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L'uomo di Montevecchio: La vita pubblica e privata di Giovanni Antonio Sanna il più importante industriale minerario dell´Ottocento
L'uomo di Montevecchio: La vita pubblica e privata di Giovanni Antonio Sanna il più importante industriale minerario dell´Ottocento
L'uomo di Montevecchio: La vita pubblica e privata di Giovanni Antonio Sanna il più importante industriale minerario dell´Ottocento
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L'uomo di Montevecchio: La vita pubblica e privata di Giovanni Antonio Sanna il più importante industriale minerario dell´Ottocento

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2° classificato al Premio Letterario "Francesco Alziator" ed. 2010, sezione "saggistica"
Storia di un capitano coraggioso: Giovanni Antonio Sanna, l´uomo di Montevecchio, è stato il più importante industriale minerario dell´Ottocento. Giornalista, editore, deputato progressista, capace di non mischiare mai affari e politica. Il lavoro di Paolo Fadda, che si sviluppa come un racconto, ci restituisce un protagonista assoluto, ingiustamente trascurato, della storia della Sardegna.
LanguageItaliano
Release dateMay 20, 2016
ISBN9788871387741
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    L'uomo di Montevecchio - FADDA PAOLO

    Paolo Fadda

    L’uomo di Montevecchio

    La vita pubblica e privata di Giovanni Antonio Sanna

    il più importante industriale minerario dell’Ottocento

    (Sassari 1819-Roma 1875)

    © Copyright by Carlo Delfino editore

    Via Caniga, 29/b - 07100 Sassari

    Tel. 079 262661 - Fax 079 261926

    info@carlodelfinoeditore.it

    www.carlodelfinoeditore.it

    Premessa

    Di Giovanni Antonio Sanna, nonostante la sua straordinaria notorietà come uno dei maggiori imprenditori dell’Ottocento risorgimentale non esiste tuttora una sua completa ed accurata biografia. Molte sue notizie sono pervenute dalle vicende industriali della società mineraria di Montevecchio di cui ne fu l’avveduto e coraggioso iniziatore e, per un quarto di secolo il grande e potente patron. Ma della sua vita, soprattutto del suo privato, si è sempre saputo assai poco.

    Soltanto la figlia Ignazia ne pubblicò nel 1914 una succinta e parziale biografia, che aveva peraltro lo scopo principale di dover essere una sorta d’atto d’accusa nei confronti dei cognati che, a suo dire, avevano fatto di tutto per cancellare i meriti ed i successi del padre. Per quel che s’è appreso da un ricordo dell’avvocato Michele Saba, pubblicato su L’Unione Sarda del 2 gennaio del 1938, quel libro venne formalmente scritto da un giornalista calabrese «asceso poi al laticlavio e conosciuto meglio collo pseudonimo del giovane studente provinciale creatura di Vautrin, nella Commedia Umana di Balzac».

    Sanna comunque, andando al di là di quell’interessata agiografia filiale, fu un uomo di grande ingegno e di attività instancabili (risultò essere certamente l’industriale italiano più ricco della seconda metà dell’Ottocento) che rimase però poco ricordato e molto ignoto ai sardi (e non solo). Di lui scrisse qualcosa anche Dionigi Scano che ne ricordò la figura ed i meriti, raccogliendo soprattutto le informazioni avute dall’ingegner Giorgino Asproni che, del Sanna, fu collaboratore attivissimo oltre che parente.

    Di lui, e dei suoi successi imprenditoriali, si sarebbe interessato anche il giornalista sassarese Francesco Spanu-Satta, ma – per la verità – quel suo saggio, pur ricco di molte notizie sulla sua vita, non può ritenersi una vera biografia.

    Si dirà che anche sulle sue vicende – tormentate e discusse quant’altre mai – si sono sommate negli anni notevoli imprecisioni (frutto certamente delle tante erronee notizie circolate sul suo conto), tant’è che anche sulla data della sua morte – se nella tarda sera del 9 o nelle prime ore della mattina del 10 febbraio 1875 – rimarrà per lungo tempo l’ombra del dubbio.

    Ora, questa biografia cerca di colmare quelle lacune, cercando di far piena luce sulla straordinaria personalità di quest’uomo, vero self-made-man secondo la dizione capitalistica, che può essere ritenuto il primo, e più grande esponente di quel piccolo nucleo di capitani coraggiosi che annovera la storia imprenditoriale della Sardegna.

    Debbo dire che la curiosità di saper tutto su Giovanni Antonio Sanna m’era sorta diversi anni or sono per avere avuto per le mani, e di leggere, un breve scritto di Dionigi Scano (pubblicato postumo con il titolo di Scritti inediti negli anni ‘50 del Novecento) che, accennando alle sue straordinarie performance di industriale minerario, annotava, malinconicamente, che pochi in Sardegna sanno dirvi chi è stato Giovanni Antonio Sanna.

    Quasi negli stessi anni, mettendo ordine fra le carte del mio nonno materno (Stanislao Scano, fratello di Dionigi), m’imbattei in quel pamphlet che Ignazia Sanna scrisse nel 1914 in ricordo del padre, ma principalmente come atto d’accusa verso l’ex marito Gianmaria Solinas ed i cognati Guerrazzi, Giordano e Castoldi che ne avrebbero tradito la memoria e usurpato e celato i meriti.

    Ecco: a queste due prime e fortuite circostanze, che accesero la mia curiosità di voler conoscere, come s’ama dire, vita, morte e miracoli di quello straordinario ma ignorato personaggio della storia isolana, debbo la conoscenza di un uomo che, per avergli dedicato un museo a Sassari per molti poteva essere, che so, un illustre archeologo, un nobile cittadino od un generoso filantropo.

    Da allora, ma soprattutto nel periodo in cui professionalmente ebbi familiarità e dimestichezza con le miniere sarde e la sua gente (diciamo nel decennio a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70 sempre del secolo scorso), la figura di Sanna, di quel che fece ed ottenne industrialmente e patrimonialmente nella miniera di Montevecchio, mi avrebbe affascinato ed incuriosito sempre di più. Più d’uno – ricordo – mi raccontò, in una delle frequenti mie visite ai cantieri minerari, aneddoti e curiosità della sua vita avventurosa e delle tante trappole a cui dovette sfuggire (oltre a sottolinearmi l’ingenerosità di figlie e generi che attesero cinquant’anni per dargli degna sepoltura a Sassari come lui aveva richiesto, e quasi sessanta per aprire il museo che aveva donato testamentariamente alla sua città natale).

    Di lui, comunque, scrissi un appassionato ricordo in un mio libro del 1990 (Alla ricerca di capitali coraggiosi, il titolo) dedicato ai personaggi di cui la Sardegna industriale ha il dovere di mantenerne il ricordo, in cui volli annotare come la sua vita fosse stata un vero e proprio romanzo d’avventura: ricca come s’intuiva di un alternarsi di vicende fortunate e di improvvise sventure, di vittorie e di sconfitte, che solo la sua tenace determinazione era riuscita a dominare, consegnandolo alla storia come un vittorioso. Non mi arresi neppure di fronte ai molti lati oscuri, ed alle molte imprecisioni che ne indicavano la vita: dalla data di nascita a quella della morte, fino ai perché fosse andato a cercar fortuna a Marsiglia o come fosse riuscito, senza soldi, a divenire azionista, e di fatto proprietario, della miniera di Montevecchio.

    Ora, senza voler dare troppo credito alle accuse della figlia Ignazia, pare certo che gli eredi fecero di tutto per occultarne o per dimenticarne la memoria. Forse, o senza forse, perché la sua figura di grand’uomo appariva troppo ingombrante, ed anche fastidiosa, per chi – avendone ricevuto la cospicua eredità – altro non si sarebbe dimostrato che d’essere un piccol’uomo (solo un mes’homini, per dirla alla sarda).

    Averne potuto scrivere una completa ed attenta biografia è stata ora resa possibile principalmente per la disponibilità dell’importante fondo documentario che la famiglia Sanna Castoldi – erede del grande Giovanni Antonio – ha fatto avere al professor Ilio Salvadori, che fu dirigente della Montevecchio, e da questi messo a disposizione del Comune di Arbus perché, riordinato, se ne possa avere una pubblica fruibilità. E, ancora, dai preziosissimi diari di Giorgio Asproni che hanno consentito di conoscere molti aspetti della vita privata e politica di un uomo che in vita rimase sempre legato da grande amicizia, e da intensa frequentazione, con il grande bittese. Sono stati poi utilissimi gli scritti storici riguardanti le vicende parlamentari degli anni pre-unitari e post-unitari, oltre alla consultazione di giornali, riviste, opuscoli e memorie che hanno aiutato a mettere insieme ed a ridare ordine alle sparse e disperse tessere di un vero e proprio puzzle.

    Quel che s’è scritto ha anche, per certi aspetti, le scansioni di un romanzo, proprio perché la vita avventurosa del Sanna, con le sue intricate e intriganti vicende, può ben essere inteso come il canovaccio per un romanzo che, come i Buddenbrook di Thomas Mann, sia in grado di offrire uno spaccato sulla società borghese e capitalistica di quell’Ottocento risorgimentale. Con i suoi vizi e le sue virtù.

    Quel che si offre al lettore è dunque il racconto di una vita avventurosa, costruito mettendo insieme i tanti piccoli frammenti di testimonianze (lettere, appunti, pagine di diario, ritagli di giornali, ecc.) per dare unità alle tante vicende – talune anche tanto curiose da apparire parto della fantasia – così da far ritenere che sia più un romanzo che una biografia. Ora, che sia un romanzo biografico o una biografia romanzata poco interessa: quel che occorre assicurare al lettore è che tutto quel che si racconta sulla vita di questo grande personaggio lo si è fatto nel pieno rispetto della verità fattuale.

    Con una sola eccezione che impone questa precisazione finale. È frutto infatti di fantasia, seppure non troppo lontana dal vero, il fatto che a motivare l’autore di questa attenta ricostruzione della vita del Sanna sia stato il ritrovamento, per puro caso, dell’appunto di quel giornalista calabrese sui colloqui avuti con la figlia Ignazia a Fiuggi, ed il conseguente impegno di volerne ricostruire, nel rispetto della verità, la biografia. Si è trattato di un espediente di fantasia – vale confessarlo – proprio perché da quanto raccontato da Ignazia, con i tanti suoi omissis, è comunque nata l’esigenza di meglio conoscere la vera personalità, così controversa nei ricordi soprattutto familiari, di questo grande sardo, autentico capitano d’industria.

    Capitolo primo

    Montevecchio è una località al confine tra i territori di Guspini ed Arbus, in quella parte della Sardegna sud-occidentale che è stata – negli anni compresi fra metà Ottocento e metà Novecento – la culla dell’industria mineraria italiana ed uno dei più importanti distretti minerari d’Europa.

    Basterebbe tenere a mente che vi si produceva, per estrazione dal sottosuolo in una ventina di siti minerari, quasi il 22 per cento dello zinco europeo ed oltre il 7 per cento del piombo. Dando occupazione a quasi 18 mila lavoratori.

    Il toponimo – Monte Vecchio – è poi abituale nei luoghi minerari d’Europa, sol che si pensi alla Vieille Montagne francofona od alla Alten berg sassone, luoghi anch’essi ricchi di minerali metalliferi.

    L’impresa mineraria di Montevecchio, con i suoi quattro cantieri d’estrazione sparsi in oltre 1200 ettari di territorio, poteva considerarsi allora la prima, e forse la più ricca (per valore delle produzioni e per entità dei profitti), fra le società industriali del Regno sabaudo.

    Ed è proprio qui a Montevecchio che avrei incontrato, in un pomeriggio d’aprile di diversi anni fa, un caro amico – anche lui ben avanti negli anni – che qui aveva lavorato e vissuto. Qui vi aveva dedicato un tempo importante della sua vita che avrebbe rappresentato – per dirla con le sue parole – un forte innamoramento con questi luoghi, perché la miniera – avrebbe aggiunto – è capace di ammaliarti e conquistarti come una Circe sempre più maga conquistatrice. «Il nostro – mi dice – è più che un mestiere, una passione che devi saper coltivare con un affetto che sconfina in una vero e proprio fanatismo e che molto spesso è come un lascito ereditario: anche mio padre e mio nonno – aggiunge – erano minatori».

    Così qui l’amico vi ritorna ogni tanto, per riaprire il baule dei ricordi, di quelli dei tempi delle vacche grasse ed anche di quelli più tristi e difficili, allorché il prezzo dei metalli scendeva precipitosamente al fixing di Londra. E tutt’attorno si faceva grigio, e la preoccupazione veniva su dal sottosuolo con le poche ceste di tout-venant.

    Non è un caso, quindi, che la miniera sia terra di leggenda, fertile di storie fantasiose ed incredibili come di maledizioni e di sventure, tanto da dar ragione a chi, come tzia Cicita Urru, la nonna dei minatori di qui, morì convinta che quel minerale, sottratto con violenza alle viscere del monte, altro non fosse che il castigo del diavolo, trasformandosi, per punizione, in sterco.

    A fianco all’amico avrei passeggiato a lungo, per sentirgli raccontare qualcosa della realtà mineraria, di quelle leggi di severa attenzione che ne regolavano la coltivazione (che era assai diversa da quella di sfruttamento, divenuta corrente nella parlata di molti): che era poi una legge di ragionata prudenza e di cauta previdenza, perché le bizzarrie dei filoni accrescono e moltiplicano il rischio d’impresa. Mi raccontò di bravi ingegneri e di azzardati geologi, di vacue utopie e di solide realtà, che qui s’alternarono nella storia passata. Ma Montevecchio – aggiunse con un sorriso – poche volte ha tradito i sogni ed i progetti degli uomini che vi hanno lavorato e penato. Ed è perciò che, per tanti, qui è nato il grande amore della vita, che va considerato come un sentimento, se non proprio religioso, certamente alto e nobile. E sono molti di queste parti, infatti, che parlano del lavoro in miniera come d’una vocazione, aborrendo quell’antica diceria che parlava d’una condanna, come quella che avrebbe colpito il povero pontefice Ponziano condannato ad metalla, proprio da queste parti, nelle fosse di piombo argentifero della Sardegna sud-occidentale.

    Ma da lui, dal profondo della sua memoria, intendo sapere qualcosa su chi, con il piombo e con lo zinco di Montevecchio, sarebbe diventato l’uomo più ricco del Regno d’Italia.

    Di lui, peraltro, non sapeva poi molto, oltre al nome – Giovanni Antonio Sanna – che un’iscrizione nella palazzina della direzione indicava come il fondatore della società e che sulla sua cospicua eredità si sarebbe svolta, per quasi mezzo secolo, una complessa saga familiare, con una conclusione che, per certi versi, poteva essere assimilata a quella dei Buddenbrook di Thomas Mann. Inoltre le fine della famiglia Sanna, come raccontavano i vecchi, era stata proprio una conclusione drammatica – quasi un tragico the end da filmone alla Cecil B.De Mille – che aveva rappresentato la conclusione di un’epoca, della belle epoque della borghesia europea.

    Su queste vicende familiari, un arguto ingegnere iglesiente m’aveva detto che la società di Montevecchio si sarebbe tramandata, dopo la morte del fondatore, più per generi che per generazioni, con ciò alludendo che al capo sarebbe succeduto il genero Alberto Castoldi ed a questi, ancora un genero, Solmann Bertolio.

    Ma, per la verità, non sarebbe stata una successione pacifica perché tra generi e figlie si sarebbe accesa una drammatica faida, fatta più di colpi bassi e proibiti che da pugni rispettosi della noble art, tanto da mandar sul tappeto del fallimento, negli anni Trenta del Novecento quella che era stata una delle più prestigiose società industriali del Paese.

    Tra l’altro, in un vecchio baule nella casa di vacanza di alcuni amici, in val di Fassa, avevo trovato un quaderno dalla copertina illustrante l’avventura colonialista in Libia, in cui qualcuno – forse un giornalista o qualcosa di simile – aveva annotato alcuni appunti su di un incontro con la contessa Ignazia Sanna, figlia del grande Giovann’Antonio.

    Quel che ho trovato lo trascrivo qui fedelmente:

    «Ho ancora davanti agli occhi, mio caro, l’immagine di mio padre che al braccio di un infermiere s’aggira come un automa tra le aiuole fiorite della nostra bella villa napoletana. Non mi posso dimenticare quel suo sguardo triste e spento, così diverso da quello che avevo sempre conosciuto, fin da bambina. Non sorrideva quasi più, né aveva piacere di parlarci, lui che era un conversatore instancabile ed affascinante…».

    L’elegante signora che ho davanti si ferma un attimo, s’asciuga le prime lacrime con un fazzolettino di fine batista, e mi guarda come fosse in attesa di riprendere il suo racconto. È donna Ignazia Sanna-Llambi, una delle proprietarie-eredi della grande miniera sarda di Montevecchio portata al successo dal padre Giovanni Antonio, morto ormai da una trentina d’anni a Roma, dopo una pur breve ma invalidante e grave infermità.

    Donna Ignazia è un’elegante settantenne, dai lineamenti severi addolciti da due occhi penetranti; forse non è mai stata una bella donna, almeno nel senso classico della definizione, soprattutto ora che tutto il suo personale appare un po’ goffo, in un certo senso indurito dal dolore e, forse, da una vita infelice. Ha però un qualcosa che attira, che ispira simpatia e che la rende attraente. Parla tre lingue correntemente, ed anche se non ha fatto studi regolari, ha acquisito, attraverso letture intelligenti, una buona cultura. Si capisce, da quel che racconta, che ha avuto per il padre un’ammirazione senza confini, mitizzandone oltre misura la figura e le opere ed odiandone quanti gli furono nemici e quanti profittatori delle sue ricchezze, tra i quali porrà in prima linea il proprio marito e quelli delle tre sorelle minori, Amelia, Enedina e Zely.

    Del Sanna se ne è parlato molto in questi anni, e non solo per i suoi successi come industriale e finanziere. Deputato nelle fila della sinistra di Depetris, amico dei due importanti Giuseppe del nostro Risorgimento (Mazzini e Garibaldi), è stato anche il proprietario dell’autorevole giornale Il Diritto, che era un po’ la voce polemica della Sinistra parlamentare. Un vero personaggio, quindi, della cui vita però non si sa molto.

    Incontro donna Ignazia in questo bell’hotel di Fiuggi in un tiepido fine settembre del 1912, poiché m’ha promesso di raccontarmi tutto (così ha più volte sottolineato) della vita avventurosa e coraggiosa del padre. Ignazia è la primogenita della famiglia ed è stata sposa, sfortunata e separata, del sassarese avvocato Giovanni Maria Solinas-Apostoli con cui va tuttora alimentando una tesissima lite giudiziaria.

    Qualche amico parlamentare m’aveva avvertito di andar cauto con i racconti di donna Ignazia in quanto aveva fama d’essere d’animo acido e rancoroso, anche perché molto irritata dal come si fosse proceduto alle sistemazioni ereditarie, soprattutto per via delle avide mene messe in atto dal marito e dai cognati ai danni, più che sulla vedova sua madre, sul generoso tesoro di Montevecchio. Una madre, donna Marietta Llambi, che non avrebbe tardato a seguire il marito nella tomba, vittima – come qualcuno disse – più delle amarezze e dell’abbandono subiti da generi e figlie che dal dolore per la scomparsa del suo compagno.

    Eppure quell’elegante signora che ho davanti a me pare essere dolcissima, nel tratto e nel discorrere, molto diversa dalle descrizioni ricevute. Qui alle Fonti è un po’ l’ospite d’onore, perché sono molti anni che vi passa la fine estate e le sue mance principesche fanno oltre che leggenda, attrazione e distinzione.

    Aggiungo, che conversare con lei è stato molto piacevole ed anche divertente: si è chiacchierato di tutto e su tutto, di teatro, di musica, di pittura ed anche un po’ di politica. La trovai molto favorevole all’ampliamento della base elettorale, con l’introduzione del suffragio universale, anche perché m’era apparsa molto contrariata dal fatto che – grazie al denaro di Montevecchio, come mi precisava – sia il marito che due cognati avessero trovato i pochi voti occorrenti per essere eletti al Parlamento dalla XIV legislatura: dai collegi sardi entrarono infatti a Montecitorio con Solinas-Apostoli, il marito di Enedina, Giuseppe Giordano, e quello di Zely, Alberto Castoldi.

    Quel che quello scritto conteneva era certo interessante, anche perché in passato m’erano passati per le mani dei giornali che parlavano delle continue liti intestine fra i diversi rami degli eredi Sanna, tanto che in cuor mio ritenevo di dover dare ragione a quanto detto da quella tzia Cicita Urru sui malefici contenuti, per mani del demonio, in quelle galene ed in quelle blende di Montevecchio.

    Da quella scoperta sono passati ormai tanti anni, e li ho trascorsi cercando di sapere di più di quell’uomo straordinario che certamente fu Giovanni Antonio Sanna. Perché fu importante non solo come imprenditore minerario, ma fu anche importante editore, potente banchiere, accanito polemista oltre che autorevole deputato della giovane sinistra mazziniana. Amico fraterno, fra l’altro, di Giorgio Asproni e di altri autorevoli uomini politici progressisti.

    Qualche anno fa, potrebbe essere il maggio del 1995, o forse del ‘96, in una rinomata trattoria di Firenze, dal Latini è scritto nell’insegna, mi trovai seduto a fianco di un anziano signore che, saputomi sardo, mi chiese notizie di Montevecchio, di quella miniera che era stato il grande sogno di alcuni suoi lontani parenti livornesi, che di cognome facevano Guerrazzi. Voleva sapere dei proprietari d’allora, parenti di quell’Amelia Sanna che era stata la moglie di un nipote del più famoso e noto dei Guerrazzi, Francesco Domenico.

    Venne poi a trovarmi in albergo, al Baglioni a due passi da Santa Maria Novella, e mi raccontò, grazie ad alcune lettere trovate fra le carte di casa, molti curiosi particolari di quella lite furiosa che avrebbe profondamente diviso i suoi avi Guerrazzi dal Sanna, per la proprietà della miniera e dei suoi tesori. In cambio voleva che gli raccontassi, come s’ama dire, vita, morte e miracoli di quel personaggio tanto odiato ed osteggiato quanto audace e caparbio.

    Gli raccontai quel poco che sapevo, ma gli promisi di scrivere una biografia completa di quell’uomo straordinario, della sua vita e delle sue imprese.

    Per la verità, man mano che procedevo nelle ricerche, mi trovai come smarrito di fronte alla congerie di fatti e di personaggi che con lui ebbero, in qualche modo, rapporti. Capii subito che ne sarebbe sortita una biografia alquanto romanzata, anche perché su certi episodi (come quello riguardante la ragione della sua presenza a Marsiglia o, ancora, sull’infermità che l’avrebbe condotto, appena cinquantacinquenne alla morte) sarebbero emersi molti dubbi e non sempre sarebbe stato facile separare la verità dalle dicerie. Perché l’uomo, al di là delle sue grandi qualità, fu in vita molto chiacchierato, e spesso a sproposito.

    Anche la lettura di quel pamphlet pubblicato dalla figlia Ignazia nel 1914 non riuscì a liberarmi dai tanti dubbi, proprio per via dei troppi omissis sui rapporti interfamiliari, divenuti sempre penosamente difficili e tali, come ebbi poi modo di accertare, da far sì che Giovanni Antonio avesse vissuto quasi completamente solo, in quel di Napoli, gli ultimi anni di vita. Perché, ben differentemente da come sostenuto dalla figlia, quei lunghi mesi trascorsi nell’eremo napoletano (praticamente dal settembre del 1872 fin quasi alla morte avvenuta a Roma nel febbraio del 1875) erano stati volutamente coperti dal silenzio, proprio per alcuni fatti di cui anche la stessa Ignazia avrebbe avuto qualche responsabilità non lieve.

    Pian piano, mettendo insieme le tante tessere sparse, riuscii a ricostruire la vita di questo personaggio che – come ne avrebbe scritto Dionigi Scano, storico ed intellettuale dai molteplici interessi – era stata più movimentata ed avventurosa d’un romanzo d’appendice.

    Quel che segue è quindi la storia d’un uomo straordinario nell’accezione più ampia che si può dare a quest’aggettivo (perché fu straordinario in tutto, nelle sue grandi iniziative imprenditoriali e nelle sue attività politico-parlamentari come nelle sue sanguigne inimicizie e nella raffinata volpinità con cui trattava gli affari. Ed anche nella patetica ed infelice fine dei suoi giorni).

    Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un uomo tozzo e ben piantato, dal fisico pesante come allora andava di moda (la ciccia, si diceva, è una prova di prosperità), d’una bellezza virile e dal portamento elegante. Dai comportamenti spesso prevaricanti ed anche boriosi, temperati però da un carattere brillante ed affabile (era, tra l’altro, un conversatore affascinante). Conquistato dal self-interest, avrebbe fatto del profitto, fosse di denaro od anche di prestigio, la molla del suo quotidiano operare. Anche per questo non fu molto amato, proprio perché riteneva di poter comperare tutto con il denaro, fossero amori, potere o riconoscenza (la stessa famiglia, attraverso la scelta dei generi, volle costruirla con la forza del denaro, ignorando che è molto spesso nient’altro che sterco del diavolo). Anche per questo rimase un uomo solo, incapace di mantenere legami d’amicizia e d’affetto (ci sono, in questo, delle amare conferme nelle pagine di diario di Giorgio Asproni, che pure gli volle un gran bene).

    Un uomo che, non diversamente dal Johann Buddenbrook del Mann, crederà ciecamente nel denaro come puro

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