La contabilità della gioia
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La contabilità della gioia - Luisa Fontana
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Collana Sentieri
La contabilità della gioia
di Luisa Fontana
Proprietà letteraria riservata
©2015 Edizioni DrawUp
Latina, Italia
Progetto editoriale: Edizioni DrawUp
Direttore editoriale: Alessandro Vizzino
Grafica di copertina: AGV per Edizioni DrawUp
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.
I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.
ISBN 978-88-98980-38-3
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PARTE PRIMA
DONNA D’ACQUA
Donna d’acqua
nell’acqua
donna umida
lava i pensieri per ore
donna liquida
di lacrime femminili
di fatiche femminili
di dolore e piacere
resta uguale lei
nonostante
il tempo che passa
sul corpo sulle mani sulla fronte sugli occhi sui capelli piccoli tagli verticali al confine delle labbra in cui si insinua il rossetto
assolutamente bella
per perfezione e consapevolezza colpisce
il centro del cuore
bersaglio
e non fa male che a se stessa
per l’amore che si porta
travestita d’ori e d’argenti
di perle d’oriente
di seta lavata
corazzata d’acciaio
si spoglia e si concede
come in un sacrificio definitivo di sangue ma è immortale
risorge
con la prepotenza delle umiliazioni stramba creatura
che si ricopre come madonna pellegrina di un velo grigio
di sofferenza e di mestizia
ma il sorriso balugina e trapassa come il pugnale che porta trafitto nel centro del cuore
bersaglio
è un sorriso assassino
sotto sette maschere
di gatto sornione e magico
la gente si tiene alla larga
dal suo pericoloso mistero
stringe tra i denti la luna
per offrirla
in dono.
L’ho perso. Ormai irrimediabilmente.
Il file discantopuntodocduepunti è scomparso all’improvviso quando il mouse ha smesso di andare su e giù e avanti e indietro nordsudovestest e la freccia ha cominciato a saltellare qua e là tutta libera e allegra come uno sberleffo.
È vero che a un certo punto accanto al nome era comparso un inquietante recuperato ma chi se ne frega che tanto c’è il salvataggio automatico ogni cinque secondi.
Sbagliato. Molto sbagliato non seguire gli avvertimenti dell’alta tecnologia, che poi quella si vendica con chi come me ne capisce una sega e usa il computer come una macchina da scrivere. Forse lui sente questa mancanza di rispetto e colpisce gli analfabeti digitali con la più sadica delle sevizie.
E io ti cancello tutto trallallà.
Venti pagine si è mangiato in un sol boccone e anche digerite perché non stanno più da nessuna parte. Venti pagine per ri 41 per col 60 per un tot di 20.000 caratteri è una bella sfiga.
Cerca in pctools pc toolls comando o nome di file errato.
Welcome in pctools! Tutte le directory possibili. Introvabile.
Dosshell. Undelete. Introvabile. Ovunque resta solo il nome.
Vaffanculo, computer! E io ti spengo.
E manca anche la carta per scrivere. Come sempre in questa casa di bambine studiose e di mamma insegnante. Eppure è indispensabile come la carta igienica. Se uno deve scrivere deve pur trovare almeno un corrispettivo all’erba del prato o alle foglie di fico. Così cerco. La ricerca è già una bella cosa.
E finalmente la trovo nell’orrendo casino dei segreti cassettini delle deliziose bambine studiose. Tra diari segreti, cartoline, ritagli e chincaglieria varia, qualche calzino sporco, collanine, braccialettini, giochini, puffi e una sorpresa su cinque, lottando con il gatto rosso di casa (l’ovvio Isidoro), che ha deciso di posizionarsi proprio su quello che mi interessa, recupero quello che resta di un quaderno grande, a righe, serie non firmata, che fa buona impressione alla mia nuova mentalità di ragioniera per forza.
Bene. La carta è trovata.
Non scateno analoga caccia al tesoro metafisica per una penna nera bic classica punta grossa, l’unica con cui riesco a scrivere perché mi va in rotondo e srotola meglio, mi sembra, per questa sua inchiostrante circolarità, i pensieri e la pagina ne viene fuori che pare fiorita. Odio le punte fini che mi realizzano incontrollabili dispettose acidità grafiche. Sarà un segnale sessuale dell’inconscio profondo?
Chiusa prima, seconda, terza e infinite parentesi. O che sia meglio chiamarle finestre?
Ce l’ho già. Ho il mio astuccetto da professoressa arancione similserpente. Ci sono voluti anni di impegno costante per convincermi che è più facile ritrovare la penna nera carissima e quella rossa e quella blu e magari anche la matita se le tengo prigioniere in un contenitore con cerniera.
Non siamo ai livelli delle colleghe di maggior prestigio che circolano con Piquadro in pelle rossa e profili azzurri o Samsonite nera telata h24, tutto a posto, tutto in ordine, anche il telefonino nella tasca esterna, un regalo del marito o del moroso, non si sa mai dovesse chiamare d’urgenza. Essere chiamato no, perché o è staccato o è esaurito o lui è impegnato lasci un messaggio in segreteria sarà richiamato quanto prima.
Non che l’astuccio esaurisca i problemi, per via dei cappuccetti che scappano sempre. Ci sarà qualche maligno spiritello nemico delle professoresse che le tormenta con lo scambio dei cappuccetti.
Cappuccio rosso! Penna rossa! Facile no!
Invece sbagliato. Cappuccio rosso su penna verde. Verde?
Lo scopro scrivendo sul registro. E da dove salta fuori una penna verde? Devo averla rubata a qualche studente in un attacco inconsulto di cleptomania e di invidia coloristica.
Comunque: ho la penna, ho la carta. Posso finalmente scrivere.
Ho fretta di scrivere
perché le parole
pensate
potrebbero scappare.
Posso?
Non ancora. Il gatto miagola. Bisognoso d’affetto, mi si attorciglia sulle gambe e risale per i jeans come se fossi un albero.
Belle unghie! Sarà il caso di comprargli un tronchetto. E finalmente passeggia sul tavolo di cristallo sospeso sulla trasparenza. Stregatto maligno.
Intanto le bambine hanno inventato un gioco curioso. Registrano le loro conversazioni, litigi compresi, e poi le riascoltano. È in onda una Cenerentola con lancio di piattini e bicchierini e con insulti che non oso ripetere (dal Coniglio e il pupazzo di catrame, Dio che citazione!) che starebbero meglio in un film di Fassbinder, tanto per intenderci, più che in una lieve favoletta. Il risultato è che sono due voci vere e due voci registrate, per un totale di quattro vocine acutine, che sinceramente turbano un pochino il mio orecchio letterario. Ma tant’è. Giusto che si può scrivere in qualsiasi situazione, altro che la camera per la scrittura. Se c’è il bisogno non c’è distrazione che trattenga.
Ho una vena di felicità in corpo assolutamente assurda e totalmente ingiustificata ma è lì insinuante e provocatoria.
Sembra guardarmi dall’altra parte del tavolo attraverso il cristallo trasparente. Ha anche il piede destro al caldo sotto il sedere e fuma, mi fuma in faccia e sorride come quando faccio le prove di autoaiuto, il mattino, davanti allo specchio.
Finché sto in bagno tutto bene, mi sorrido, ma che bella giornata, ma che buon inizio, mi trovo anche bella, bella bocca, faccia strana, capelli accesi. Poi esco e mi chiudo dietro la porta e dentro col caldo e il vapore resta anche il mio sorriso.
La fila di piastrelle oltre il bagno è come l’orlo del precipizio in cui cado ogni mattina, alle 7.30 circa.
Mi ritrovo lì dentro la sera tardi, quando mi immergo nell’acqua calda della vasca come se rientrassi nel ventre di mia madre. Dopo la sacra abluzione d’acqua, di vapore e di schiuma, posso affrontare la notte.
Strano, improvviso come un taglio di forbice su pellicola in montaggio, mi spezza i pensieri.
«Si amano in classe» arriva declamando Domitilla, «si amano e oggi mi hanno tirato su le gonne. Un sacco di stupidaggini fanno.»
Dico io: «Chi si ama?»
«Oh, Andrea e Matteo.»
La guardo un po’ stranita. Lei capisce al volo.
«Ma sì, la Maria Andrea e Matteo» dice, come a voler rimettere le cose a posto.
«Ah!»
«E chi ti tira su le gonne?» chiedo un po’ ansiosa, immaginando scenari drammatici di molestie sulla mia bambina e riesco solo a dire, «e poi che altro fa?»
«Ma niente. Io urlo e scalcio come suggerisci sempre di fare tu.
Sono solo bambini stupidi. Dicono che se io gli faccio vedere la mia farfallina, poi loro mi mostrano il pisello. Ma io non sono per niente interessata a vedere i piselli. E poi non lo dico alla maestra per non metterli nei guai. Per questa volta.»
Fine del dialogo. Decido per un atteggiamento sereno.
Sta già telefonando alla nonna grossa per spiegarle come si fanno le buste da lettera.
Le nonne si distinguono per stazza, come le navi, c’è una nonna grossa e una nonna secca, ma il peso è esattamente proporzionale alla capacità di abbraccio affettivo. È una precisazione doverosa. E
poi le suona anche un po’ il flauto.
Segue il salto della corda e il percorso di guerra pancia a terra tra i divani. Rinuncio a seguirla con lo sguardo e con la mente.
Allora quella vena di felicità? Si sarà distratta stancata annoiata insomma se n’è andata oltre i vetri della vetrata, oltre lo scuro della sera che intanto ha avvolto questa casa dispersa entrandole dentro come il mare in un relitto.
Inondata e affondata nel buio e nel silenzio di questo posto lontano dalle consuetudini urbane e dalle rotte degli automobilisti.
Uno di quei posti ai confini con la campagna, buoni per gli esuli della scopata veloce in macchina. Il sabato sera realizza la scopata a nastro con ordinato succedersi di vetture e di coppie tutte rispettose del turno se il posto è già occupato, fari bassi per non disturbare.
Qualche volta un ingiustificato suono di clacson segnala un eccesso di passione e qualche volta arrivano i carabinieri con tanto di lampeggianti a spegnere passioni e a ricacciarle nelle mutande.
Noi facciamo da spettatrici involontarie per via di queste enormi pareti vetrate.
Rivoglio il mio spettro di felicità.
Il fatto è che oggi credo di aver preso una decisione e non so bene come mi sento, ma so che è una decisione necessaria che comporta di entrare in una fase di progetto per cui forse la linea nera e mortifera dei miei pensieri potrebbe disegnare una sinuosità nuova.
E sarebbe ora.
Risveglio in rianimazione. 2 gennaio. Ora imprecisata e imprecisabile.
Giovani donne sconosciute vestite di bianco armeggiano per togliermi le mutande.
Mi girano su un fianco, tendono le lenzuola con accurata professionalità, poi sull’altro fianco, mi sostengono con mani forti.
Mi ristendono. Mi sistemano una serie di fili sul seno, cui aderiscono con morbide ventosine. Tirano su le metalliche sponde del letto e se ne vanno portandosi dietro voci basse e indifferenti.
Sono sola. Mi ascolto. Nessuna sensazione di dolore, neanche una memoria. Nessuna.
Un grande sonno mi si porta via. Di nuovo? Da quanto? Per quanto?
Un sonno strano.
Un’assenza lucida dove nella finzione del buio da psicofarmaco in dose non terapeutica
galleggiano
di materia
i rumori.
«Signora, cosa ha preso? Quante? Cosa?» e insistono, insistono.
Di nuovo.
«Cosa ha preso? Quante? Dai con la lavanda... ne conto cinque... sette... signora quante ne ha prese?»
Io sento e non rispondo. Non mi va di parlare. Che cazzo vogliono?
«Ha bevuto alcol?»
«Chi, io!? Non mi piace. Proprio i superalcolici no. Sono amari e bruciano. Vino bianco piuttosto sì, qualche volta, o il Martini dolce...»
«Ma che cazzo dice...»
«Ma stasera, stanotte no, non credo, non mi pare, non ricordo.»
Mi rifiuto di rispondere.
E poi questo chi è che vuol sapere i fatti miei ora? Non ho la vena confidenziale. Così taccio e comunque qualsiasi fantasma di movimento mi sarebbe una fatica insopportabile. E a forza di tacere sento che me ne vado. Non ci sono più. Non farò più nulla. Sto bene così.
Questo è morire? Allora morire è gradevole come un anestetico?
Non c’è paura, non c’è dolore, non c’è più ansia, solo questa piccola attesa che tutto si spenga, tutti gli interruttori, tutti i circuiti.
Chiusi gli occhi, chiuse le labbra, chiuso il corpo, chiuse le emozioni, chiusa la mente.
Solo lo so che non sono morta perché giungendo fin dentro la testa
galleggiano
di materia
i rumori.
La nausea mi prende la gola, me la strizza, risale improvvisa il palato fin nel naso. È così che riapro gli occhi. E torna immediato il fastidio di esserci. Non vomito. Non ho nulla da vomitare. E allora piango. Piango e mi muovo,