio amico di famiglia, il colonnello Barbosa. Conosce il figlio, Manuel Barbosa, un uomo maturo e divorziato. La grande amicizia che nasce tra i due si trasforma poco a poco in ardente passione, creando un forte conflitto tra i desideri carnali e i comportamenti morali.

La storia è ambientata in Brasile in un’immensa fattoria circondata da piantagioni di caffè e di canne da zucchero. Gli schiavi sono i personaggi secondari di questa storia svolta poco prima dell’abolizione della schiavitù.
LanguageItaliano
PublisherJ. Ribeiro
Release dateJun 22, 2016
ISBN9786050462876
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    Lenita - J. Ribeiro

    18

    Capitolo 1

    Il Dr. Lopes Matoso non si poteva definire come un uomo felice.

    Perse il padre e la madre a pochi mesi di distanza, quando aveva appena diciotto anni. Il colonnello Barbosa, un amico di famiglia, gli fece da tutore e lui poté continuare gli studi e laurearsi in legge.

    Il giorno dopo la sua laurea, il suo onesto tutore gli consegnò la sua grande fortuna:

    Sei ricco, sei laureato, hai un grandissimo futuro davanti a te. Adesso è giunta l’ora di sposarti, di avere dei figli e di accrescere il tuo capitale. Se avessi una figlia avresti già una moglie, purtroppo non ce l’ho e dovrai cercartela da solo.

    Lopes Matoso non la dovette cercare a lungo. Sposò la cugina che amava da sempre e con la quale ebbe una vita felice per due anni. All’inizio del terzo anno la moglie morì di parto, lasciandogli una figlia.

    Per Lopes Matoso fu un colpo durissimo, ma da uomo forte che era riuscì a non farsi abbattere completamente. Si dedicò al suo lavoro e si trasferì in una fattoria, allontanandosi dagli amici. Trascorreva il suo tempo libero leggendo molti libri e prendendosi cura dell’amata figlia.

    A sua figlia insegnava di tutto: l’aritmetica, la grammatica, l’algebra, la geometria, la geografia, la storia, il francese, lo spagnolo, il nuoto, l’equitazione e la musica. Le insegnava tutte queste cose, perché di tutte queste cose lui era esperto.

    A quattordici anni Helena, o Lenita come la chiamavano, era una ragazza con un carattere disinvolto, forte e con un’istruzione al di sopra dell’ordinario. Lopes Matoso capì che era giunto il momento di cambiare vita e decise di ritornare in città.

    Lenita poté avere bravi insegnanti di lingue e di scienze; studiò l’italiano, il tedesco, l’inglese, il latino e il greco. Per lei tutto era facile, nessun campo le sembrava difficile grazie al suo enorme talento.

    Lenita cominciò a farsi conoscere nella società. Non era una ragazza presuntuosa, al contrario, era modesta, semplice e sapeva circondarsi di un alone di simpatia, nascondendo con arte la sua immensa superiorità. Tuttavia, se qualche ragazzo appena laureato o tornato da Parigi o New York si dimostrava saccente o petulante, lei con adorabile candore lo assillava con una serie di domande perfide, riuscendo poco a poco a farlo contraddire e riducendolo, infine, al più vergognoso silenzio.

    Riceveva molte richieste di matrimonio e un giorno suo padre decise di parlarle.

    Digli pure addio, papà. Lo sai che non voglio sposarmi.

    Lenita, prima o poi dovrai sposarti.

    Un giorno, forse, non ancora.

    Sai una cosa? Sono quasi convinto di aver sbagliato a educarti. Ti ho dato una cultura al di sopra del comune e il risultato è vederti isolata nelle alture alle quali ti ho sollevato. L'uomo è stato creato per la donna e la donna per l'uomo. Il matrimonio è una necessità, non dico sociale ma fisiologica. Non trovi nessun uomo che sia degno di te?

    Non è per questo. È perché non sento l’esigenza di un matrimonio. Se la sentissi, mi sposerei.

    Anche con un uomo mediocre?

    Preferibilmente con un uomo mediocre. I grandi uomini, in generale, non sono bravi mariti. Inoltre, se tali signori, grandi uomini, scelgono quasi sempre donne al di sotto di loro, perché io, che sono una donna superiore secondo il parere di papà, non dovrei fare come loro, scegliendo un marito inferiore?

    Sì, per avere figli stupidi...

    I bambini prenderebbero da me: la biologia insegna che l’eredità diretta dell’ingegno e del talento è più comune da madre a figlio.

    E dal padre alla figlia, no?

    Certamente, ed è per questo che sono quella che sono!

    Lusinghiera!

    Lusinghiero è papà che voleva una ragazza prodigio e l’ha fatta così bene che anch’io inizio a convincermi! Per quanto riguarda il matrimonio, non ne parliamo più.

    E non ne parlarono più. Lopes Matoso congedava i candidati con molti convenevoli, diceva loro che la ragazza non si voleva sposare, che era una ragazza originale, che aveva cercato invano di consigliarla e tante altre cose al fine di ammorbidire il rifiuto.

    Lenita arrivò così a ventidue anni, fino al giorno in cui suo padre si lamentò di un malessere incontenibile, un forte senso di costrizione toracica. Dopo un attacco di tosse, morì improvvisamente, senza che avessero avuto il tempo di chiamare un dottore. Morì di congestione polmonare.

    Lenita quasi impazzì dal dolore. L'imprevisto della morte repentina, il vuoto improvviso e terribile che si era formato intorno a lei e la superiorità culturale della sua mente che rifiutava le consolazioni banali, contribuirono ad aumentare la sofferenza.

    Trascorse giorni e giorni senza lasciare la sua stanza, rifiutandosi di ricevere visite e anche di mangiare.

    Infine reagì contro il dolore: si mostrò agli amici di suo padre per ricevere le loro condoglianze e cercò di ricostruire la vita solitaria che si era creata, una vita molto triste, sterile d’affetti e popolata da ricordi dolorosi.

    Sistemò gli affari di famiglia e scrisse al colonnello Barbosa, avvertendolo che si sarebbe recata temporaneamente alla sua fattoria.

    Gli affari non erano un problema: la fortuna di Lopes Matoso era quasi tutta costituita da polizze e azioni. Essendo Lenita figlia unica, non esistevano inventari o lungaggini giudiziarie.

    La risposta del colonnello fu immediata: non vedeva l’ora che arrivasse. Anche l’anziana moglie gioì alla notizia del suo arrivo, poiché avrebbe avuto una nuova compagna con cui parlare. Loro abitavano con l’unico figlio, un uomo maturo, sposato ma da molto separato dalla moglie; un cacciatore rimasto solo con se stesso e con i suoi libri.

    Una settimana dopo, Lenita arrivò alla fattoria dell’anziano tutore di suo padre. Aveva portato con sé il suo pianoforte, alcuni bronzi artistici, alcuni soprammobili curiosi e molti libri.

    Capitolo 2

    Per Lenita l’isolamento alla fattoria fu orribile, peggio che restare in città.

    La moglie del colonnello era una signora ottantenne affetta da paraplegia e anche molto sorda. Il colonnello Barbosa, leggermente più giovane di sua moglie, soffriva di reumatismi e a volte trascorreva giorni e giorni bloccato nel letto. Il figlio, divorziato, era andato da qualche mese a Paranapanema a cacciare. Infine, l’amministratore che gestiva la fattoria, era un uomo molto affabile ma ignorantissimo su tutto ciò che non riguardava l’agricoltura.

    Lenita mangiava quasi sempre da sola nella grandissima veranda. Dopo il pranzo o la cena andava a parlare con il colonnello e compiva sforzi incredibili per farsi sentire dalla moglie che, passiva e sorridente, avvicinava la mano all’orecchio per cogliere le parole. Tale situazione stancava la ragazza che si ritirava presto nella sua stanza a leggere, cercando di distrarsi.

    Leggere però era impossibile: prendeva un libro e lo lasciava, ne prendeva un altro e lasciava pure quello. Soffriva troppo per il ricordo di suo padre e tutti i suoi libri parlavano di lui: una scritta in una pagina, un foglio piegato.

    Usciva, ricominciava a parlare, ritornava in camera, usciva di nuovo. Era un inferno. La moglie dell'amministratore, affettuosa già di natura, aveva ricevuto delle raccomandazioni speciali dal colonnello per prendersi cura di Lenita. Le offriva tazze di latte caldo, bicchieri di succo di canna, caffè, dolci, frutta. Lenita alcune volte rifiutava, altre volte accettava una cosa o l’altra, indifferentemente, solo per far piacere alla donna.

    Il colonnello Barbosa aveva dato a Lenita una camera indipendente, una stanza da letto con due grandi finestre e un’alcova; aveva messo ai suoi ordini una mulatta astuta e un po’ slavata e un ragazzino mulatto con i denti bianchissimi.

    Lenita a volte passava ore e ore alla finestra a guardare i pendii della fattoria, vicino alla quale scorreva un ruscello. Di fronte si estendeva il grande pascolo, dove la monotonia del verde chiaro era spezzata qua e là dal fogliame scuro di alcuni steli d’aglio, volutamente lasciati all'ombra, e dal giallo sporco della paglia. In fondo, da un lato, la foresta vergine, scura, tagliente, quasi massiccia, che fondeva in un solo colore mille colori diversi; dall’altro lato, le soavi colline, con il verde chiaro allegro e uniforme delle canne da zucchero sempre agitate dal vento; più distanti, le piantagioni di caffè allineate, regolari, continue, come un tappeto riccio verde scuro, che si estendevano fino alla parte posteriore delle colline.

    Sopra a tutto quello, l’azzurro velato e puro del cielo. Quando il tempo si annuvolava, il paesaggio cambiava: il colore verde perdeva la luminosità e si sbiadiva e il cielo diventava grigio, carico di nuvole di piombo che si abbassavano.

    Lenita cominciò a uscire e a passeggiare per i dintorni, a volte a piedi accompagnata dalla mulatta, talvolta a cavallo seguita dal ragazzo.

    Le camminate, l'aria pulita e la libertà di vivere nei campi, tuttavia, non l’aiutarono.

    Un languore crescente, l’esaurirsi delle forze e una prostrazione quasi completa presero possesso di tutto il suo essere: non leggeva e il pianoforte rimaneva in silenzio.

    Con la morte di suo padre, la sua natura si era trasformata. Non era forte come una volta, aveva paura di rimanere sola, soffriva di attacchi di panico.

    Si recava alla stanza della moglie del colonnello, si appoggiava pigramente allo schienale di una sedia e poi restava in silenzio per ore, rispondendo a malapena alle domande che le erano rivolte.

    Quando ritornava alla sua stanza, era colta da una paura inspiegabile e si aggrappava tremando alla mulatta. Sentiva una malinconia straziante e alternava la mancanza d’appetito con i desideri dirompenti di cose salate o stravaganti. Aveva la salivazione eccessiva e conati di vomito violenti.

    Una mattina non riuscì ad alzarsi. Si precipitarono ad aiutarla il colonnello e la moglie dell'amministratore. Le fecero bere un rimedio casalingo qualunque, il tè di citronella, in attesa dell’arrivo del dottore chiamato in tutta fretta.

    Quando il dottore arrivò, Lenita era molto abbattuta: cadaverica, con gli occhi infossati in un alone violaceo e con il torace che si comprimeva. Si sentiva soffocare, come se una palla fosse salita dal suo stomaco e avesse raggiunto la gola per strangolarla. Nella parte alta della testa, un po’ a sinistra, aveva un dolore circoscritto, fisso e assillante, come se ci fosse un chiodo lì conficcato. Il suo sistema nervoso era molto irritato: il minimo rumore o la luce che entrava dall’apertura della porta provocavano le sue urla.

    Il Dott. Guimarães, un medico già anziano con l’espressione intelligente e bonacciona, si

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