Il misterioso caso della vergine dormiente
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Il misterioso caso della vergine dormiente - Rosa Maria Ponte
http://creoebook.blogspot.com
Rosa Maria Ponte
IL MISTERIOSO CASO
DELLA VERGINE
DORMIENTE
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
Nella Palermo storica
un quadro futurista,
la reliquia di un Santo Crociato e
il sorriso di una Vergine Dormiente
custodiscono oscuri segreti.
«Quanti dolori, ahimè, potremmo evitare nella vita
se solo potessimo ritirare le mosse sbagliate
e giocare di nuovo!»
GOETHE
A Giusy Barbarino,
perché non dimentichi Palermo
Premessa
Tu non sai, gentile lettore, chi io sia in realtà anche se, qualche volta, avrai sentito parlare di me a proposito di un fatto increscioso che ha troncato agli inizi la mia carriera di insegnante e che mi ha costretto a vivere nel luogo maledetto dove ora mi trovo e da cui, ne sono certo, non verrò mai fuori. Allora, per farti conoscere un certo mio lato oscuro, l’unico di cui ami vantarmi, farò qualche accenno ai miei gusti, non a particolari inclinazioni, ma piuttosto ad alcune debolezze che un giorno mi avrebbero portato, attraverso strade tortuose e piene di inciampi, alla realizzazione di quello che, sin da adolescente, avevo ambito con grande tenacia. Inizierò, pertanto, col riferirti un episodio che altro non è che una succinta confessione.
Riconosco che da sempre ho avuto una stima reverenziale per i giocatori di scacchi e che, una volta, sprofondato nella poltrona del soggiorno con una bibita a portata di mano, non mi perdevo una sola partita alla televisione. Non voglio dire, con questo, che mi intendessi del gioco o che fossi al corrente delle storie dei grandi campioni e delle loro sottili astuzie per battere l’avversario, poiché il mio unico interesse, allora, era quello di osservare le espressioni delle loro facce mentre studiavano una mossa. Ricordo che più il volto del giocatore era impassibile, cioè, meno le sue sopracciglia convergevano formando nel mezzo un solco, più il labbro inferiore era disteso, vale a dire meno gli incisivi si accanivano a mordicchiarlo, e più la mia venerazione verso quell’individuo cresceva. Non so se mi sono spiegato; intendo, comunque, che non mi importava se il possessore di quella maschera di granito vincesse o perdesse l’incontro, perché sicuramente avrebbe trionfato su qualsiasi partita della vita e io per questo l’ammiravo e, nel mio intimo, forse invidiavo un po’ la sua spavalda risolutezza. Esiste un gioco che, come gli scacchi, sia più simile all’avventura dell’esistenza umana? Direi di no, ma questo l’avrei appreso molto tempo dopo. Quanto però mi sembravano grandi, potenti, impareggiabili quegli individui che, con un solo gesto, rovesciavano torri, umiliavano regine, abbattevano re, sbaragliavano pedoni e annientavano gli alfieri degli avversari! Ammetto che qualche volta, nei momenti cruciali, mi scappava qualche applauso, perché li ritenevo dei vincenti nati, diametralmente opposti a me che sono sempre stato un timido, pieno di incertezze, manie e tic, incapace persino di giocare decentemente a scopa, quindi, in poche parole, uno sconfitto predestinato.
Sapeste quanto allora sognavo di possedere una scacchiera!
Ma un giorno appresi che possedere una scacchiera non significava saperci giocare e io, come ho già detto, ero del tutto incompetente. Era stato solo un colpo di fortuna il fatto di aver trovato, una mattina sotto il letto del dormitorio, la bramata scatola di legno di acero ed ebano che conteneva, in un cassettino, tante belle statuine bianche e nere.
Ma ora che faccio uno sforzo di memoria, mi sembra di ricordare che quella scacchiera non l’avevo trovata sotto il letto, come un bel dono il giorno dei morti, perché dove ora sto, neppure i vivi usano fare regali, ma me l’aveva data il professore prima di essere dimesso. Forse non era nemmeno andata così, probabilmente confondo i fatti, cosa che da un po’ di tempo mi capita spesso, a causa di certe pillole blu che mi lasciano la bocca amara. Perché il professore – mi pare ora di rivedere la scena – non era uscito da qui con le sue gambe , bensì con i piedi in avanti e coperto fino alla faccia da un lenzuolo bianco, su una lettiga spinta dall’infermiere Gioacchino, quel tipo nerboruto dai capelli rossi e occhiali spessi che noi tutti conosciamo.
Gioacchino, canticchiando spingeva indifferente, ma noi sapevamo bene dov’era diretto, perciò seguivamo con gli occhi il morto, facendoci, sotto sotto, il segno della croce. Questo succedeva il giorno prima, perché il dì seguente quando mi appropriai della scacchiera che stava nell’armadietto del professore, tutti mi guardarono astiosi, anzi avrebbero voluto cavarmi gli occhi, tanto che si avventarono sul mio viso lasciandovi qualche graffio; cosicché io, mentre con una mano mi asciugavo il sangue, con l’altra tirai dalla tasca un foglio di carta bianca che avevo rubato da un blocchetto in infermeria e, trattenendomi dal ridere, gridai: Vi sfido a toccarmi. Se ci provate ancora, razza di invidiosi, vi spezzo le unghie a morsi. Ecco il testamento e qui c’è la firma! Soddisfatti?
Allora quei babbei indietreggiarono intimoriti e, lanciandomi occhiate miste di gelosia e ammirazione, a testa bassa si dispersero per i corridoi.
Finalmente, questa è fatta!
dissi, sentendomi ormai proprietario indiscusso della tavoletta e delle statuine.
Ora voi chissà da quanto, tra uno sbadiglio e l’altro, mi state consigliando di smetterla con questa storia di giocatori impassibili e di scacchiere ritrovate, ma io mi sento costretto a non darvi ascolto, perché ritengo che qualsiasi cosa si abbia intenzione di raccontare è meglio cominciare dagli inizi. Quindi tiriamo avanti e andiamo al sodo: ecco che finalmente possedevo l’oggetto tanto desiderato, cioè la scacchiera con le pedine, ma non conoscevo le regole del gioco e, inoltre, non sapevo con chi giocare. A questo punto il caso mi fece conoscere Michele, un architetto, finito qui chissà come. Devo dire che, se non fossi diventato suo amico non avrei mai appreso i rudimenti del gioco, che mi era totalmente sconosciuto quando guardavo le partite alla televisione perché, come ho già detto, a quei tempi ero esclusivamente concentrato sulle espressioni dei contendenti. E non avrei saputo nemmeno che i due avversari che si affrontano davanti alla scacchiera, impersonano Dio e il Diavolo, i quali, con le loro mosse si giocano la vita di qualcheduno, o la sua anima, come io oserei affermare da patito lettore del Faust.
Michele, poco dopo aver fatto amicizia, mi raccontò la vicenda di un quadro di un autore famoso, trovato per caso, che gli aveva fatto vivere momenti di grande tribolazione e io, nel momento in cui decisi di trascrivere i fatti, mi appuntai il nome di questo pittore su un pezzetto di carta, perché non sono forte di memoria. E la memoria avrebbe avuto un ruolo importante, dal momento che mi proponevo di accontentare il dottore che da un po’ insisteva nel prescrivermi, come terapia, di buttare giù una storia, visto che la fissazione della mia vita era sempre stata quella di fare il romanziere, ma non avevo mai osato iniziare a causa della mia morbosa insicurezza.
Il quadro, diceva il mio amico, dal momento in cui l’aveva visto, gli era diventato un’ossessione e non escludeva che, proprio per causa sua, fosse finito in questo luogo monotono e così poco ospitale. Lui affermava, pertanto, di essere convinto che il dipinto stesso rappresentasse una scacchiera e che i due personaggi che vi erano raffigurati, Dio e il Diavolo, come diceva il titolo scritto sul retro della tela, fossero i giocatori.
Il giorno in cui decidemmo di iniziare la partita seppi che nemmeno Michele sapeva giocare, quindi era necessario, prima di tutto, inventarsi delle regole possibilmente semplici, dato che di scacchi non sapevamo assolutamente nulla. E così, un pomeriggio piazzammo la scacchiera sopra uno dei tavolini di formica della sala comune e, con un metodo tutto nostro, iniziammo. Subito, i tipi più biechi della comunità ci attorniarono per curiosare.
Durante la partita non ce ne stavamo muti, scrutandoci in cagnesco come dei veri avversari, ma ognuno di noi, a turno, seguendo le mosse delle pedine, raccontava episodi della propria vita.
Io per la verità avevo ben poco da dire, sia perché non sono propenso a confidarmi, ma soprattutto perché in venticinque anni di esistenza su questa terra, avvenimenti degni di nota ne avevo vissuti ben pochi e quindi, per allungare il brodo, mi inventavo della storie di sana pianta. Di vero, in quel che dicevo, c’era solo che a diciotto anni avevo iniziato a insegnare come maestro e che un giorno, mentre facevo agli alunni una lezione pratica sulla pericolosità degli zolfanelli e via dicendo, qualcosa era andato storto e la scuola aveva preso fuoco con tutti i bambini dentro. Io mi ero salvato, ma ero rimasto in ospedale per lungo tempo e ancora oggi, in tutto il corpo, porto tracce di bruciature, ma pare che ustioni invisibili abbiano intaccato il mio cervello e siano la causa delle assordanti urla infantili che sento esplodere di notte, all’improvviso, nel silenzio del dormitorio.
Mi pare di aver detto tutto, o quasi. Non rammento, comunque, da quanto tempo mi trovo qui, ma sono sicuro di aver incontrato per la prima volta Michele nel reparto terapia, dove lui, preso da un attacco isterico, si contorceva e strattonava rifiutandosi di farsi infilare quella specie di cuffia da neonato con elettrodi che fa sentire tanto cretini, mentre dovrebbe rivelare, con i suoi impulsi, che in fondo non lo si è del tutto. A quei tempi di Michele non sapevo niente poi, chiacchierando con questo e con quello, appresi che anche lui si trovava qui a causa di un incendio.
Con Michele giocai per molto tempo, forse per anni, tutti i pomeriggi, sempre attorniati e scrutati dai tipi biechi. L’ultimo giorno che ci incontrammo davanti alla scacchiera, già da un pezzo lui aveva finito di raccontarmi la sua storia e ormai riprendeva tutto daccapo ripetendo le stesse cose. Anch’io per l’ennesima volta ridicevo i fatti della mia vita, sia quelli veri che quelli inventati, tanto che i tipi biechi non facevano altro che dondolarsi annoiati dall’una all’altra gamba socchiudendo le palpebre e, certe volte, li vedevo persino girare i pollici di nascosto.
L’ultimo pomeriggio giocammo una grande partita e infine, poco prima che suonasse la campanella della refezione che annunciava la cena, Michele abbatté il re dicendo: Mariano, hai vinto!
L’indomani lo vidi uscire dalla sua stanza coperto fino alla faccia da un lenzuolo, su una lettiga spinta da Gioacchino.
Quando, quella mattina, incontrai il mio psichiatra gli chiesi in prestito un paio di biro e alcune risme di carta, perché mi ero finalmente deciso a scrivere una storia, sperando in tal modo di mettere fine alle grida dei bambini che ogni notte mi rintronavano le orecchie.
E così, ho scritto il romanzo della vita di Michele che potete leggere qui sotto. L’ho firmato col mio solo nome, Mariano, perché qua i cognomi non si usano, tanto che ormai mi sono dimenticato del mio.
Il dottore, quando gli ho annunciato di aver terminato il racconto, sembrava a dir poco euforico. Si congratulò stringendomi la mano, e disse che da questo posto non era mai uscito un romanziere, quindi avrei avuto un grande successo di cui giornali e televisioni avrebbero parlato. Ma io non l’ho bevuta, figuriamoci! Ho sospettato subito che l’unica persona a cui lo avrebbe dato da leggere sarebbe stato il primario, per dimostrargli quanti progressi era capace di far fare ai malati con le sue terapie innovative. Il dottore mi ha anche raccomandato di inserire una premessa al romanzo, cosa che come vedete ho fatto, sia per chiarire l’origine degli eventi sia perché l’editore la pretendeva. Quando ha detto la parola editore
, quel commediante ha strizzato l’occhio all’infermiere come se io fossi un deficiente incapace di afferrare la sua stupidissima ironia. Infatti, l’unico editore
che noi conosciamo in questo maledetto posto è il tipografo della stamperia qui vicino che, ogni fine d’anno, viene per distribuirci dei piccoli calendari plastificati dell’anno nuovo. Questi purtroppo non si possono strappare, ma noi regolarmente li distruggiamo a morsi dato che non ci servono, perché qui il tempo non si è mai contato in anni, mesi o settimane, ma in giorni, soltanto in giorni, che noi chiamiamo: polpette, pesce lesso, frittata di patate… e non lunedì, martedì ecc., perché in questo maledetto posto tutto è monotono, immobile, di una noia mortale per cui niente cambia e tanto meno quello che si mangia. Ma noi non la prendiamo troppo sul tragico perché, anche se sembrerà impossibile, a poco a poco a questo ci si abitua.
Mariano
Il misterioso caso della Vergine Dormiente
1
Miei cari parrocchiani, prendete esempio dal Santo Crociato
concludeva il parroco, che tanto disdegnò l’oro e i gioielli con cui l’avevano ricoperto, contro la sua volontà, da rifiutarsi di fare miracoli!
Come accadeva ogni anno, Michele avvertiva colpi di spada e persino il fetore della peste, mentre ascoltava la storia di San Barbato il Penitente. La vicenda dei suoi resti esposti in una teca della chiesa dei Santi Arcangeli Minori, nel degradato centro storico di Palermo in via dei Cerai, altro non era che una fiaba. In realtà, non vi era niente di documentato nella storia portata avanti dalla tradizione orale che l’attuale parroco, e quelli prima di lui, rispolveravano ogni diciannove febbraio.
Infatti, la leggenda voleva che il Penitente fosse morto proprio nello stesso giorno del suo predecessore più illustre da cui aveva ricevuto il nome, San Barbato da Benevento; ma mentre questo Santo era vescovo e morì nel 683 – così riferiscono i documenti ecclesiastici – niente vi era di certificato sull’anno di morte del Penitente che fu principe normanno e crociato e che, sotto le mura di Gerusalemme, morì di peste in un probabile diciannove di febbraio, mentre sugli spalti della Città Santa ferveva la battaglia.
Ogni anno, in questa data, per quanto Michele ricordasse, nella chiesa veniva officiata una messa solenne nell’altare su cui incombeva quel che restava del sacro corpo. Per l’occasione, le panche venivano rivolte verso il transetto dove si trovava la cappella, in modo che tutti i fedeli potessero vedere lo splendore della santa spoglia e conservare ben impressa in mente la frase con cui il prete concludeva la predica dopo aver esposto, con un modulare di toni e un enfatizzare di gesti, la storia fantastica e terrificante