La musica nell’estetica di Pareyson
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La musica nell’estetica di Pareyson - Stefano Oliva
Oliva
INTRODUZIONE
A vent’anni dalla scomparsa di Luigi Pareyson, il presente lavoro intende proporre una declinazione della teoria della formatività in senso musicale: di fronte alla molteplicità delle ipotesi e delle posizioni che caratterizza il dibattito dell’estetica contemporanea, una tale applicazione delle categorie pareysoniane vuole rispondere al relativo silenzio riservato da musicologi e teorici della musica all’opera del filosofo piemontese.
Lungi dal voler proporre un’estetica musicale della formatività (operazione che peraltro non sarebbe stata apprezzata neanche dallo stesso Pareyson, contrario al proliferare delle estetiche speciali
e convinto assertore dell’unità e dell’indivisibilità dell’ambito artistico formativo), il presente lavoro si propone di pensare l’esperienza musicale all’interno del quadro di riferimento generale proposto dall’opera del filosofo piemontese. Si cercherà dunque di introdurre la riflessione pareysoniana nei diversi dibattiti relativi alla semanticità o asemanticità della musica, alla sua dimensione temporale, ai paradossi dell’interpretazione.
La musica mostra un profilo ambiguo: se da una parte il suo contenuto pare coincidere con la mera «forma sonora in movimento»[1] (E. Hanslick), escludendo qualunque riferimento a significati ulteriori, dall’altra la compromissione con il mondo dei sentimenti sembra indicare un orizzonte metafisico, al di là della semplice organizzazione immanente dei suoni: la musica pare offrire la promessa utopica di un ritorno «in una terra in cui mai si fu e che tuttavia è patria»[2] (E. Bloch) o indicare contenuti ineffabili provenienti «dal tempo interiore dell’uomo, come dalla natura esterna»[3] (V. Jankélévitch).
Il rapporto tra musica ed emozioni trova particolare sviluppo nell’ambito del dibattito anglo-americano: se la musica pare esibire una relazione di isomorfismo con la dinamica dei sentimenti umani (S. Langer), tale rapporto può essere interpretato in senso metaforico (N. Goodman e R. Scruton), in senso causale (per cui la musica sarebbe capace di contagiarci
, come sostiene S. Davies) o come attribuzione di emozioni ad un personaggio di fantasia (J. Levinson).
Per altri versi, la musica pare suscitare uno specifico sentimento della durata (H. Bergson), essendo compromessa in maniera essenziale con l’irreversibile scorrere del tempo (G. Brelet). In alcuni casi, tuttavia, la musica pare opporsi a questo incessante consumarsi degli attimi, immobilizzando il tempo in una struttura (C. Lévi-Strauss) e proponendosi come alternativa critica al tempo presente, in un’ottica espressamente progressiva (Th. W. Adorno).
Congelata nelle pagine della partitura, la musica chiede costantemente di essere riattualizzata nell’interpretazione: in tal modo ci si trova davanti all’antinomia tra opera (consegnata alla notazione musicale, come sottolinea C. Dahlhaus) ed esecuzione; quest’ultima oscilla tra una considerazione che la vorrebbe incarnazione contingente di un modello atemporale (come suggerisce P. Kivy) o nuova creazione tout court (come sostiene enfaticamente G. Brelet).
Da questi pochi cenni emerge la complessità e la ricchezza di discussioni difficilmente analizzabili in maniera esauriente; tuttavia ciò che qui interessa non è stabilire un ordine nell’accavallarsi di voci eterogenee né proporre una soluzione per ogni problema individuato ma vedere in maniera sperimentale come reagiscono le categorie di un filosofo – autore di un’estetica sistematica – a contatto con le problematiche specifiche della riflessione musicale.
Nella prima parte di questo studio illustreremo dunque i punti salienti della teoria estetica di Pareyson: dopo aver presentato le categorie fondamentali della teoria della formatività (1.1), seguiremo il processo artistico che conduce dalla forma formante alla forma formata, dallo spunto all’opera conclusa (1.2); quindi analizzeremo la teoria ermeneutica del filosofo piemontese, articolata nei tre momenti di esecuzione, interpretazione e valutazione (1.3). In seguito nella seconda parte del lavoro proporremo una declinazione musicale della teoria della formatività, concentrandoci sul significato della forma (2.1), sul ruolo del ritmo come principio temporale e fondamento dell’isomorfismo tra opera e persona (2.2) e sulla teoria dell’inesauribilità dell’interpretazione (2.3). Dal confronto e dal dialogo instaurato tra la teoria della formatività e gli orientamenti prevalenti nell’ambito dell’estetica musicale contemporanea cercheremo di far emergere alcune ipotesi euristiche che ci consentano di contribuire ad una chiarificazione dell’esperienza musicale.
PARTE PRIMA - L’ESTETICA
1.1. TEORIA DELLA FORMATIVITA’
Nell’ambito delle teorie estetiche post-crociane, la riflessione di Luigi Pareyson si distingue per originalità e sistematicità. Nell’ambiente culturale italiano, dominato nella prima metà del Novecento dal Neoidealismo, il percorso del filosofo piemontese appare particolarmente ricco e interessante: ad una prima fase, definita dallo stesso autore esistenzialismo personalistico o personalismo ontologico, contraddistinta da un approfondito confronto con la dissoluzione dell’hegelismo in Kierkegaard e Feuerbach, con la teologia dialettica di Barth e con la filosofia dell’esistenza di Jaspers e di Heidegger, fa seguito una seconda fase in cui viene tracciata una ontologia dell’inesauribile, in cui l’attenzione si sposta su tematiche propriamente estetiche ed ermeneutiche; le ultime opere infine propongono una riflessione sull’esperienza religiosa cristiana, mediata in particolare dall’analisi delle opere di Dostoevskij, che si costituisce come ontologia della libertà.
Nel percorso di Pareyson dunque la riflessione estetica rappresenta il punto medio, lo snodo fondamentale tra le problematiche affrontate nel primo periodo (caratterizzato dalla forte influenza dell’esistenzialismo di Augusto Guzzo e dell’idealismo etico-religioso d’ispirazione antihegeliana di Piero Martinetti) e le soluzioni proposte nell’ultima fase, in cui l’ermeneutica del mito religioso conduce al cuore di un’ontologia che ha il proprio fondamento nell’assoluta libertà dell’essere, in una ripresa di tematiche che hanno origine, tra gli altri, in Schelling e Berdjaev.
Indipendente rispetto alle elaborazioni di Gentile e di Croce[4], l’estetica di Pareyson viene coerentemente articolata in diverse opere: presentata in Estetica. Teoria della formatività (1954), la proposta dell’autore viene rielaborata e approfondita in Teoria dell’arte. Saggi di estetica (1965), nei Problemi dell'estetica (1966), in Conversazioni di estetica (1966) e in Verità e interpretazione (1971). Se il testo del 1954 rappresenta la fonte principale per l’esposizione dei capisaldi della concezione estetica di Pareyson, le opere successive forniscono importanti integrazioni e approfondimenti che permettono di chiarire la posizione dell’autore rispetto alle numerose e specifiche questioni sollevate.
Pareyson presenta la propria teoria come «un’analisi dell’esperienza estetica»[5], indicando con questa espressione una posizione filosofica alternativa rispetto ad una generale «metafisica dell’arte» e ad una troppo specifica poetica o teoria critica. Il termine estetica indica così l’esigenza di mediazione tra universale e particolare, tra teoria ed esperienza, tra eteronomia ed autonomia in un continuo contrappunto interpretato, come vedremo, in chiave personalistica.
Prendendo le mosse da una suddivisione delle operazioni umane di ascendenza aristotelica, Pareyson distingue le tre sfere del pensiero, della moralità e della formatività. Il tratto distintivo della teoria estetica di Pareyson si trova nella definizione di formatività
come «un tal fare
che, mentre fa, inventa il modo di fare
»[6], modalità presente in tutte le operazioni umane ma – in quanto pura, specifica e intenzionale – caratteristica della sfera artistica. Il termine formatività
vuole indicare la contingenza di ogni processo artistico che, congiungendo in sé il momento della produzione e dell’invenzione, non si può analizzare come una semplice attività di realizzazione pianificata ma richiede di essere vista nella sua spuria perfezione come progressiva riuscita di un tentativo. Inoltre l’espressione formatività
rimanda al termine forma
, inteso non come semplice contrapposto di materia
o di contenuto
ma «come organismo, vivente di vita propria e dotato di una legalità interna»[7]: in tale contesto dunque esso viene declinato in senso dinamico e sta ad indicare la riuscita di un processo, l’esito di un’attività artistica che per il suo carattere operativo riguadagna una dimensione propriamente produttiva. La nuova interpretazione del concetto di forma
ha una duplice conseguenza: da una parte consente di porre al centro il lato tecnico e fisico dell’attività artistica (in aperta polemica con la posizione di Croce) ritematizzando il concetto aristotelico di materia
; dall’altra, invita ad un ripensamento della categoria moderna di contenuto
.
La teoria della formatività conduce dunque ad una nuova interpretazione dei tradizionali dualismi di materia-forma e forma-contenuto in termini dinamici.
Materia fisica formata
Come è stato detto, nell’arte la formatività diviene specifica e intenzionale e produce forme autonome provviste di una legge di sviluppo individuale. Ma il