Una mente come un diamante: Scritti su Thomas More
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Una mente come un diamante - Gilbert K. Chesterton
ROMA
PREFAZIONE
INVITO ALLA LETTURA DI THOMAS MORE E G. K. CHESTERTON
Vi sono per lo meno tre aspetti nei quali l’affinità tra Thomas More e Gilbert Keith Chesterton si mostra in modo chiaro e significativo.
Al centro del Dialogo del conforto nella tribolazione, che per molti è il capolavoro di Thomas More, si analizza la questione se lo scherzo e il gioco siano qualcosa di buono o non piuttosto tentazioni frivole. Si può dire che si tratta di una discussione fondamentale per More, perché affronta uno dei tratti più caratteristici della sua personalità. Erasmo da Rotterdam dice di lui che «fin dalla giovinezza provava un vero godimento quando ciò che si diceva, anche se diretto contro di lui, era espresso in modo spiritoso: anche adesso ama molto le battute, a patto che abbiano mordente e siano veramente scintillanti d’arguzia» [1]. La questione sulla liceità dello scherzo e della battuta ha un valore prima di tutto esistenziale per Thomas More, che oltretutto fu accusato dai suoi avversari proprio di peccare di sarcasmo e di ironia orgogliosa.
La soluzione proposta da More si rifà ad Aristotele e a san Tommaso d’Aquino, e afferma che il gioco e lo scherzo sono qualcosa di lecito e anche necessario, a motivo della debolezza della nostra natura fragile. Le persone infatti di solito hanno poca resistenza per i discorsi troppo profondi, perché sentir parlare del Cielo troppo a lungo risulta pesante. A questo punto il testo contiene un’affermazione fatta per inciso: come se il Cielo fosse pesantezza («as though heaven were heaviness» [2]).
In questo gioco di parole si può trovare un primo punto di incontro tra Thomas More e Chesterton. La leggerezza con la quale guardare sé stessi e quindi il non prendersi troppo sul serio è una virtù essenziale nella creatura, che è limitata e dipendente in tutto dal suo Creatore. La leggerezza è una virtù, mentre la serietà spesso è un vizio, afferma altrove con convinzione Chesterton: «Satana è caduto per forza di gravità» [3]. E anche More confessa a più riprese la sua speranza di trovare in Cielo un luogo dove le anime «torneranno nei loro corpi con una risata piena, che durerà in eterno» [4]. Ma la leggerezza è anche una caratteristica del Creatore, che ride in cielo
(Sal 2) e desidera condividere la sua gioia con ogni sua creatura. «Si potrebbe ragionevolmente affermare che il vero obiettivo dell’intera vita umana sia il gioco. La terra è un giardino da lavorare, il cielo è un campo da gioco» [5]. In queste parole di Chesterton sembra proprio di sentire un’eco della riflessione teoretica di Thomas More.
Un altro aspetto in cui si rintraccia una speciale sintonia tra Chesterton e More si trova in un passo di Ortodossia, che offre una definizione folgorante della tradizione intesa come la democrazia estesa nel tempo
, perché non tiene in considerazione soltanto il parere dei vivi; al contrario, la tradizione è proprio la democrazia dei morti
, che permette che la verità non resti in balia degli interessi di parte di un determinato gruppo di potere. «La tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che si trovano nella fortuita circostanza di essere vivi. I democratici affermano l’idea che una persona, per la fortuita circostanza di essere nata, non possa essere squalificata; la tradizione afferma che nessuno può essere squalificato per il fatto accidentale di essere morto» [6].
Di nuovo tornano alla memoria le parole di More nella coraggiosa perorazione durante il processo per tradimento. Come può un uomo singolo, per giunta laico, opporre il suo parere, il giudizio della sua coscienza, a quello di centinaia di ecclesiastici, intellettuali e nobili di tutto il Regno di Inghilterra? La risposta di More merita di essere riportata per intero: «Non dubito che – se non in questa nazione in tutto il resto della Cristianità – fra i Vescovi di più vasta dottrina e le persone di più alta virtù tuttora viventi, coloro che hanno la mia stessa opinione siano in minoranza. Ma se io dovessi riferirmi a coloro che sono già morti, molti dei quali sono ora santi in Paradiso, ho l’assoluta certezza che durante la vita terrena la grande maggioranza di essi pensavano riguardo a questo punto esattamente come penso io in questo momento. Pertanto, mio signore, io non mi sento obbligato a conformare la mia coscienza al Consiglio di un solo regno contro il Grande Consiglio dell’intera Cristianità» [7].
La tradizione non è rinchiusa nelle frontiere di uno Stato o nei limiti di un’epoca determinata. Può succedere, e di fatto così avvenne con Thomas More, che «un semplice laico, un semplice fedele – in grazia della fedeltà personale all'intera e unica tradizione della verità in tutto il corpo della Chiesa, dal quale non si separa mai – possa testimoniare verità che molti vescovi in un dato luogo e in un dato tempo non si saranno mostrati capaci di difendere o persino anche solo di esprimere» [8].
C’è almeno un altro punto essenziale, che Thomas More sembra avere in comune con Chesterton. Si tratta di un aspetto in cui l’attualità di entrambi si fa ancora più patente negli accesi dibattiti che attraversano oggi il mondo della cultura, della scienza e della politica (a volte anche all’interno della Chiesa). È la centralità dell’amicizia nella vita umana e quindi nella società, dell’affetto che supera ogni distinzione di ideologia e di gruppo, in definitiva la preminenza della carità come metodo e contenuto di ogni azione sociale e politica.
Due esempi, tra i tanti. Dopo l’emanazione della sentenza di morte, quando ormai era esclusa ogni possibilità di appello, le parole di Thomas More furono colme di affetto verso coloro che l’avevano appena condannato. Senza l’ombra di un rancore, More ricorda che san Paolo aveva approvato la condanna di santo Stefano, eppure adesso si trova in cielo con lui, «e là resteranno uniti per sempre», e aggiunge che «allo stesso modo io spero (e pregherò intensamente per questo) che io e voi, miei signori, che siete stati miei giudici e mi avete condannato sulla terra, possiamo tutti insieme ritrovarci con gioia in cielo per la nostra salvezza eterna» [9]. È noto che Chesterton polemizzò pubblicamente con diversi intellettuali che facevano professione di ateismo, che affermavano la necessità dell’eugenetica, che dichiaravano assurdo affermare l’esistenza di una verità, che insomma si trovavano in totale disaccordo con lui su temi essenziali. Il giorno dopo la morte di Chesterton, il suo acerrimo nemico-amico G. B. Shaw scriveva alla vedova: «se lei avesse una qualsiasi complicazione di ordine pratico che io potessi rimuovere, sarebbe sufficiente da parte sua una riga (o tre cifre) scritte su una cartolina». E pare che un altro grande avversario di decine di polemiche pubbliche e private, H. G. Wells, il giorno del funerale di Chesterton abbia affermato che «se mai andrò in paradiso, ammesso che esista un paradiso, sarà grazie all'intervento di Gilbert Chesterton» (e forse non sarà un caso che l’ateo Wells, pensando all'amico defunto, non riuscisse a fare a meno di riferirsi al Paradiso) [10].
Che l’affetto e l’amicizia possano superare qualsiasi distanza ideologica è una lezione di grande attualità, in particolare in tempi nei quali lo scontro ad alcuni sembra essere l’unico modo per far valere le proprie ragioni. La missione apostolica contenuta in modo così chiaro nel Vangelo invita invece a non separare mai la chiamata a essere luce del mondo
dal comandamento universale dell’amore, che non è rivolto all'umanità considerata in astratto, ma ad ogni persona che si incontra, compresa quella che sembra essere più distante ideologicamente dal proprio punto di vista. E forse la lezione più attuale che si può trarre da More e da Chesterton è proprio che l’amicizia, unita alla leggerezza e all'umiltà di fronte ai propri punti di vista e all'insegnamento della tradizione, è la via per portare la luce (e la gioia) del Vangelo al mondo. Messaggio di grande attualità nei nostri tempi, che non sembrano essere più difficili di quelli dell’Inghilterra del XVI secolo o dell’Europa tra le due Guerre.
Ben altri studi sarebbero necessari e sono auspicabili per documentare la sintonia tra Thomas More e G. K. Chesterton. L’edizione italiana di tutti gli interventi di Chesterton sul grande santo e martire inglese è un evento che va salutato con gioia (e gratitudine per il curatore e l’editore) proprio con la speranza che possa favorire una fioritura di ulteriori approfondimenti.
Carlo De Marchi
Pontificia Università della Santa Croce
Roma, 22 giugno 2015
[1] Erasmo da Rotterdam, Lettera a Hutten, Collected Works of Erasmus, vol. 7, Toronto University Press, Toronto 1974, pp. 18-19; la lettera a Ulrich von Hutten è la n. 999, del 23 luglio 1519.
[2] T. More, Dialogo del conforto nella tribolazione, a cura di M. Nicoletti, Rubbettino, 2011, II, 1, p. 151.
[3] G. K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, pp. 165-166 (cap. VII, La rivoluzione eterna
).
[4] T. More, Il Dialogo del conforto nelle tribolazioni, I, 13 (42/2-8).
[5] G. K. Chesterton, All things Considered, New York 1909, p. 96 (cap. Oxford from Without
).
[6] G. K. Chesterton, Ortodossia, pp. 66-67 (cap. IV, La morale delle favole
).
[7] W. Roper, Vita di Sir Thomas More, Fontana di Trevi Edizioni, Roma 2013, p. 91.
[8] L. Bouyer, Tommaso Moro, umanista e martire, Jaca Book, Milano 19942, pp. 78-79.
[9] W. Roper, Vita di Sir Thomas More, cit., p. 92.
[10] Le citazioni di Shaw e Wells si trovano in I. Ker, G. K. Chesterton. A Biography, Oxford University Press, 2011, pp. 727-728. Ulteriori spunti bibliografici su questi temi si possono trovare in C. De Marchi, Thomas Aquinas, Thomas More and the Vindication of Humor as a Virtue: Eutrapelia and Iucunditas, «Moreana» vol. 52, 199-200 (June 2015), pp. 95-108.
INTRODUZIONE
Un procedimento noto alla ricerca storiografica, particolarmente utile quando si studiano i personaggi storici, è quello di mettere in relazione i loro vissuti con quelli di altri allo scopo di trovare corrispondenze intellettuali, sintonie o distonie in grado di arricchire la ricerca stessa.
Lo studio e la devozione di un uomo come Thomas More la cui fama e il cui esempio hanno acquistato ormai una vastità universale non poteva non condurmi a quei giganti della cultura e della letteratura inglese dei primi anni del novecento che non hanno nascosto la loro fede ma con fierezza ne hanno fatto un vessillo di rinnovamento della società inglese ed europea.
Chissà perché Thomas More mi condusse a G. K. Chesterton che quanto a grandezza non solo intellettuale è inferiore a pochi.
La mia conoscenza del gigante inglese era alquanto superficiale, ma la sua profezia su Thomas More – più importante oggi che in qualunque altro tempo fin dalla sua morte, forse anche più che del grande momento del suo morire, ma non è ancora così importante come sarà tra un centinaio di anni – mi aveva sempre particolarmente colpito, anche se a livello epidermico non avendone mai seriamente approfondito il senso. Cionondimento aveva occupato nel mio cuore uno spazio che un giorno sentivo di dover sicuramente riempire.
Quando questo giorno ha trovato finalmente la sua alba ho iniziato, con molto rispetto e gradualità, a muovere i primi passi nel vasto mondo chestertoniano dell’Uomo Vivo [1]. Un mare sterminato di libri paragonabili ad una bibliografia di tipo agostiniano o erasmiano tale da disorientare anche il più esperto dei bibliotecari benedettini.
Chesterton è stato giornalista, polemista e scrittore fertilissimo; in trent’anni ha infatti scritto quasi cento libri tra saggi e biografie, composto poesie, opere teatrali, romanzi, racconti brevi, un numero difficilmente calcolabile di articoli di giornale e partecipato a numerose dispute con H. G.