La luna a due lame: I nebbiosi casi di JJ Rivolta
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La luna a due lame - Dimitri Sodi Pallares
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28 settembre 2012, 4 a.m.
Pulsava, pulsava, e ogni volta era una fitta al cervello. Non era come quella volta a Nishapur. Gli avevano spezzato un braccio ma la rabbia e la volontà di non parlare rendevano tutto più tollerabile. Pulsava, pulsava, e ogni volta era una fitta al cervello, come un coltello arrugginito che cerca di trovare la sua strada, come un chiodo che incontra un martello maldestro. Temeva sarebbe successo. Fin dal risveglio un fastidio continuo e insistente che solo la paura gli aveva consigliato di ignorare. Si trovò così in quel vicolo buio, odorante di koufteh [1] e piscio, alle quattro del mattino alla ricerca di un’indicazione. Gli avevano detto che non era male e soprattutto non faceva storie. Lesse alla luce del fiammifero, l’insegna scritta a matita: Doctor Crane, Dentist
. Così Aziz si aggrappò al campanello per un tempo che gli sembrò eterno. «Who the hell are you now?». Con tonalità metallica e gracchiante da quello che con buona dose di fantasia si sarebbe potuto chiamare citofono. La lama che da dietro gli trapassava il torace non gli diede tempo di rispondere.
[1] koufteh: Polpette a base di carne e riso
Giovedì 13 ottobre 2012
Toc, toc
anzi… badabam!
La vecchia porta tarlata della questura di Pavia rivestita di compensato anticato
fregava tutti. Effetto wonderbra lo chiamava lui. Lui, il commissario Gian Giovanni Rivolta (Giangi per la mamma e gli amici. Non sapeva se gli stesse più sui coglioni l’allitterazione del nome che gli avevano appioppato o il nomignolo, anch’esso affibbiatogli dalla mamma, di cui non riusciva a disfarsi).
Era una di quelle mattine d’ottobre in cui non sai mai come andrà a finire. Un velo di nebbia ti separa dal cielo e fino alle dieci non sai se aspettarti una giornata plumbea con lacrime fini di pioggia o una tiepida rimembranza d’estate che ti fa venire il magone per quello che ti sta abbandonando e per quello che ineluttabilmente arriverà.
Anche quella mattina non si era fatto la barba. Di norma la faceva una volta la settimana. Forse più spesso se era di buon umore. Quando aveva la barba lunga (di cui ormai la parte bianca aveva raggiunto la maggioranza assoluta senza alcun premio
elettorale) significava quindi che era di cattivo umore. Almeno questo era il sillogismo di quanti lavoravano con lui e cercavano di evitarlo proprio in quei giorni. Chissà perché nessuno aveva mai pensato il contrario? Che fosse proprio la barba a influire sul suo umore. Barba o non barba, comunque sapeva, prima ancora di alzare la testa, che sarebbe stata una seccatura.
Aveva intimato a tutti che non ci sarebbe stato per nessuno. Il Questore in persona gli aveva affibbiato il piano di sicurezza per quel giovane candidato premier, giovane almeno rispetto alle mummie che gli si contrapponevano, che avrebbe tenuto quella sera stessa un comizio in Piazza della Vittoria, presentato dal solito politicante locale trans-partitico (di quelli che partono dalle sagrestie e sanno benissimo dove vogliono arrivare).
Lo sapeva per certo che sarebbe stata una seccatura perché quando intimava Che non ci sarebbe stato nemmeno per il Papa
questo diventava automaticamente uno sbarramento assoluto e invalicabile per le persone educate e a modo. I petulanti, insistenti scocciatori (i rompiballe per farla breve) con la tecnica del paramecio superavano invece costantemente i cavalli di Frisia che lui si illudeva di aver posto.
Alzò la testa, indeciso se essere sarcastico e pungente o noiosamente distaccato, ma la persona era già entrata. Era una donna sui quarant’anni, decisamente piacente, che cercava di camuffare il passaggio del tempo con un abbigliamento vistoso e un po’ stonato.
Il tempo e la vita avevano già iniziato a tracciare solchi sul suo viso nonostante il tentativo di riempirli generosamente di fondotinta, in particolare attorno agli occhi. Ecco, gli occhi.
Gli occhi sono l’unica o l’ultima cosa a invecchiare in una persona. Ma questo lo decide il destino che ti è dato, non l’orologio.
«Commissario Rivolta?».
Aveva già visto quegli occhi e nel tentativo di ricordare, il viso del commissario assunse la classica espressione tra il lo sapevo io
e il nooo, non ci posso credere…
che si stampa sulla faccia del tifoso interista, quando il nuovo entrato degli altri
la mette inesorabilmente dentro a un minuto dalla fine.
«Sì...?» gli uscì tra sé e sé mentre la persona si sedeva, prima ancora di essere invitata, sulla sedia screpolata in similpelle di fronte alla scrivania.
«Dovrei denunciare la scomparsa di una persona. La prego mi aiuti a ritrovarla» disse tutto d’un fiato.
16 marzo 1997, ancora buio
06.40 a.m. Il telefono squilla. «Chi è?». «Venga abbiamo bisogno di lei!». «Cosa succede?». «Abbiamo un morto ammazzato». «Il Questore?». «In ferie». «Il commissario?». «In missione». «Dove?» «Stradella, Via Trento 45». «Va bene, venticinque minuti».
Era così lento al volante che doveva costantemente aggiungere un tot accademico al tempo realmente necessario. A naso pensò che cinque minuti fossero sufficienti.
Era il suo primo incarico. Dopo la laurea in Legge non sapeva che cavolo fare. Due esami da magistrato falliti, senza Santi in Paradiso. Il concorso in Polizia? Ma che vuoi fare lo sbirro?
Ma noo, tanto non lo passo
. Invece quattordicesimo su ottocento e prima destinazione Pavia.
Si sentiva, per origini di famiglia, padano di Casteggio, ma il pensiero di nebbia, afa e zanzare in una città
interessante e vivace come un documentario in bianco e nero sulla civiltà etrusca lo aveva subito soffocato. Aveva cercato di prendere tempo. Non si sentiva nemmeno l’animo del Pulotto. Quindi la scusa del corso di sei mesi (sbucato come la provvidenza) sui crimini violenti ad Atlanta gli sembrò una perfetta via di fuga. Intanto ci penso e vedo se sono portato
.
Erano stati sei mesi duri per lui che voleva cambiare, anzi iniziare una nuova vita, nel sud degli States. Come dire nel posto più tiepido di un frigorifero o più fresco di un forno.
Oltre ad aver immediatamente capito che trovare un amico di circostanza, per fare due chiacchiere e bere una birra fresca, fosse anche una Budweiser americana, mica quella cecoslovacca, finite le lezioni, era in pratica impossibile e aver imparato come ci si può trovare veramente soli, fino al pianto, in mezzo a una città irta di quattordici grattacieli e con il museo della Coca Cola come unico richiamo per i turisti che la visitano. Ormai si era fatto una certa cultura storica sui crimini violenti avendo libero accesso ai terminali (impensabili in Italia) e ai data base della Grisham South Unit.
Certo anche la TV gli aveva insegnato qualcosa: rinfrescato le regole del baseball nelle partite quasi quotidiane dei Braves
, dove John Schlmoz tracciava palle curve a 125 miglia orarie senza una stilla di sudore, con occhi azzurri, quasi grigi, e inespressivi che facevano sentire il battitore[1] come un vaso di coccio di fronte a uno in titanio temperato; e gli aveva fatto pensare al giornalismo. Qui da noi i giornali sprecavano tempo a narrare le vicende del giorno prima, in telecronaca differita, mentre al Letterman show ogni personaggio di spicco temeva di essere invitato e massacrato, e non faceva certamente la coda per essere invitato da un’Alba Calabrone a caso, asservita e lecchinante a seconda dell’anemometro politico.
Gli States sono l’emblema del paradosso. Un povero cristo può diventare qualsiasi cosa e un mito
può diventare un povero cristo in una settimana. Benedetta o maledetta America. Non lo sapeva, o non lo aveva capito. Aveva capito però, a Orlando, che gli Americani a Disneyland sono gli unici al mondo a non sentirsi pirla nemmeno per un secondo.
Comunque diversi dagli Italiani che si sentono sempre i più furbi, in ogni occasione.
In ogni caso lo avevano apprezzato. Forse per quel modo trasandato e stropicciato, veramente
europeo di vestirsi (non fatto di jeans a vita bassa e Reebok slacciate, per intendersi), con accostamenti di colore improbabili persino per gli yankee più sfegatati. Forse per la capacità di raggiungere l’obiettivo, bypassando le scalette protocollari, che aveva dimostrato. Indubbiamente per la nazionalità, lo avevano soprannominato lieutenant Colombo, dentro di sé ne era orgoglioso, il Tenente era stato un mito della sua adolescenza.
Soprattutto il capo David Bishop, all’interno dei confini della sua austerità, gli aveva dimostrato la sua stima. In particolare in quell’occasione in cui il collega di Relaigh era stato pubblicamente rimbrottato per aver detto se gli italiani fossero buoni poliziotti avrebbero già arrestato tutti i mafiosi
.
David Bishop. L’uomo che aveva creato il concetto
di Unità anticrimine violento. Alto, asciutto, con fisico energico che all’età di sessant’anni tradiva ancora un trascorso di canottaggio a livello olimpico.
Nessuno osava contraddirlo. Nessuno lo amava ma tutti lo rispettavano profondamente.
Il giorno prima della chiusura del corso, in caffetteria, davanti a un gigantesco tazzone di caffè decaffeinato lo guardò negli occhi dicendogli: «JJ» gli americani non riuscivano a chiamarlo Giangi e, soprattutto, non erano stati ancora informati da sua madre del vezzeggiativo che gli aveva appiccicato da bambino « I’m not really satisfied with a guy of my Unit in Philly. I want replace him, and you are the first choice. Let me know in a couple of days» [2].
Philadelphia, Chestnut Street, la Campana della Libertà. Solo a un’ora di treno da New York, di cui sembrava essere la sorella maggiore, meno sfavillante ma più saggia.
Aveva due giorni di tempo per pensarci.
Decise di non pensarci.
A couple of days later
atterrava a Linate. Uscito dall’aereo si era sentito subito a