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Le corti marziali di Salò: I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945)
Le corti marziali di Salò: I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945)
Le corti marziali di Salò: I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945)
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Le corti marziali di Salò: I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945)

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Chi erano i giudici militari della Repubblica Sociale Italiana? Convinti fascisti, oppositori al regime o piuttosto rigidi burocrati indifferenti ai cambiamenti politici? Quale fu il loro destino dopo la Liberazione? Basandosi sulle sentenze e i fascicoli processuali rinvenuti presso i fondi dei Tribunali militari della RSI, il libro ricostruisce l'opera delle corti marziali, evidenziando il funzionamento della giustizia militare dopo l'8 settembre del 1943, quando tali tribunali giudicarono, spesso in modo sommario, soldati, civili accusati di reati comuni e militari, oppositori politici e partigiani.
Il volume analizza, inoltre, il dilagante fenomeno delle diserzioni nella RSI, argomento poco approfondito dalla storiografia e che in questa sede viene indagato soprattutto attraverso lo spoglio dei documenti prodotti dai tribunali militari ordinari e straordinari.
Si interroga, infine, sul destino dei giudici militari, nel momento in cui il loro operato e le loro responsabilità, soprattutto nei confronti dei condannati alla pena capitale, furono passati al vaglio delle Corti d'Assise Straordinarie, nate dopo la guerra per giudicare i collaborazionisti col fascismo.
LanguageItaliano
Release dateJun 15, 2016
ISBN9788897264866
Le corti marziali di Salò: I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945)

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    Le corti marziali di Salò - Samuele Tieghi

    Colophon

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2015 Oltre edizioni

    ISBN 9788897264866

    Titolo originale dell’opera:

    *Le corti marziali di Salò*

    di Samuele Tieghi

    Collana *passato prossimo

    diretta da Edoardo Bressan

    Prima edizione giugno 2016

    Sommario

    Introduzione

    1. La giustizia militare di Salò

    1.1. Giustizia militare: pregiudizi e questioni storiografiche

    1.2. La giustizia militare italiana tra il 1940 e

    la caduta del fascismo

    1.2.1. Le competenze dei tribunali militari sui civili. La mobilitazione e la precettazione dei civili in Italia durante il conflitto (1940 – 1943)

    1.3. L’8 settembre della giustizia militare

    1.3.1. La situazione della magistratura militare

    nella primavera – estate del 1943

    1.3.2. La giustizia militare nei 45 giorni.

    Il caso del Tribunale militare di guerra di Milano

    1.4. La giustizia militare tra l’8 settembre e la nascita della Repubblica sociale italiana

    1.5. Le ingerenze tedesche nella giustizia militare italiana

    1.6. I Tribunali militari regionali di guerra

    1.7. Rinaldo Vassia e il senso della giustizia militare

    1.8. Le preoccupazioni di Buffarini Guidi

    2. Giudici e imputati

    2.1. L’organizzazione della giustizia militare nella RSI

    2.1.1. La giustizia militare repubblicana e la situazione bellica

    2.1.2. Ulteriori modifiche delle competenze territoriali e giuridiche dei tribunali militari (marzo 1944 – aprile 1945)

    2.2. Il Tribunale militare regionale di guerra di Milano

    2.2.1. I difficili inizi dell’attività del Tribunale militare di Milano

    2.3. L’attività istruttoria e l’organizzazione della Procura militare di Milano

    2.3.1. L’attività investigativa e istruttoria nelle procure militari

    2.3.2. L’attività investigativa e istruttoria nei fascicoli processuali del Tribunale militare regionale di guerra di Milano

    2.3.3. L’Ufficio mobilitati civili della Procura militare di Milano e le questioni di ordine pubblico

    2.3.4. I rapporti con San Vittore

    2.3.5. Stress da corte marziale. Nevrosi e malattie da causa di servizio dei magistrati militari

    3. Giudici e imputati

    3.1. Lo svolgimento del processo penale militare

    3.2. I collegi giudicanti milanesi

    3.2.1. La composizione dei collegi giudicanti milanesi

    3.2.2. Le prime sentenze del Tribunale militare di Milano

    3.3. Le sentenze

    3.3.1. L’attività giudicante del Tribunale militare di Milano da gennaio 1944 a aprile 1945

    3.3.2. I giudizi per decreto

    3.3.3. Le sentenze da gennaio a maggio 1944

    3.3.4. Le sentenze da maggio a settembre 1944

    3.3.5. Le sentenze da settembre a dicembre 1944

    3.3.6. Le sentenze da gennaio a aprile 1945

    3.3.7. Sofo Borghese: l’equilibrismo di un ufficiale togato

    4. Giudici e disertori

    4.1. Il fenomeno delle diserzioni nella RSI

    4.1.1 Un esercito inaffidabile

    4.1.2 Lo scontro tra Stato maggiore e Procura militare. Le dimissioni di Ovidio Ciancarini

    4.1.3 La giustizia militare repubblicana tra repressione e tolleranza. Il pungolo di Togliatti

    4.1.4 I provvedimenti legislativi sulle diserzioni dopo il 18 febbraio

    4.1.5 Casistica della diserzione nella RSI attraverso i documenti dell’Ufficio diserzioni del Tribunale militare di Milano

    4.2 Le indagini sui disertori

    4.2.1. L’Ufficio diserzioni del Tribunale militare di guerra di Milano

    4.2.2 Renitenti e disertori in Lombardia

    5. Giudici e partigiani

    5.1. I processi contro i partigiani

    5.1.1. La giustizia militare straordinaria nella repressione dei primi fenomeni resistenziali. Alcuni casi lombardi

    5.1.2. I processi dell’11 gennaio 1945

    5.1.3. I processi del 12 gennaio 1945

    5.1.4. Il processo del 13 gennaio 1945

    5.1.5. Il processo del 26 gennaio 1945

    5.1.6. Gappisti alla sbarra

    5.1.7. Il processo per l’attacco al campo di aviazione di Arcore

    5.2. L’ultima sentenza

    5.3. Storia di un’epurazione mancata

    5.4. Le sentenze della Corte di assise straordinaria. Il caso Spoleti, Libois e Centonze

    Conclusioni

    BIBLIOGRAFIA

    Monografie

    Estratti

    Fonti archivistiche

    RINGRAZIAMENTI

    A Carmela, con sincera gratitudine

    Introduzione

    In un famoso libro del 1968 dal titolo emblematico Plotone d’esecuzione, i due autori, Enzo Forcella e Alberto Monticone, parlando della giustizia, sostengono che essa durante i periodi di guerra, mantenga la propria oggettività in modo parziale. A subire un ridimensionamento in detti momenti è, in primo luogo, la certezza del diritto.

    In una società dove tutti gli sforzi sono volti verso la vittoria contro il nemico esterno e interno, il compito del magistrato militare non è tanto quello di accertare la verità, determinando le responsabilità di chi ha commesso il reato, quanto quello di dare degli esempi, assicurando soprattutto il rispetto della disciplina. Il giudice deve pertanto riaffermare la volontà della parte che ha deciso la guerra e che intende con ogni mezzo portarla a buon fine. Il concetto del potere come violenza socializzata trova qui la sua più convincente applicazione¹.

    Effettivamente le corti marziali nella storia nazionale non beneficiarono mai di particolare prestigio. In parte per le ragioni sopra riportate e in parte perché le leggi militari non furono impiegate solo per giudicare i reati commessi da militari, ma ampiamente utilizzate per arginare e sopprimere disordini, insurrezioni, sollevazioni, diventando così uno strumento formidabile in momenti di particolare necessità. I giudici militari intervennero per riportare l’ordine pubblico quando il dissenso politico (ad esempio, i moti socialisti di fine Ottocento) o l’emergenza sociale (ad esempio, il Brigantaggio) rendevano necessario il loro intervento.

    Se tale utilizzo fu largamente diffuso nei periodi di pace, non può sorprendere che, durante le guerre, specie mondiali, le corti marziali divenissero lo strumento principale per controllare e intimidire un esercito di massa, non solo con il fine di sanzionare coloro che contravvenivano le leggi militari, quanto come deterrente nei confronti di disertori e disfattisti.

    Ciò fu chiaro specialmente durante il primo conflitto mondiale, quando il diritto penale militare fu utilizzato con maggiore frequenza, soprattutto per arginare i numerosi casi di diserzione, insubordinazione e ammutinamento, alla cui base spesso vi erano le terribili condizioni della guerra di trincea e il prolungarsi del conflitto; in ogni caso i giudici militari non esitarono a farsi rigidi interpreti del Codice penale militare, sostenuti in questo anche dalla ridda di circolari, ordinanze e decreti emanati dalle autorità militari che li autorizzavano in tal senso.

    La giustizia militare tornò ad essere strumento meramente repressivo assecondando la tendenza dei comandanti militari nell’utilizzare indiscriminatamente esecuzioni sommarie e decimazione dei reparti. La storiografia, per quanto concerne questo argomento, ha iniziato la sua ricerca a partire dal già citato lavoro di Enzo Forcella e Alberto Monticone, meritevole di essere stato tra i primi a indagare su tale fenomeno, mettendo in luce dati, ragioni e responsabilità dell’impiego non sempre opportuno della giustizia militare².

    L’oblio storiografico calò nuovamente sulle vicende giudiziarie militari della Seconda guerra mondiale, nonostante la giustizia militare avesse subito prima e durante il conflitto, trasformazioni e cambiamenti sostanziali, ampiamente dimostrati dalle riforme dei codici penali militari e dall’acceso dibattito che le accompagnarono.

    La giustizia militare nel corso del secondo conflitto mondiale fu impegnata in un numero enorme di processi, che spesso si concludevano con condanne particolarmente pesanti, anche se raramente alla pena capitale. Fu proprio il minore ricorso all’utilizzo del plotone d’esecuzione dei giudici militari italiani rispetto ai colleghi del ‘15-‘18, a conferire loro un’immagine diversa. Infine, l’assenza di punte repressive sembra aver alimentato il disinteresse della storiografia, che ha finito col comprendere il periodo successivo all’8 settembre 1943, quando anche la giustizia militare riprodusse specularmente la spaccatura nazionale venuta a crearsi con la nascita della Repubblica sociale italiana.

    Intendiamoci, sulla Repubblica di Salò s’è scritto molto; eppure la ricerca storica che pur si è soffermata su molteplici aspetti, si è trattenuta solo superficialmente sulla giustizia militare in sé, accontentandosi di vedere nei giudici militari unicamente dei meri esecutori delle disposizioni di un governo e di un esercito asserviti alla volontà dell’occupante tedesco. In questo miope giudizio non si sono viste, o non si sono volute vedere, le linee di continuità che legavano la magistratura militare repubblichina a quella del precedente regime, dimenticandosi che i giudici militari della RSI erano, nella maggior parte dei casi, gli stessi magistrati del regio esercito e che da esso avevano ereditato i codici e le leggi militari.

    Il presente lavoro ha lo scopo di contribuire a fare chiarezza su questo argomento, cercando di rintracciare gli eventi più rilevanti, nel tentativo di disegnare un quadro d’insieme della giustizia militare della RSI. Al contempo, la dimensione generale è stata ulteriormente arricchita dalle vicende particolari accadute presso uno dei principali tribunali militari in funzione nell’Italia occupata, il Tribunale militare regionale di guerra di Milano (nuova denominazione dei tribunali militari territoriali in funzione prima dell’8 settembre 1943). La ricostruzione di questi eventi è stata possibile grazie allo studio sistematico delle carte del Tribunale, conservate presso l’Archivio di Stato di Milano, finora del tutto inesplorate.

    Pertanto, la dimensione archivistica di questo lavoro non è affatto trascurabile, anzi possiamo affermare, senza timore di smentita, che essa abbia giocato un ruolo fondamentale per il buon esito della ricerca.

    D’altra parte proprio l’assenza di pubblicazioni sulla giustizia militare della Repubblica sociale italiana ha posto come necessità prioritaria l’indagine documentaria attraverso il reperimento di fonti conservate presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma (ACS), l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma (AUSSME), l’Archivio di Stato di Milano (ASMi) e il Centro Documentale del Distretto militare di Milano (CDMi).

    I documenti rintracciati presso l’Archivio centrale dello Stato e l’AUSSME, spesso in rapporto complementare tra loro, hanno consentito di elaborare quel quadro d’insieme cui si è fatto riferimento, traendo informazioni, dati ed elementi d’analisi sulle modalità organizzative della giustizia militare, sui suoi differenti e, a tratti contrastanti, orientamenti politici, sui rapporti non sempre idilliaci tra giudici militari italiani e tedeschi e su molto altro. Il materiale proveniente da questi due archivi è solo parzialmente inedito, in quanto già ampiamente studiato in alcune ricerche sulla RSI; semmai la novità sta proprio nell’averlo utilizzato principalmente nell’ottica della giustizia militare.

    I documenti, inoltre, consentono di ripercorrere anche le vicende dei magistrati militari sia come categoria professionale sia attraverso lo studio della dimensione individuale. Quest’ultimo aspetto è stato indagato tramite le pubblicazioni di natura memorialistica e manualistica, nonché grazie all’analisi dei fascicoli personali dei magistrati, conservati presso i Centri documentali dell’esercito italiano (ruoli matricolari, incarichi, promozioni, punizioni e condizioni salute).

    D’altra parte, come sostiene Nicola Labanca, se si parte dalla considerazione che lo studio di qualsiasi tribunale civile o militare, ordinario, straordinario o speciale, è soprattutto lo studio di una biografia collettiva dei giudici e dei magistrati che vi operarono, non appare sufficiente limitarsi alla documentazione amministrativa, ma occorre semmai cercare anche nella biografia degli uomini le risposte ad alcune domande³.

    Sempre attinente alla dimensione personale dei magistrati militari è la documentazione sanitaria reperita all’interno dei fascicoli personali, specialmente legata alle malattie di servizio; infatti, alcuni giudici che lavorarono presso il Tribunale militare regionale di guerra di Milano tra il 1943 e il 1945 furono riconosciuti affetti da malattie contratte nel corso della loro attività e ascrivibili a cause di servizio. Si trattava di disturbi di natura psichica come nevrosi, sindromi neuropsicasteniche, sindromi neurosomatiche, etc., dovute, nella maggior parte dei casi, alla notevole mole di lavoro e alle pressioni psicologiche attribuibili alla particolare situazione bellica.

    Una storia della giustizia militare di Salò tuttavia non si può realizzare solo attraverso le disposizioni dello Stato Maggiore, se poi non si studiano le conseguenze che tali ordini ebbero a livello periferico sull’operato dei tribunali militari territoriali. Motivo per cui, accanto alla nutrita documentazione d’indirizzo generale reperita presso l’Archivio Centrale dello Stato e l’Archivio dell’Ufficio storico dell’Esercito, questo studio si è concentrato, in particolar modo, sull’analisi degli atti processuali del Tribunale militare regionale di guerra di Milano conservati in Archivio di Stato di Milano. Da questo duplice approccio è derivato un dialogo documentale fatto di continui rimandi tra vecchie e nuove disposizioni che si accumularono sui tavoli di lavoro degli uffici inquirenti e giudicanti della giustizia militare milanese.

    I fascicoli processuali milanesi si compongono di materiale particolarmente interessante. Vi sono i documenti di rito, comuni indipendentemente dal tipo di reato quali: verbali d’interrogatorio dell’imputato, fogli matricolari, denuncia a opera del comandante del unità militare a cui appartiene l’imputato, lettere prodotte come testimonianza a favore o contro il militare soggetto a giudizio, rapporti sullo stato di servizio, atti motivati di sospensione dell’esercizio dell’azione penale, ordini di cattura, mandati di scarcerazione, rapporti informativi dei direttori delle carceri militari, etc. Compaiono, inoltre, atti specificamente legati al tipo di reato: ad esempio, per i reati di mancanza alla chiamata o di diserzione, vi sono innumerevoli esempi di domande di arruolamento volontario per reparto operante o testimonianze più o meno circostanziate rilasciate da ufficiali in comando, commilitoni, famigliari e conoscenti dell’imputato sottoposti a interrogatorio.

    Ancora più interessanti sono i fascicoli processuali aperti in seguito a denunce contro ignoti (solitamente reati riconducibili all’attività di bande partigiane) che presentano circostanziate relazioni sui fatti denunciati e dove, grazie alla bibliografia di supporto, compaiono situazioni ed eventi legati a episodi resistenziali in Lombardia.

    Si tratta d'una documentazione variegata e spesso interpretabile solo parzialmente e sempre alla luce della situazione contingente che l’ha generata ovvero il contesto bellico.

    Nei confronti degli interrogatori, ad esempio, decisamente utile ai fini della corretta interpretazione di tali fonti, risulta l’osservazione della studiosa di archivistica Isabella Rosiello Zanni, quando sostiene che Non si può stabilire a priori quale deformazione presenta il vetro che è stato usato nel costruire i documenti che abbiamo a un certo momento sotto gli occhi. Secondo la studiosa, il ricercatore

    può evitare ingenuità e grossolani errori se non dimentica il contesto complessivo in cui sono state prodotte [le carte d’archivio] a cui appartengono. Nel caso [...] di un archivio di un’istituzione giudiziaria [si tratta] di un’istituzione che ha svolto funzioni di controllo e di repressione nei confronti dei crimini su cui era competente a giudicare. Chi svolge queste funzioni e chi mette per iscritto quanto riguarda l’attività che vi è connessa, ha per così dire il coltello dalla parte del manico. Così negli atti processuali che presentano una struttura dialogica, si può trovare annotato ciò che testimoni e imputati hanno, sia pure con altre parole, detto, ma anche ciò che non volevano dire o che hanno detto, attribuendo alle espressioni che usavano un significato diverso da quello che, in buona o cattiva fede, ha inteso dargli chi su di loro investigava. A loro volta, coloro che sono caduti nelle maglie della giustizia possono aver cercato di difendersi contro il meccanismo repressivo in cui a ragione o a torto si trovavano coinvolti ricorrendo, volontariamente o involontariamente, a reticenze, mistificazioni, omissioni, o usando l’arma del silenzio⁴.

    Come già visto, i documenti d’archivio rappresentano la principale fonte di riferimento sull’attività del Tribunale militare di Milano in quanto risultano del tutto assenti altre ricerche sui medesimi fondi. L’assenza di precedenti lavori, oltre al già rilevato generale disinteresse storiografico nei confronti della giustizia militare della Repubblica sociale, è dovuta probabilmente in parte anche alle restrizioni previste dalla normativa vigente in materia di consultabilità della documentazione contemporanea. In base a tali norme il ricercatore può dover essere costretto a chiedere l’autorizzazione al Ministero dell’Interno; infatti questo studio si è avvalso di ben tre autorizzazioni dalla fase iniziale della ricerca fino alla sua conclusione⁵.

    Infine un cenno doveroso alla bibliografia di riferimento di questa ricerca, la quale non intende disegnare un quadro esaustivo dei numerosi studi che in questi settant’anni hanno indagato la RSI, la Resistenza e, in generale, l’Italia del 1943-45. Essa non rinuncia tuttavia a fornire indicazioni di carattere nazionale e locale, in cui sono state privilegiate le opere maggiormente rappresentative con particolare riferimento a quelle pubblicate negli ultimi vent’anni. Uno spazio marginale è stato riservato invece alla produzione memorialistica, ad eccezione delle memorie di alcuni magistrati militari che vissero in prima persona i fatti narrati. Queste tuttavia sono state vagliate attraverso il confronto con i documenti d’archivio, trovando, a volte, incongruenze tra il resoconto documentale e quello dei testimoni oculari.

    Ma c’è di più. Alla luce dei decreti e delle ordinanze dello Stato Maggiore, l’analisi dei procedimenti e dei dispositivi delle sentenze, le testimonianze rilasciate durante i processi della Corte d’assise straordinaria sull’operato dei giudici e dei procuratori milanesi nel dopoguerra, affiancate dallo studio dei loro fascicoli personali, ci consentono di cogliere atteggiamenti difformi, espressione di diverse istanze all’interno della magistratura militare e non solo milanese. Se alcuni giudici e magistrati militari non aderirono alla RSI, nascondendosi o partecipando direttamente alla lotta resistenziale, non pochi furono quelli che pur giurando fedeltà alla nuova repubblica, mantennero profili legalitari, anche a rischio di passare per rinnegati. Furono proprio loro a suscitare le critiche più accese dell’Ufficio legale militare, della Procura generale e dei colleghi di dichiarata fede fascista.

    Esiste, infine, una zona grigia anche nella magistratura militare milanese (e probabilmente non solo milanese), costituita da burocrati che svolgevano il loro lavoro senza accenti né sussulti, che non credevano nella repubblica sociale, ma non erano neanche attratti dalle suggestioni di rinnovamento politico. Essi semplicemente attendevano, evadendo pratiche, istruendo processi, come se nulla fosse cambiato, con la stessa metodica e meccanica precisione di ogni giorno, sino all’ultimo giorno.

    Il disinteresse nei confronti di tale argomento, che purtroppo, a differenza del periodo 1940 – 1943, non difetta di punte repressive, specie nella lotta alla Resistenza, è con tutta probabilità imputabile alla generale distrazione della storiografia nei confronti delle fonti documentali della Giustizia militare in generale e della repubblica sociale in particolare. In questa tendenza all’oblio ha influito anche il giudizio interessato che, a volte, ha preferito soffermarsi solo sull’anima nera delle corti marziali di Salò a discapito di altri aspetti che dovrebbero essere indagati con maggiore aderenza scientifica. Si prendano le diserzioni dell’esercito repubblicano, un argomento, questo sì, ampiamente dibattuto dalla storiografia, ma che presenta ancora oggi aspetti non del tutto chiari.

    In sostanza le toghe militari che aderirono alla Rsi, finirono col dividersi tra una giustizia militare ordinaria utilizzata contro militari, criminali comuni, operai militarizzati o precettati e una giustizia straordinaria, impiegata soprattutto contro partigiani e disertori. Eppure, nonostante il più delle volte fossero le stesse persone a comporre i collegi giudicanti ordinari e straordinari, l’esito dei processi era molto diverso. I tribunali ordinari spesso stabilivano pene leggere e comunque quasi sempre coperte da benefici giuridici (condizionale, differimento della pena, etc.) mentre, al contrario, le corti straordinarie, specie contro i partigiani, si mostravano decisamente più severe.

    Agli occhi della storiografia prevalse questa seconda istanza e i tribunali militari della RSI furono giudicati espressione di una giustizia militare asservita, figlia di un esercito scomodo sia per l’alleato tedesco sia per gli stessi dirigenti della RSI, più preoccupati a potenziare il proprio potere e perciò poco disposti a concedere spazi a elementi terzi. Questo finì col fare emergere solo la funzione strumentale, che di fatto ci fu, sommergendo però le resistenze e i dissensi interni che, eredi di meccanismi ancora in atto prima dell’armistizio, si riproposero anche durante gli ultimi 600 giorni di Mussolini.

    In questo giudizio pesarono infine le funzioni e le mai definite competenze dei tribunali militari, che non si limitavano solo ad assolvere compiti già di per sé fortemente dilatati verso la sfera civile, ma si occupavano anche della repressione, attraverso un uso non sempre lecito del tribunale militare straordinario, portando disertori (pochi), partigiani (molti), finanche criminali comuni, sul banco degli imputati. Il tribunale militare straordinario garantiva l’immediatezza e l’esemplarità della pena, il che significava esecuzioni pubbliche che, paradossalmente, ottenevano effetti contrari rispetto a quelli desiderati. Infatti l’esempio cruento, che voleva essere, almeno nelle intenzioni dei gerarchi di Salò, un segnale di risolutezza, finiva con l’alimentare nella popolazione un sentimento contrario alla repubblica fascista e all’alleato tedesco. Si allungava, semmai, l’ombra del plotone di esecuzione su ogni collegio giudicante che aveva sostituito i gladi e l’alloro alle stellette, finendo con godere in toto di una triste fama, pari, se non superiore, a quella dei tribunali militari della Prima guerra mondiale.

    1 E. Forcella, A. Monticone, Plotone d’esecuzione, I processi della Prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968.

    2 Ibidem.

    3 N. Labanca, La magistratura militare della Repubblica: prime indagini, in Fonti e problemi per la storia della giustizia militare, a cura di N. Labanca e P. P. Rivello, Giappichelli Editore, Torino 2004, p. 269.

    4 I. Zanni Rosiello, Andare in archivio, Il Mulino, Bologna 1996, p. 202.

    5 Le restrizioni riguardano in particolare la consultabilità di dati sensibilissimi, cioè quelli relativi alla salute, alla vita sessuale e a situazioni familiari riservate. I principali riferimenti normativi in materia sono il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, art. 122-127 e il Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici, approvato con Provvedimento del Garante del 14 marzo 2001 (allegato al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali).

    1. La giustizia militare di Salò

    Il Tribunale militare regionale di guerra di Milano (1943 – 1945)

    1.1. Giustizia militare: pregiudizi e questioni storiografiche

    Nel 1984 un magistrato militare sosteneva che i tribunali militari fossero ancora immaginati dall’uomo della strada come i luoghi impenetrabili e sospetti in cui si celebra una sorta di rito orfico e sui quali incombe sinistra l’ombra del plotone di esecuzione¹.

    A rafforzare il pregiudizio dell’uomo della strada ha agito, in primo luogo, la sostanziale resistenza del diritto militare a qualsiasi cambiamento storico, al punto da restare, concordando con Rodolfo Venditti, uno dei più autorevoli studiosi in materia, "impermeabile ai principi costituzionali contenendo (inoltre, n.d.r.) deroghe ai principi stessi del diritto penale comune"².

    Una prima riforma della giustizia militare è avvenuta solo nel 1981³; sino ad allora è rimasto pressoché immutato un sistema penale ispirato da un regime dispotico emanato durante la guerra (1941); in esso il militare non era assolutamente preso in considerazione in quanto persona, ossia come essere detentore di diritti, semmai i giudici e i magistrati lo consideravano come un’entità che aveva solo doveri. Il Codice penale militare era rimasto l’espressione di un’epoca che, pur crollata dopo gli eventi della Seconda guerra mondiale, ne aveva conservato il ricordo nelle sue disposizioni arbitrarie, squilibrate e profondamente ingiuste⁴.

    Alle fasi del processo penale militare prendevano parte solo alcuni soggetti il cui profilo era ben delineato dal codice militare: il giudice, il pubblico ministero e l’imputato. Nel processo militare non erano ammessi soggetti secondari, infatti risultava impossibile la costituzione di parte civile (art. 270 Cpmp)⁵. Anche gli avvocati difensori, nominati di fiducia o d’ufficio, non erano soggetti del rapporto processuale ed esercitavano solo una funzione di assistenza⁶. Ne conseguiva che il difensore, spesso un ufficiale di grado inferiore, evitava di opporsi attivamente all'accusa, appellandosi di frequente alla clemenza della corte⁷.

    La macchina della giustizia militare funzionava grazie a due elementi sostanziali: gli ufficiali che appartenevano alla giustizia militare ("ruolo magistrati⁸ e ruolo cancellieri, con struttura gerarchica e rango di ufficiali assimilati") e gli ufficiali di arma combattente che espletavano principalmente le funzioni di giudice⁹. Tutto il personale della giustizia militare dipendeva dal Ministero della guerra.

    Il collegio giudicante era composto da 5 membri: il presidente, il giudice relatore e 3 giudici. Le udienze si svolgevano velocemente al punto che in una giornata era possibile emettere sino a 15 sentenze che, ovviamente, potevano includere un numero variabile di imputati¹⁰.

    Il processo avveniva in condizioni di forte differenza tra imputato e giudici, che dovevano essere tutti superiori di grado all’accusato. In più il presidente del collegio giudicante era investito di un grado superiore a tutti, facendo prevalere il principio gerarchico, il che pregiudicava l'autonomia di giudizio degli altri membri della corte marziale¹¹.

    La giustizia militare non era quindi libera nelle proprie decisioni, non solo perché esisteva una dipendenza dei soggetti giudicanti dal comandante della grande unità o dal comandante regionale presso cui era istituito il tribunale, ma anche perché spesso era considerata solo uno strumento con un’indipendenza limitata nelle mani degli alti comandi. L’autonomia di giudizio era quindi garantita sino a un certo punto; infatti pur nel formale rispetto dell’indipendenza delle loro decisioni, i giudici e i procuratori militari erano tenuti a rispettare gli ordini superiori e, nel caso si opponessero, potevano essere immediatamente sollevati dal loro incarico¹².

    Da tutto ciò derivava l’immagine di una giustizia militare assimilabile a un corpus separato¹³ dalla magistratura ordinaria, agli occhi dell’uomo comune portatore di rappresentazioni repressive e di atteggiamenti pregiudiziali alimentati anche dalla colpevole assenza di una ricerca storiografica che ne ha quasi sempre trascurato le vicende¹⁴.

    L’attenzione che in questa sede si vuole rivolgere alla storia della giustizia militare nella Repubblica sociale italiana si discosta da questo atteggiamento. Si ispira, semmai, al medesimo principio da cui partono i recenti studi sulla giustizia militare e che Nicola Labanca in particolare ha utilizzato per le sue ricerche sulla magistratura militare della Repubblica italiana. Secondo Labanca tale storia è principalmente

    la storia della politica militare e del gioco fra i poteri che attorno alle istituzioni militari si è svolto lungo fasi assai diversificate. In tale prospettiva la storia del diritto militare, della giustizia e della magistratura militari assumono un valore sintomatico. In tal senso, se si vuole uscire da una concezione formalistica e astrattiva della giustizia, diventa importante studiare le vicende di questa magistratura, perché, come ha scritto proprio un magistrato con le stellette: – è necessario fare una storia della magistratura in Italia senza la quale è, a mio avviso, impossibile far luogo a una storia della giustizia militare del nostro Paese – ¹⁵.

    Da questo punto di vista occorre considerare che la giustizia militare si definisce speciale perché [...] si rivolge a una determinata categoria di soggetti (quella dei militari)¹⁶.

    Tuttavia le corti marziali nella storia del nostro Paese non sono state utilizzate solo per sanzionare i militari, ma anche i civili.

    Come ha osservato Carlotta Latini: Si tratta di una specialità che in molti casi tende a identificarsi con l’eccezionalità/straordinarietà, cioè con la creazione di organi ad hoc per esprimere alcune fattispecie ritenute, sul momento, particolarmente pericolose per l’ordine pubblico, anche in totale assenza di una previsione legislativa¹⁷.

    Nella sostanza ciò significa che il diritto militare non è stato utilizzato unicamente per giudicare la speciale categoria dei militari, ma, in particolari situazioni, è stato adottato allo scopo di reprimere insurrezioni, disordini, guerre civili. Per fare questo era necessario ampliare i confini delle competenze, accrescendone la portata fino a renderlo utilizzabile in tutti i casi di emergenza. Il dissenso politico o il mantenimento dell’ordine pubblico erano percepiti dall’autorità politica come un medesimo fenomeno; il che la autorizzava a ricorrere alla giustizia militare con lo scopo di reprimere ogni forma di protesta organizzata da civili¹⁸.

    Il primo esempio risale agli albori dell’Unità nazionale quando, con la legge Pica, la repressione del brigantaggio nelle campagne meridionali fu affidata ai tribunali militari, con la conseguente proliferazione di corti marziali su tutto il territorio interessato che celebravano processi lampo contro presunti briganti, favoreggiatori e semplici sospettati e infliggevano pene esemplari, dal carcere a vita alla fucilazione ¹⁹. Nello stesso periodo furono introdotti nell’ordinamento giuridico italiano due dispositivi di natura autoritaria utilizzati solamente pochi anni dopo: lo stato d’assedio e le leggi speciali ²⁰. Si pensi alla repressione delle lotte sociali connesse alla nascita di un proletariato industriale e alle prime organizzazioni di lavoratori, considerate un pericolo rivoluzionario, e al caso dei Fasci siciliani ²¹.

    Il ricorso alla giustizia militare, interrottosi durante la politica conciliatrice con i socialisti di Giovanni Giolitti, fu ripreso all’indomani dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale con la Legge dei pieni poteri del 22 maggio 1915. Tale legislazione eccezionale autorizzava il governo a emanare disposizioni aventi valore di leggi per la difesa dello Stato, la tutela dell’ordine pubblico e gli urgenti bisogni dell’economia nazionale e conferiva competenze sempre più ampie ai tribunali militari investiti di cognizione su reati commessi da civili, relativi all’ordine pubblico, al disfattismo, all’infrazione delle leggi sulla mobilitazione industriale, etc²². Particolarmente severa fu la legislazione eccezionale sulla mobilitazione industriale e sulla disciplina della manodopera, posta sotto il controllo prima dei comandi militari e successivamente affidata al Comitato centrale di mobilitazione industriale (sempre composto da militari), che finì con porre sotto la giurisdizione militare tutti gli operai (uomini, donne e ragazzi) impegnati nella produzione industriale²³.

    Ma fu al fronte che il diritto penale militare fu utilizzato con maggiore frequenza, soprattutto per arginare i numerosi casi di diserzione, insubordinazione e ammutinamento, alla cui base spesso erano le terribili condizioni della guerra di trincea e il prolungarsi del conflitto²⁴. Su esplicito ordine del Comando supremo, e soprattutto grazie all’azione del Reparto disciplina, la giustizia militare fu utilizzata ancora una volta in senso repressivo, non esitando ad avallare la tendenza dei comandanti militari a utilizzare indiscriminatamente esecuzioni sommarie e decimazioni dei reparti. Una durezza che finì per suscitare una serie di polemiche destinate e, nei primissimi anni successivi al conflitto, a rivestire una certa rilevanza nelle cronache dei principali quotidiani dell’opposizione²⁵.

    Dopo la Prima guerra mondiale, la giustizia militare fu ridimensionata e fu ristabilita la situazione prebellica con 12 tribunali militari territoriali che operavano sull’intero territorio nazionale.

    Il fascismo entrò nel merito riformando il sistema giuridico militare nel 1925 e nel 1932, attraverso i lavori della Reale Commissione per la riforma dei codici e delle leggi penali militari che portarono alla stesura di una riforma del Codice penale militare, entrata in vigore solo il 1° settembre 1941. Per tutto il periodo intercorso tra le due guerre restò valido il vecchio Codice penale per l’esercito del 1869, diretto erede del codice sabaudo preunitario.

    Durante il secondo conflitto mondiale la giustizia militare fu spesso oggetto di modifiche e cambiamenti anche radicali, come dimostrano numerosi interventi legislativi, nonché il fervente dibattito e le aspre polemiche che l’accompagnarono²⁶. Tutto ciò evidentemente non bastò a suscitare l’interesse degli storici, che non ebbero la stessa curiosità manifestata per l’operato della giustizia militare durante la Grande guerra. Un disinteresse che si è mantenuto pressoché costante sino ad oggi, se si escludono alcuni recenti lavori di Giorgio Rochat, tra i quali Duecento sentenze nel bene e nel male. I tribunali militari nella guerra 1940 – 1943²⁷. L’autore, attraverso una minuziosa ricostruzione documentale, ha messo in luce la sostanziale insoddisfazione delle alte sfere dell’esercito nei confronti della magistratura militare, sia nel periodo fascista sia in quello badogliano, dovuta principalmente ad atteggiamenti spesso contrari alle esigenze dello Stato maggiore che avrebbe preferito un comportamento più severo da parte delle corti marziali²⁸. Questo non significa affatto, per dirla con Rochat, che i magistrati italiani fossero più democratici rispetto ai loro colleghi del 1915 – 1918 e tantomeno la colpa di tale insoddisfazione può essere attribuita ai codici penali militari fascisti, peraltro dotati di maggiore severità²⁹. Il malcontento nasceva dal fatto che molti giudici non erano militari, ma magistrati ordinari richiamati in guerra come forze di complemento e più legati ad atteggiamenti propri della giustizia civile, quindi meno marziali e più autonomi rispetto a quelli diffusi tra i membri di carriera della giustizia militare³⁰. La minore severità della magistratura militare rispetto al primo conflitto mondiale finì, come ci ricorda Rochat, per alimentare il disinteresse della ricerca storica nei confronti della giustizia militare:

    l’operato dei tribunali militari nel 1940-43 non ebbe punte repressive altrettanto forti che nel 1915-18: nessuna decimazione, rare fucilazioni di militari italiani, generalmente per reati di gravità evidente. Una relativa mitezza che può essere interpretata come consapevolezza dei limiti di consenso della guerra fascista ³¹.

    I processi in realtà furono tantissimi e spesso si conclusero con condanne detentive anche molto pesanti, o addirittura con la pena capitale³²; eppure la minore attitudine all’utilizzo del plotone d’esecuzione dei loro omologhi del ‘15–‘18, conferì a quei giudici militari un’immagine più tollerante, peraltro in distonia rispetto alle disposizioni del regime fascista. Infatti questa tendenza persistette anche quando le sorti del conflitto volsero le spalle alle armi italiane e i contrasti interni all’esercito si fecero più aspri.

    Il disinteresse della storiografia sulla giustizia militare ha finito col comprendere il periodo successivo all’8 settembre 1943, quando è stata relegata al ruolo di mera esecutrice degli ordini di uno stato asservito al tedesco.

    La giustizia militare dell’esercito di Salò ereditò integralmente i codici e le leggi militari del regime fascista e ampliò notevolmente le competenze soprattutto in materia di diserzione, ordine pubblico, disciplina dei cittadini in tempo di guerra e di lotta alle bande armate. Tuttavia il personale che la costituiva proveniva per la maggior parte dai ruoli dei giudici e dei magistrati che avevano formato le corti marziali del Regio esercito, riproponendo, nonostante la situazione di estremo caos istituzionale, i medesimi atteggiamenti e suscitando spesso le stesse critiche da parte dello Stato maggiore e dei comandanti regionali e provinciali. Frequente è, infatti, la documentazione che propone giudizi critici e disapprovazioni del governo e dello Stato maggiore sull’operato dei tribunali militari e sull’eccessiva tolleranza adottata soprattutto nei procedimenti penali contro i disertori e la manodopera militarizzata. Atteggiamenti che denotano le varie anime della magistratura militare, divisa tra linea legalitaria, rappresentata soprattutto dal Procuratore generale Ovidio Ciancarini e tendenze strumentalizzatici dello Stato maggiore e delle autorità repubblicane che, attraverso le critiche di Mussolini e Graziani e di molti comandanti regionali e provinciali, le circolari del generale Archimede Mischi, capo dell’Ufficio legale dell’esercito, le intromissioni del ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e del segretario del Partito fascista repubblicano (PFR), Alessandro Pavolini, auspicavano da parte dei giudici militari una maggiore fermezza e severità di giudizio anche a discapito della legge. Due opposte tendenze che la situazione politica della Repubblica sociale aveva reso definitivamente inconciliabili, escludendo, per evidenti ragioni di sopravvivenza, gli scrupoli legalitari di Ciancarini, incompatibili con la grave situazione politica e militare e soprattutto illusori in uno stato che si reggeva sulle armi altrui.

    Furono proprio le emanazioni giuridiche derivanti da questa discrezionalità, mescolate alle continue ingerenze tedesche nella giustizia militare repubblicana, e non solo, a determinare le defezioni più significative tra i giudici e i magistrati. I primi ad allontanarsi furono quanti non aderirono alla RSI, come il procuratore di Milano Rinaldo Vassia, eclissatosi dopo la richiesta di utilizzo indiscriminato del tribunale militare straordinario³³, seguito dallo stesso Procuratore generale, Ovidio Ciancarini, che non seppe tacere in merito a quel capolavoro d’illegalità rappresentato dai Bandi Graziani contro disertori e renitenti alla leva, e fu, per questo, messo a riposo anticipatamente dallo stesso Maresciallo³⁴.

    Una giustizia militare che potenziò il proprio ruolo sanzionatorio in materia di ordine pubblico e di controllo dei civili militarizzati impegnati nella produzione industriale e a cui aggiunse il compito di legalizzare la repressione dei fenomeni resistenziali³⁵. Incarico non nuovo per molti giudici e magistrati di Salò che già avevano fatto esperienza nella lotta contro i partigiani slavi durante l’occupazione italiana dei territori balcanici e che applicarono gli stessi codici penali militari utilizzati contro la Resistenza in Jugoslavia. Si registrò un continuum tra gli ordini dei generali Robotti e Roatta nei Balcani e le disposizioni del Capo dell’Ufficio legale militare Archimede Mischi sull’utilizzo dei tribunali militari, soprattutto straordinari, nella RSI³⁶. Che poi è la stessa prospettiva che rimanda all’operato dei tribunali germanici a sostegno delle operazioni antiguerriglia in tutta l’Europa occupata, Italia compresa³⁷.

    La mancanza

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