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Eden: Il progetto che la Nasa vuole nascondere a tutti i costi
Eden: Il progetto che la Nasa vuole nascondere a tutti i costi
Eden: Il progetto che la Nasa vuole nascondere a tutti i costi
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Eden: Il progetto che la Nasa vuole nascondere a tutti i costi

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About this ebook

Kayla Anderson, una giornalista del Sun Sentinel di Miami, dopo aver ricevuto una misteriosa email decide di incontrare lo scienziato della NASA Richard Denver, che le fa delle dichiarazioni sconcertanti prima di essere assassinato davanti ai suoi occhi. << Non si spaventi per quello che sto per comunicarle. – Le aveva detto qualche minuto prima. - Tra il mese di marzo del ’72 e l’aprile del ’73 la NASA lanciò nello spazio due sonde chiamate rispettivamente Pioneer 10 e Pioneer 11. Il progetto era finalizzato, oltre che all’esplorazione del sistema solare, a portare a conoscenza di un’eventuale civiltà aliena l’esistenza del nostro pianeta. La Pioneer 11 concluse la sua missione nel settembre del 1995. La Pioneer 10 invece, secondo le notizie ufficiali, lanciò il suo ultimo debolissimo segnale nel gennaio del 2003 da una distanza pari ad oltre il doppio di quella fra il Sole e Plutone, per poi perdere ogni contatto con la terra. Perdoni la piccola lezione, ma è necessaria per farle comprendere quello che sto per rivelarle… … La Pioneer 10 trasportava esseri umani. Un uomo e una donna! Se vuole sapere il resto venga questa sera alle 19:00 al 1475 di Garden Street di Titusville. La prego, non parli non nessuno e sia puntuale.>>
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateJun 3, 2016
ISBN9788867825288
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    Eden - Andrea Beltramo

    Andrea Beltramo

    EDITRICE GDS

    Andrea Beltramo

    EDEN

    © Editrice GDS

    Via Matteotti 23

    20069 Vaprio d’ Adda –Mi

    www.gdsedizioni.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Ogni riferimento descritto in questo romanzo a cose, luoghi o persone

    e altro sono da ritenersi del tutto casuale.

    a Carlotta e Filippo

    Mai un uomo potrà mettere piede su un altro corpo celeste. I viaggi cosmici appartengono al regno dei sogni. Ci si dovrà accontentare d’individuare nello spazio missili telecomandati, non recanti uomini a bordo. L’uomo è solo un uomo. Esiste il pericolo che il cuore si fermi per l’assenza di gravità nello spazio, esiste il pericolo rappresentato dai raggi cosmici annientatori, in parte ancora sconosciuti, esiste il pericolo che l’astronave venga distrutta dalle meteoriti: un piccolo foro aperto in una sua parete significa la morte.

    (Heinz Haber, direttore della facoltà di medicina dell’università di Randolph Field)

    PROLOGO

    L’uomo era certo che fosse un incubo.

    Quella scena terrificante doveva essere per forza frutto della sua immaginazione.

    Chiuse gli occhi e lottò per risvegliarsi. Quando li riaprì, però, si rese conto che il sogno era reale: stava precipitando nel vuoto.

    Istintivamente lanciò un urlo disperato, cominciando a scalciare forsennatamente.

    Dopo alcuni secondi si bloccò: agitarsi sarebbe stato del tutto inutile, ormai non aveva più alcuna speranza.

    La prossima meta sarebbe stata il suolo.

    Raggiunta la consapevolezza che, di lì a poco, sarebbe morto, tornò stranamente lucido.

    Strizzando gli occhi guardò l’orologio: erano quasi le dieci e il cielo sereno si stava tingendo del blu profondo della notte.

    Volse lo sguardo in basso, verso le migliaia di luci della città e, basandosi sull’esperienza acquisita come pilota, valutò di trovarsi a circa settemila metri d’altezza. Allargò le braccia e le gambe, cercando di aumentare l’attrito per rallentare la caduta, e cominciò a calcolare quanto tempo avrebbe impiegato a schiantarsi al suolo.

    Sapeva che un corpo umano, lasciato cadere nel vuoto, raggiunge una velocità media di circa 180 km/h: sarebbe sopravvissuto per circa due minuti.

    Gli ultimi centoventi secondi della mia vita realizzò.

    Come era finito in quella situazione?

    Frugò nella memoria e, poco per volta,

    Cominciarono ad affiorare i ricordi di ciò che aveva vissuto nelle ultime ore.

    Quel pomeriggio, dopo aver vagato per ore senza meta, era entrato in uno squallido locale nella periferia ovest della città. Aveva attraversato velocemente il pavimento appiccicoso, coperto di mozziconi di sigaretta, e si era seduto al bancone.

    Aveva ordinato una birra e, mentre beveva pensieroso, dal jukebox in fondo al locale si erano diffuse le note di una canzone il cui titolo gli aveva gelato il sangue nelle vene.

    Posato rumorosamente il boccale, si era voltato di colpo.

    Il tizio che aveva selezionato il brano era un uomo corpulento, con l’aria dell’ex militare e, dopo aver osservato per un po’ il 45 giri al di là del vetro, era tornato a sedersi a un tavolino traballante.

    È soltanto una coincidenza si era detto.

    Nella primavera del 1973, infatti, Killing Me Softly With His Song di Roberta Flack, era in testa a tutte le classifiche ed era normale sentirla ovunque.

    Imponendosi di restare calmo, aveva fatto segno al barista di portargli un’altra birra.

    Mentre avvicinava il secondo boccale alle labbra, però, la canzone era ricominciata.

    Con una fitta di angoscia si era girato lentamente in direzione del jukebox, ma questa volta non aveva visto nessuno.

    Il tizio era sparito. Killing me Softly

    Aveva scacciato quelle parole dalla mente con una lunga sorsata.

    È soltanto una coincidenza si era ripetuto, cercando di convincersi ma allora perché qualcuno avrebbe sprecato una moneta per far partire una canzone senza fermarsi ad ascoltarla?

    Dopo aver infilato la mano nella tasca interna della giacca, per assicurarsi di avere ancora con sé il messaggio, e lasciate un paio di banconote sul bancone, era scivolato giù dallo sgabello.

    Fuori dal locale la strada era deserta e la buca delle lettere distava meno di un centinaio di metri.

    Preso un respiro profondo aveva cominciato a correre.

    Ormai non ho più dubbi: il segreto contenuto in quelle pagine deve essere divulgato.

    Cinquanta metri.

    È la cosa giusta da fare, anche se la mia vita d’ora in avanti sarà in pericolo.

    Dieci metri.

    Sono stato uno stupido a non avere avuto il coraggio di prendere prima questa decisione.

    Giunto davanti alla cassetta della posta, aveva preso la missiva, tentando di infilarla nella fessura.

    «Non è possibile!»

    La piastra di metallo era bloccata.

    «Maledizione! Apriti, forza!» imprecò, battendo i pugni contro la scatola di metallo.

    Il fazzoletto che qualcuno gli aveva premuto davanti al naso e alla bocca aveva un odore dolciastro.

    Killing Me Softly.

    La lettera gli era caduta dalle mani.

    La consapevolezza del fallimento gli risultò ancora più penosa dell’orribile fine che avrebbe fatto tra poco. La città era così vicina che gli parve di sentire l’odore del cemento e dell’asfalto.

    Gli ultimi cinque secondi della mia vita.

    Poi fu il nulla.

    Il nulla assoluto.

    CAPITOLO UNO

    Kayla tamburellava nervosamente con le dita sulla tastiera del computer.

    Aveva aperto il programma di posta elettronica ed era rimasta a fissare il monitor, aggiornando continuamente la pagina dei messaggi in arrivo.

    Nella mano destra tormentava una pallina antistress, il suo portafortuna.

    L’aveva vinta qualche anno prima giocando a una Crane Machine, una di quelle macchinette armate di ganci che regalano premi e peluche.

    Era capitato una volta che aveva accettato un appuntamento con un ragazzo incontrato in un Pub solo qualche giorno prima.

    Era agitata, di solito era molto prudente e non usciva da sola con persone conosciute da poco, ma quella volta aveva deciso di osare.

    Peccato che la storia della fortuna che aiuta gli audaci si riveli quasi sempre una fregatura.

    Lui non si era fatto vivo e lei, dopo quaranta minuti passati ad aspettare davanti all’ingresso del cinema, era entrata e aveva comprato un biglietto e una confezione gigante di patatine al rosmarino.

    Poco prima dell’inizio del film, mentre pensava a quanto fosse stata sciocca, aveva sentito una voce alle sue spalle.

    «È libero questo posto?» aveva chiesto qualcuno. Si era voltata e, nella semioscurità della sala, aveva intravisto il volto di un ragazzo che doveva avere più o meno la sua età.

    «Mi chiamo Michael» aveva detto, sedendosi accanto a lei, ma i titoli di testa avevano bloccato sul nascere la loro conversazione.

    Il film era iniziato, lei gli aveva offerto le patatine e, la sera seguente, lui l’aveva invitata a cena.

    Dopo una settimana si fidanzarono.

    Kayla si ridestò dall’inatteso tour nel mondo dei ricordi e rilesse, per l’ennesima volta, il messaggio che aveva ricevuto alle 5:30.

    Quello che stava scorrendo con gli occhi aveva tutte le caratteristiche per diventare il colpo giornalistico più importante della sua carriera.

    La missione del KSC era falsa. Non vada in ufficio, attenda e-mail.

    Era sorpresa: chi le aveva scritto doveva essere a conoscenza del fatto che lei, ogni mattina, prima di andare in ufficio, controllasse la casella di posta elettronica dal PC di casa.

    Un abitudine inutile, a dire il vero, visto che, sulla scrivania della sua redazione, troneggiava un computer costantemente connesso a internet.

    Per lei, però, leggere le mail mentre beveva il caffè, era una specie di rito scaramantico, una consuetudine propiziatoria.

    Kayla Anderson, giovanissima giornalista del Sun Sentinel di Miami, non era ancora riuscita a pubblicare un articolo che suscitasse l’interesse dei lettori.

    Se quella, come le suggeriva il suo istinto da reporter, fosse stata l’occasione giusta per uscire dal mucchio, non poteva proprio lasciarsela sfuggire. Solo così, infatti, si sarebbe potuto avverare il sogno che il direttore di una delle testate giornalistiche più importanti degli Stati Uniti, come il Los Angeles time, il new York time, il Washington Post si accorgesse di lei.

    E magari le offrisse anche un ingaggio.

    Aveva 23 anni ed era una ragazza attraente, leggermente più alta della media, con grandi occhi marroni e bellissimi capelli castani a incorniciarle il viso. Il fisico era snello e i suoi movimenti elastici e aggraziati, grazie ai costanti allenamenti in palestra.

    Non potendo (né volendo) passare alla ribalta contando solo sul proprio aspetto, s’impegnava nel lavoro con passione inesauribile, rifiutando facili scorciatoie.

    «Cosa significa questo messaggio?» sussurrò, socchiudendo le palpebre.

    KSC era una sigla, ovviamente. Non c’era bisogno di essere nati in Florida per capire a cosa si riferisse: il John F. Kennedy Space Center era la struttura per il lancio di veicoli spaziali a Cape Canaveral, sull’isola Merritt.

    Lesse il testo ancora una volta: aveva subito intuito che alludeva alla partenza dello Shuttle avvenuta appena una settimana prima. Sarebbe stato l’ultimo viaggio, dopodiché il glorioso velivolo avrebbe detto addio a più di trent’anni di storia spaziale.

    Kayla ricordava che in quell’occasione la NASA aveva definito il volo come una semplice missione di routine alla ISS, la stazione spaziale internazionale. Qual era dunque la verità?

    Si collegò a Google, aveva appena digitato la parola ISS nella barra di ricerca, quando un bip, acuto e prolungato la avvisò dell’arrivo di una nuova e-mail.

    Con un doppio click aprì il messaggio dell’anonimo informatore.

    Non tocchi niente.

    «Cosa diavolo vuol dire?» esclamò lei, fissando sbalordita lo schermo e stringendo con più forza la pallina antistress. Poi il cursore si mosse da solo, chiuse il programma di posta, aprì una pagina word e, a un tratto, cominciarono ad apparire delle parole.

    Tratto un respiro profondo, iniziò a leggere.

    Buongiorno Signorina Anderson,

    non si spaventi, ho preso possesso del suo sistema operativo solo momentaneamente e per ragioni di sicurezza. Non ho molto tempo a disposizione, dunque stia calma e presti attenzione a quello che sto per comunicarle.

    Nel marzo del 1972 e nell’aprile del 1973 la NASA lanciò nello spazio due sonde chiamate rispettivamente Pioneer 10 e Pioneer 11. Il progetto era finalizzato, oltre che all’esplorazione del sistema solare, a portare a conoscenza di un’eventuale civiltà aliena l’esistenza del nostro pianeta. Infatti trasportavano a bordo la piastra d’oro su cui erano riportate, in forma schematica, le figure di un uomo, di una donna e del nostro sistema solare.

    La Pioneer 11 concluse la sua missione nel Settembre del 1995, quando vennero captati gli ultimi segnali radio, prima di perdersi per sempre nell’immensità dello spazio.

    La Pioneer 10, invece, secondo le notizie ufficiali, lanciò il suo ultimo, debolissimo segnale nel gennaio del 2003, da una distanza pari a oltre il doppio quella fra il Sole e Plutone, per poi perdere ogni contatto con la terra.

    Altre due sonde, Voyager 1 e 2, furono lanciate nel 1977 da Cape Canaveral e tuttora hanno energia sufficiente per funzionare fino al 2020.

    Perdoni la piccola lezione di storia spaziale, ma è necessaria per farle comprendere quello che sto per rivelarle.

    La Pioneer 10 trasportava esseri umani.

    Immagino che a questo punto lei abbia intuito l’enormità dello scoop.

    Se vuole sapere il resto venga, questa sera alle 19:00, al 1475 di Garden Street di Titusville.

    La prego di non parlarne con nessuno e di essere puntuale.

    Kayla rimase a fissare il foglio virtuale. Poi, di nuovo senza che lei toccasse nulla, la pagina di testo si chiuse, si aprì una finestra che raffigurava una barra di caricamento e, infine, il computer si spense.

    Lo riaccese immediatamente, non riusciva a credere a quello che le stava succedendo. Inserì la password con le mani che le tremavano per l’eccitazione ma, quando apparve lo sfondo con la foto di lei e Michael, del documento Word non c’era più alcuna traccia e le e-mail ricevute quella mattina erano scomparse.

    Chi sei? si domandò.

    Staccò la presa di corrente, afferrò le chiavi della macchina da una mensola vicino alla porta, si infilò la giacca e uscì.

    Dopo pochi metri si fermò di colpo e tornò indietro, correndo.

    Non poteva uscire senza la sua pallina porta fortuna. Come prima cosa andò alla redazione del Sun, per avvisare che quel giorno non sarebbe stata in ufficio. Sapeva bene che i giornalisti sono curiosi per natura e che un’assenza ingiustificata avrebbe dato adito a pettegolezzi e congetture.

    Cosa che voleva evitare a tutti i costi.

    Una volta lì cercò Pamela, la sua collega «Per favore, dici tu al capo che sarò fuori tutto il giorno?» chiese.

    Cosi evito che il vecchio mi faccia domande alle quali non potrei rispondere valutava intanto tra sé e sé.

    «Devo fare un’intervista» si giustificò poi, cercando nascondere l’agitazione e di apparire il più calma e professionale possibile.

    L’altra soppesò per un po’ quella richiesta.

    «Certo, ma mi devi un favore» concesse, alla fine. Kayla la ringraziò e uscì a passo svelto, fingendo di non sentire che un collega la stava chiamando: non aveva tempo da perdere.

    CAPITOLO DUE

    Dopo quattrocento chilometri, tre soste e altrettanti caffè che l’avevano aiutata a restare concentrata alla guida, finalmente arrivò a Titusville.

    Era in anticipo di un’ora, ma non le dispiaceva affatto, anzi ne avrebbe approfittato per raccogliere le idee, prima di incontrare l’uomo misterioso, come lo aveva soprannominato.

    La sua mente però, come le accadeva sempre più spesso, non tardò a volare altrove e, dopo qualche minuto, si ritrovò a pensare a Michael.

    Avevano viaggiato molte volte insieme, quasi sempre in automobile: spesso partivano all’avventura, senza nemmeno fissare una meta precisa. Era Kayla a guidare, mentre Michael si lasciava andare ai ricordi e le raccontava di episodi che aveva vissuto da bambino o negli anni precedenti al loro incontro. Lei lo ascoltava rapita: c’erano sfumature del suo carattere e lati della sua vita che non conosceva, quindi prestava sempre molta attenzione alle sue parole. Talvolta lo interrompeva, approfittandone per fargli domande che la facevano sembrare un bambina curiosa.

    Una lacrima le rigò il volto. Ora non poteva lasciarsi andare, doveva rimanere lucida e concentrarsi su quanto le stava accadendo.

    Con uno sforzo e un sospiro ricacciò quei pensieri in un angolo segreto della mente: li avrebbe tirati fuori più tardi, in un luogo e in un’occasione in cui non avrebbe dovuto nascondere le lacrime.

    Titusville era una ridente cittadina all’ interno della Intracoastal Waterway, un sottile braccio di mare che separa una lunga fascia di isole costiere dall’entroterra della Florida.

    Un posto monotono che, come gran parte delle cittadine di provincia, si animava solo nelle grandi occasioni.

    Per Titusville l’evento più importante era il lancio dei missili.

    In quelle circostanze sciami di camperisti si davano appuntamento in città, parcheggiando le loro navi da strada sulle

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