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La coerenza di Milo
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La coerenza di Milo

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Un romanzo che entra nella realtà del vivere quotidiano; realtà descritta in maniera cruda e senza ombre. La vita appare qui in tutta la sua spregiudicata aridità. Essa si ritrova avviluppata dall'amarezza, quella che vede l'essere umano costantemente obbligato a dover fare i conti, giorno dopo giorno.
Una storia drammatica intrisa di sofferenze inspiegabili e ineluttabili, ma animata anche da slanci di speranza e da un tenace desiderio di ripartire, affinché la propria autenticità possa rimanere avvinghiata all'essere, in modo da non tradire la propria coscienza e perseguire, seppur dolorosamente, la strada della coerenza con se stessi.
LanguageItaliano
Release dateJun 7, 2015
ISBN9788898894376
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    La coerenza di Milo - Maria Grazia Fasciana

    978-88-98894-37-6

    Prefazione

     La coerenza di Milo, che presenta diverse chiavi di lettura, (da quella letterale a quella psicanalitica, da quella intimistica a quella socio-politica), è un romanzo bellissimo sotto ogni aspetto: è avvincente per la fabula che racconta; è intrigante per l’analisi e la coraggiosa denunzia della nostra società corrotta o corruttibile; è affascinante per l’evoluzione del personaggio principale che, pur mantenendo la sua coerenza, passa da uno stato di dolorosa sottomissione alla coscienza di sé; è piacevole alla lettura al punto che, una volta iniziato, si ha voglia di arrivare sino alla fine senza soluzioni di continuità, sicuri di non essere delusi. 

     La fabula ruota tutta intorno al protagonista, Milo, che l’autrice ha direttamente conosciuto in quel di Gela, anche se naturalmente, nella trasposizione letteraria, egli viene arricchito dall’estro creativo della Nostra, la quale, attraverso la tragica storia di quest’uomo, affronta un tema di scottante attualità, quello dell’omofobia, purtroppo sempre più dilagante nella società odierna, come dimostrano i tanti suicidi di adolescenti gay, che non hanno retto al peso del dileggio, a volte maligno, dei loro coetanei. Anche su Milo dunque, marchiato a fuoco per la sua omosessualità, pesa, come egli stesso ci confessa, un destino crudele, forse uno stigma che imprime la sfortuna a talune persone, sin dalla nascita, costringendole a passare attraverso le forche della sofferenza e della sventura, a dispetto di tutto ciò che esse potranno fare per impedirlo.

     Per tali esseri non vale certo l’affermazione di Appio Claudio Cieco: Quisque faber fortunae suae. Vien da pensare piuttosto al determinismo storico del Taine, secondo cui la personalità di ciascuno, e quindi il suo modo di agire e di porsi di fronte al mondo, è determinato da tre fattori: le milieu, la race e le moment. E il povero giovane, che guarda con occhi onesti alla vita e crede nella forza dell’amore, è costretto a vivere attorniato da lupi, pronti a sbranarlo, come quella volta in cui un macellaio becero, presso il quale lavorava, lo violentò stroncandolo nel corpo e nello spirito, o quell’altra in cui, volendo applicare le regole del vivere civile al suo posto di lavoro, venne pestato a sangue da quattro energumeni, mandati da chi voleva continuare a vivere nell’abuso. Una sola cosa potrà salvare Milo: il grande amore per un frate bellissimo, Rino, che gli dà la piena consapevolezza della sua omosessualità, per la quale, nell’ebbrezza degli amplessi ripetuti e liberi, non prova più imbarazzo alcuno. E noi lettori, come pure sicuramente l’autrice, dimentichiamo che si tratta di un amore fra gay o, peggio ancora, fra due religiosi, per cogliere soltanto la magica bellezza di questo sentimento, paragonabile a quella degli affreschi del Pinturicchio o di Pier della Francesca che fanno bella mostra di sé a Perugia.

     Possiamo comunque affermare che tutta l’opera è permeata dal pregiudizio nei confronti di Milo, pregiudizio che alligna non solo in Sicilia, ma anche a Perugia dove gli alunni che andavano da lui a prendere lezione, disertano la sua casa in massa, appena egli rivela la sua omosessualità. Esasperato da tutto ciò, Milo, non potendo uccidere il pregiudizio, ucciderà la sua madre adottiva, la strega, che l’aveva odiato, da quando bambino aveva scelto una bambola in un negozio di giocattoli, piuttosto che una macchinina o un trenino.

     Ma la cosa più grave è che questa società che lo condanna è quella stessa in cui un padre padrone stupra la figlia bambina imponendole il silenzio con terribili minacce, o quella in cui un quattordicenne, che ha visto o sentito troppo, viene ucciso e carbonizzato per mano della mafia, dopo che gli è stato ficcato un sasso in bocca, o ancora quella che negli ambienti del potere porta in trionfo i politici corrotti, lasciando in un angolo quelli onesti. 

     Nel libro della Fasciana c’è anche uno spaccato della Sicilia anni sessanta, coi suoi aromi di carne arrostita su bracieri fumanti o di carciofi allineati nella fornacella, col rosso dei pomodori spaccati in due e stesi sui cannizzi ad asciugare al sole, coi ragazzini vocianti nel vicolo attorno al carrettino di Nele ra granita, col nero della zia Ninù, vestita a lutto da sempre, con le cene di San Giuseppe, un misto di fede e folclore, che riuscivano ad animare per due giorni l’intera città.

     Lo stile procede armonioso, ricco di metafore, sciolto nel periodare ed elegante nell’espressione. Il finale, a sorpresa, si tinge di giallo, dandoci una chiave di lettura del romanzo, cui non avremmo mai pensato.

      Alfonsina Campisano Cancemi

    Questo romanzo è frutto dell’immaginazione.

    Persone e fatti reali sono trasfigurati dallo

    sguardo del narratore.

    O frati dissi "che per cento milia 

    perigli siete giunti a l’occidente,

    a questa tanta picciola vigilia

    d’i nostri sensi ch’è del rimanente

    non vogliate negar l’esperienza,

    di retro al sol, del mondo sanza gente.

    Considerate la vostra semenza:

    fatti non foste a viver come bruti,

    ma per seguir virtute e conoscenza."

    La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI

    1

    Il suo sguardo era immobile, i gomiti appoggiati sul ciglio della finestra. Guardava, forse per l’ultima volta, quel paesaggio ormai familiare. La giornata s’impregnava di tristezza e la caligine si mescolava alla sua ansia.

     Il vento lambiva appena le foglie del castagno posto di fronte alla finestra e trascinava, a suo piacimento, un debole foglio di carta. Lo sollevava da terra, facendolo balzare ora su un prato, ora sulle spine di un rovo, fino a farlo precipitare rovinosamente dentro una pozzanghera, dove, rassegnato all’ineluttabile destino, avrebbe iniziato la sua decomposizione.

     Milo era preparato a quell’avvenimento, sapeva che era la conseguenza della sua sofferta decisione.

     Eppure sarebbe stato sufficiente avere il coraggio di nascondere una verità che nessuno gli aveva chiesto e la sua vita avrebbe potuto continuare il suo corso, in quella tranquilla oasi che si era costruito. Ma egli non riusciva a far tacere la voce della sua coscienza che prepotentemente ed ossessivamente si insinuava tra i suoi pensieri. Quel gesto aveva offuscato la limpidezza della sua anima, spezzando quella coerenza che da sempre aveva rappresentato il pilastro fondamentale della sua vita.

     Lei era stata il capro espiatorio del suo fallimento, la colpevole dell’incompiutezza della sua esistenza. Quante volte aveva tentato di dare un senso alla sua vita! Come un guerriero furioso aveva inseguito le note di una musica melodica capace di riempire il suo cuore, riuscendo a catturarla. Non si era potuto sottrarre, tuttavia, ad un destino cinico e crudele che aveva dissolto quel suono ingannevole ed illusorio, lasciando di sé solo un’impercettibile scia, un ricordo vago, fugace ed imprendibile.  

     L’essere umano non è perfetto, può sbagliare, ma deve pagare per i suoi errori ripeteva a se stesso. Ma cosa cambia? Ribatteva la sua ragione. Forse se paghi restituisci ciò che hai sottratto? No! E allora a cosa serve pagare? 

     A ripristinare la giustizia.

     E cosa te ne fai della tua giustizia, in questo mondo ingiusto? 

     Che me ne faccio? Ti sembra poco non contribuire ad alimentare l’ingiustizia?

     E ti poni nella condizione di affrontare tanta sofferenza, in nome di un principio che solo alla tua coscienza può importare?

     E ti par poco? 

     Pensa a quanta gente commette reati e non paga, non sarebbe un’ingiustizia per te, pagare se tanta gente la fa franca?

     No, sarebbe un’ulteriore ingiustizia che mi farebbe vivere male. Sono sicuro di potere vivere meglio una volta scontato il mio debito.

     Aveva sistemato tutto: chiuso la caldaia, staccato i contatori e svuotato il frigorifero. Aveva ricoperto i divani e i mobili rendendo anonimi tutti quegli oggetti che tanto avevano rappresentato per lui.

     In cuor suo però, aveva la speranza di ritornare in quella casa. L’avvocato gli aveva assicurato di fargli ottenere i domiciliari. Ma la giustizia è lenta, ha i suoi tempi e nel frattempo doveva stare in carcere.

     Quando arrivarono i gendarmi lo trovarono davanti all’uscio, seduto sulla sua carrozzina, con le stampelle e la valigia accanto, pronto a consegnarsi.

     L’uggiosa atmosfera accompagnò il suo viaggio e non lo abbandonò neanche quando si lasciò alle spalle il lacustre paesaggio. Davanti a sé vedeva il vuoto: chissà se i suoi pensieri, i ricordi e le sue riflessioni sarebbero divenuti leuciti, per riempirlo, per dargli un senso.

     Gli sembrava strano varcare la soglia di un carcere, un luogo dove mai aveva messo piede, nel quale mai avrebbe pensato di approdare.

     Ai tempi del sacerdozio padre Tullio gli aveva parlato di un carcere in provincia di Macerata, dove si recava per dare sostegno ai detenuti. Adesso anche Milo avrebbe avuto necessità di quel sostegno, ma quanta vergogna avrebbe provato ad incontrare un prete di sua vecchia conoscenza.

     Avvertiva un senso di malessere, si sentiva frustrare l’anima anche se la curiosità, nel contempo, apriva un varco alla speranza.

     Non sono un tungsteno, ma credo di riuscire a sopravvivere. Troverò dentro di me le ragioni, la forza, l’universo. Ho una forte resistenza interiore, ce la farò! Diceva a se stesso.

     Quando mise piede in quel luogo ogni buon proposito fu come incastonato in spesse lastre di ghiaccio. L’angoscia straripava, promanava da ogni oggetto, da ogni movimento delle guardie. Il rumore dei cancelli di ferro che venivano aperti e subito sbarrati, bloccati dai giri dei chiavistelli. I passi rumorosi che ridondavano nei lunghi corridoi. Il silenzio che lasciava percepire il mutismo della solitudine e della rassegnazione e, nello stesso tempo, l’urlo del dolore, della sofferenza, dell’impotenza.

     La sua stanza era piccola, troppo piccola per ospitare un uomo in carrozzella: c’erano due lettini a castello, un tavolino ed un gabinetto con un lavabo posti nell’angolo estremo. Il carcere era pieno e quella stanza risultava la meno straripante: così gli avevano detto. In uno dei lettini bivaccava un uomo di giovane età, con lui avrebbe dovuto condividere i giorni e le notti, dentro quella piccola cella, dal momento in cui la guardia avrebbe chiuso la porta. Da quell’istante il mondo, per lui, fu circoscritto attorno a quel piccolo spazio.

     «Sono Gamir, vengo dalla Romania.» Gli disse l’uomo, senza degnarlo di uno sguardo. 

     Milo si alzò dalla carrozzella e si adagiò sul letto, la sua mente vagava confusa: cercò di incastonare i suoi pensieri rivolgendo il suo sguardo e la sua attenzione verso le pagine del libro che fino a quel momento aveva tenuto stretto sotto il braccio.

     L’uomo scese dal letto e si diresse verso il water. L’esalazione mefitica s’impadronì della stanza ed un senso di nausea fece contorcere il suo stomaco. Si alzò di scatto, vomitò un viscido liquido verdastro: non era cibo, non aveva mangiato nulla dalla mattina. Vomitava il mondo, quel luogo, i giri dei chiavistelli, la sua dannata ostinazione ad essere coerente a tutti i costi, sottovalutando la sua incapacità di adattamento. 

     L’uomo gli andò in soccorso, si scusò.

     «Non c’era un altro posto dove avrei potuto evacuare.»

      Gli disse dilatando le parole.

     «Non è niente», rispose Milo.

     «Ma come sei finito qui?»

     «La mia è una storia lunga, Gamir… Tu perché ti trovi in carcere?»

     «Spaccio di droga, istigazione alla prostituzione. Custodia cautelare, sono in attesa del processo da un anno.»

     «L’hai commesso il reato?»

     «Sono stato colto in flagranza, per la prima accusa, per la seconda non ci sono prove, ma l’ho commesso. Il mio avvocato dice, però, che ho buone speranze… Sembri una persona perbene tu, non credo che ti adatterai facilmente a stare in questo posto. E’ veramente dura stare qui! Sarebbe stato meglio se fossi rimasto in Romania. E’ una merda questo posto, anche se, rispetto ad altre carceri, ho trovato gente più tranquilla, più umana. A Napoli ho visto l’inferno! Ne ho passate di brutte: violenze fisiche e carnali, da parte di alcuni maiali giustamente internati lì. Sono stato trasferito grazie all’intervento di un prete.» 

     «Sarà stata la giustizia divina che avrà voluto pareggiare i conti, perché ciò che hai commesso, non è bello! Chissà quante persone avrai fatto soffrire!» 

     «Ma che cazzo stai a dire, ma chi credi di essere? Guarda che sei anche tu in carcere e se sei qui avrai pur commesso qualcosa di grave, non credi?»

     «Io sono qui perché voglio pagare per il mio errore, e per mia scelta.»

     «Cioè?»

     «Mi sono auto-denunciato!»

     «Quale gran coglione ho di fronte!» Blaterò l’uomo con sguardo indignato.

     «Ma sputati in faccia. Ti sputo io anzi!»

     Gamir lanciò con rabbia uno sputo, beccando Milo in faccia e, non contento, gli sferrò un calcio.

     Milo aveva la stampella in mano, avrebbe potuto colpirlo, ma non lo fece. Non reagì.

     Pensò che forse quel ragazzo aveva ragione, era stato davvero uno stupido e, se non lo fosse stato, ora, non si sarebbe trovato lì. 

     Chiuse gli occhi e si strinse la fronte con le mani. 

     Il ragazzo prese una pezza bagnata e lo pulì.

     «Non mi devi giudicare, non devi farlo mai più. Io riservo alla vita degli altri ciò che la vita riserva a me. Anzi la vita con me è stata più crudele di quanto io non lo sia stato con gli altri. Nonostante tutto conservo ancora un’anima, sai? Certo è sporca, ferita, da riparare, ma ce l’ho ancora.» 

     «Hai un gran bisogno di curarla la tua anima!» Aggiunse Milo.

     Poi si rimise a letto e continuò a leggere, non consumò la cena. 

     «Potresti aiutarmi tu, a ripararla, ma prima pensa a curare la tua!»

     Trascorse giornate spente, fotocopiate, emozioni dolorose, clonate. Anche il pensiero lo sentiva coartato, immobile, incapace di accendersi. Ridusse al minimo i bisogni corporei evitando di mangiare, si alzava solo per urinare o defecare, per il resto dormiva. 

     Beveva solo acqua ed un po’ di latte al mattino, non utilizzava l’ora d’aria. Era ingessato sopra quel letto, come paralizzato. Dormiva, ed il sogno era il suo nuovo mondo, la sua vita. Come quella reale anche la vita onirica non sempre era bella: spesso costellata da brutti accadimenti, da paure, da terrorizzanti figure. Ma, a volte, gli consentiva di vivere momenti paradisiaci. Sognava spesso Rino: lo vedeva esile e smunto, privo dello splendore che lo caratterizzava e, dopo estasianti amplessi, lo abbandonava sempre. Nel sogno tutto si mischiava, vagolava come energia sospesa nello spazio, senza limiti, senza tempo. Il suo pensiero creava entità infinite che diventavano fatti, avvenimenti, che si intersecavano, sostavano insieme in luoghi e tempi non definiti, privi di forza di gravità. Svanivano nel giro di pochi istanti, per poi ricomporsi: accendersi e spegnersi, comparire e scomparire, esserci e non esserci, sapere e non sapere, svegliarsi e dormire, luogo e non luogo, spazio e infinità, tempo e finito.

     Una massa informe, la sua mente, scrollata dalla realtà, piombava negli abissi onirici.

     «Puzzi come una carogna!» Sentiva urlare di tanto in tanto.

     «Alzati, Cristo, almeno per lavarti, perché non defechi sul letto, giacché ci sei?»

     Ogni tanto il Rumeno gli lanciava qualche oggetto addosso, ma Milo non se ne accorgeva, forse non sentiva più nemmeno il dolore o non distingueva se era reale o se lo sognava, immerso com’era nel sonno profondo.

     A lungo andare non ebbe più la forza di alzarsi neanche per andare ad urinare, né per bere. Il letto era solo il deposito di un corpo assente, di una mente che vagava nel mondo onirico senza necessità della materia. Ma era la materia che alimentava un cervello capace di farlo sognare. Il suo sogno non sarebbe durato a lungo senza attingere energia dal corpo. Milo, però, non si poneva questo genere di problemi. Furono le proteste di Gamir che indussero le guardie a condurlo in ospedale. Lui continuava a dormire. Sentiva il trambusto attorno a sé, ma non intendeva svegliarsi, né reagire. 

     Si ritrovò sul letto di

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