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L'ombra sulla gora
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L'ombra sulla gora

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About this ebook

In una Toscana diventata un’immensa rovina, una donna tormentata e percorsa da un dolore profondo, continua a lottare per la propria famiglia. Con il marito disperso in Russia dopo mesi di guerra in Grecia, con i cognati morti e mutilati, una famiglia stanca e vecchia, lei, Romana, combatte la sua solitaria Seconda guerra mondiale.
E lo fa senza mai vedere spegnere la fiammella del proprio amore.
E giorno dopo giorno scopre che alla fine anche di un abbraccio o di un bacio lontano, qualcosa rimane di indelebile, forte, immenso ed eterno.
Con “L’ombra sulla gora” Roberto Andreuccetti ha scritto un romanzo corale, ambientato a Diecimo, nella valle del Serchio, negli anni della guerra.
E non mancano mai i sognatori, gli opportunisti, i folli, i cattivi, che contribuiscono a gettare ponti o seminare ostacoli, in questa lunga storia. Ma alla fine la vita trionfa come scopre Romana, che attraversa le lande più desolate del dolore, per poi ritrovare una luce nuova: quella dell’amore.
LanguageItaliano
Release dateMar 7, 2016
ISBN9788899735074
L'ombra sulla gora

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    L'ombra sulla gora - Roberto Andreuccetti

    Roberto Andreuccetti

    L’ombra sulla gora

    Romanzo

    Argot edizioni

    © Argot edizioni

    © Tra le righe libri

    © Andrea Giannasi editore – Lucca

    ISBN 978 88 99735074

    www.argotedizioni.it

    CAPITOLO I

    LA VITA SULLA GORA

    L’acqua della gora scorreva placida e sonnolenta fiancheggiata da staccionate e orti, accarezzava gli steli dell’erba dondolanti dalle rive ed alitava con il suo tranquillo gorgogliare sopra l’occhio curioso dei numerosi ciottoli sparsi sul fondo.

    Le fronde degli ontani tremolavano sotto il respiro lieve dell’aria di quel pomeriggio inoltrato di luglio e le cicale insistevano monotone nel loro stridulo canto che si perdeva nella campagna assediata dai caldi raggi di un sole opprimente.

    Giacomo sbatteva la punta di una canna nel centro della gora divertito dal formarsi di piccoli spruzzi che ogni tanto lo investivano, mentre poco più in là una donna risciacquava i panni strofinandoli sulla pietra liscia del lavatoio.

    Quel corso d’acqua, una derivazione del torrente Pedogna, aveva origine da una diga artificiale creata a monte; portava la vita all’intero paese di Diecimo regalando energia motrice ai vecchi mulini ed ai frantoi che azionavano i loro ingranaggi per mezzo di quella forza naturale, annaffiava i campi di granoturco e di erba medica riarsi dal sole, dava sollievo agli animali assetati e permetteva alle massaie di lavare i numerosi indumenti utilizzati dalla famiglia durante il lavoro.

    Qua e là, gruppi di ragazzi chiassosi giocavano sulle sue rive protetti dall’ombra degli alberi che formavano un grande ombrello verde e fungevano da naturale protezione contro i raggi cocenti del sole.

    In epoca antica Diecimo era una località di sosta delle legioni romane. Situato nel cuore della media valle del Serchio a circa dieci miglia da Lucca, aveva per questo motivo preso quel nome. Il paese è attraversato dalla ferrovia che partendo proprio da Lucca congiunge i vari centri della valle; Piaggione, Borgo a Mozzano, Bagni di Lucca fino ad arrivare a Castelnuovo Garfagnana ed infine a Piazza al Serchio.

    Le strade che in anni passati collegavano Diecimo con le frazioni collinari erano percorribili soltanto utilizzando le mulattiere perché le strade transitabili da veicoli, anche se sterrate e malridotte univano soltanto i centri più grandi e più popolosi. Fra queste la più famosa era la romana via Clodia. Molti nomi delle località nei dintorni di Diecimo, avevano proprio radici romane come: Avarano, Lugnano, Anchiano e Dezza che derivavano dal nome latino di importanti personaggi (Varius, Linius, Ancharianus e Decius). Recenti scavi effettuati hanno scoperto resti risalenti proprio a quell’epoca. Una indicazione dell’importanza di Diecimo durante il periodo romano è il fatto che questa località fu scelta per essere Pieve, vale a dire il centro religioso dell’area e per questo motivo vide la costruzione di una importantissima chiesa. Il primo documento dove si parla della pieve di Diecimo risale al gennaio 761 dopo Cristo. Nel 901 ci sono riferimenti su Pastino, una piccola località a due chilometri da Diecimo, anch’essa attraversata dalla via Clodia e dove era stata costruita una piccola chiesa romanica con attiguo un arco che oggi non è più visibile perché crollato. La costruzione della chiesa nella pieve di Diecimo si ebbe intorno al XII secolo per opera della contessa Matilde e fu dedicata al culto della Vergine Maria. La torre campanaria vide l’inizio della costruzione un secolo dopo intorno al 1200 ed è sicuramente una delle più belle della lucchesia, con due ingressi sovrapposti e due ordini di mensole in pietra, forse adibite a sorreggere camminamenti in legno ad uso militare in quanto la struttura fungeva anche da prigione. Il campanile ha dieci aperture su ogni facciata costituite da finestre quadrifore, trifore, bifore e monofore che si ritrovano nella torre campanaria del duomo di Lucca. Fino al 1728 Diecimo fu parte del sistema feudale di quella città. La contessa Matilde, signora di Lucca, fu fondamentale nel riconoscere in Diecimo un centro importante e fu parzialmente responsabile dello sviluppo della sua vita ufficiale. I documenti dell’epoca confermano che Pastino e la strada che attraversava Diecimo era di importanza strategica perché controllava il transito attraverso l’intera valle del Serchio e soprattutto con la parallela via del Brennero, collegava la Versilia con l’Appennino pistoiese. Nel XIV secolo Castruccio Castracani dotò Diecimo di fortificazioni difensive, mura di protezione ed una torre di difesa che si può ammirare ancora oggi e che è situata nella piazza centrale del paese.

    Diecimo ha dato i natali a San Giovanni Leonardi e conserva ancora la sua casa natale oggi trasformata in museo.

    Anche Giacomo Puccini che transitava spesso da Diecimo durante le sue trasferte da Celle a Lucca ha lasciato dei versi dedicati alla sua imponente pieve romanica:

    "Anche l’antica pieve qui si ammira

    di politi macigni a meraviglia

    con l’alto campanil che al cielo aspira

    e con le sfere stesse si consiglia."

    Romana stava lavando una grossa cesta di panni ed in attesa che Oreste tornasse dal campo, dove si era recato per innaffiare il granturco, svolgeva quel compito faticoso indirizzando ogni tanto lo sguardo verso il figlio Giacomo perché temeva si sporgesse troppo dal bordo della riva rischiando di cadere in acqua. Il bambino aveva da poco compiuto sei anni e nel mese di ottobre avrebbe iniziato a frequentare la prima classe della scuola elementare.

    Romana era una ragazza bruna con i capelli lisci che cadevano sciolti sulle spalle, aveva lineamenti morbidi con due occhi luminosi e chiari ed una bocca con labbra sottili e delicate sempre aperta ad un sorriso radioso. Un seno rotondo e sodo metteva ancor più in risalto un corpo perfetto ed armonioso. La ragazza incarnava la classica bellezza mediterranea. Aveva sposato Oreste, il più grande dei fratelli Santi, ancora giovanissima; appena diciannovenne aveva avuto subito il figlio e viveva con la madre vedova di guerra ed un anziano nonno in una modesta abitazione situata proprio ai margini della gora.

    Quella vetusta dimora, una delle più antiche del paese di Diecimo, costruita con pietre di fiume e circondata da baracche e capanne dove abbondava il cotto delle tettoie e le mandolate di mattoni per pareti, era isolata in mezzo alla campagna e circondata da campi e da orti; poco più lontano, al limitare della collina, facevano bella mostra i vigneti e gli oliveti.

    Attigui alla casa c’erano, la stalla con il fienile, la conigliera, lo stallino del maiale, una grande concimaia ed una rimessa di legna necessaria per il forno ed il camino. Fra la casa e le baracche si apriva una grande aia, perlustrata e battuta giornalmente da famiglie di chiocce con i pulcini e da polli ruspanti osservati con occhio vigile dal gallo, il vero padrone di quello spazio aperto.

    Sulle rive della gora gruppi di oche frugavano con il becco le loro piume dopo aver nuotato ed aver immerso il lungo collo nell’acqua alla ricerca di cibo.

    La famiglia di Oreste lavorava a mezzadria la gran parte dei terreni prossimi alla casa, mentre possedeva in proprio soltanto una piana irrigua dove veniva seminato il grano ed altri cereali come l’orzo, l’avena e la scandella.

    La vita quotidiana era impegnativa, con un lavoro continuo e logorante, portato avanti con le forze dei tre componenti più giovani della famiglia, Romana, la madre Rosa, vedova di guerra, ed il marito Oreste.

    Il nonno Ernesto, rovinato dall’artrosi e da una vita dispendiosa trascorsa quasi per intero nei campi e nelle vigne, non era in grado di fare più niente, se non muoversi appena per la casa, accendere il fuoco, andare a prendere un fiasco di vino in cantina ed intrattenere con le sue storie il piccolo Giacomo.

    La vita scorreva lenta in quella casa colonica ai margini della gora, che la lambiva quasi volesse accarezzarla, nel silenzio di una campagna fiorente e rigogliosa. Gli eventi che si susseguivano in Italia e nel mondo arrivavano smorzati e portati da confidenti occasionali come poteva essere il padrone del terreno, l’anziano e burbero signor Ranieri, che quotidianamente si recava in paese ed acquistava il giornale.

    Era l’estate del 1940; la guerra era stata dichiarata da Mussolini all’Inghilterra e alla Francia, circa un mese prima e anche se la notizia aveva suscitato approvazione da parte di una larga fascia di popolo, nella famiglia di Oreste c’era sconcerto e preoccupazione.

    Il giovane aveva da poco compiuto ventisei anni era sposato e aveva un bambino; essendo il più grande di età fra quattro fratelli, in caso di richiamo avrebbe dovuto lasciare la famiglia per recarsi al fronte. Cercava di allontanare quella angosciante ipotesi, proprio perché era padre di un bimbo piccolo, ma i due anni di leva e di addestramento presso Borgo San Dalmazzo nel IV Reggimento Artiglieria da Montagna, facevano ritenere probabile, in caso di bisogno un repentino richiamo alle armi.

    Cercando di allontanare foschi presagi, Oreste continuava a lavorare la terra. Nei campi dietro la casa il grano era già stato mietuto ed ammassato in grandi covoni; si stava attendendo soltanto l’arrivo della macchina che avrebbe provveduto alla trebbiatura. Quel giorno, mentre Giacomo trascorreva il tempo giocando sulla gora e la moglie Romana insisteva con tenacia nel lavare i panni al lavatoio, era tutto preso dall’attività di portare acqua alle lunghe file del granturco. Doveva correre perché il suo turno stava per scadere.

    L’acqua della gora, che in estate era la salvezza delle colture sparse nei numerosi campi del paese di Diecimo, non poteva essere attinta in esubero, ma era obbligatorio attenersi alle regole imposte dalla comunità agricola del paese.

    Veniva stilato un calendario che includeva il servizio nelle ore serali e notturne; ogni contadino innaffiava il campo sempre alla stessa ora. Allo scadere del proprio turno, anche se il lavoro non era terminato doveva abbandonarlo per lasciare il compito dell’innaffiatura a colui che seguiva.

    L’acqua era una risorsa importante e preziosa e doveva essere usata con parsimonia. Durante la fase della irrigazione dei campi, la gora non poteva essere prosciugata, ma una parte dell’acqua andava lasciata scorrere per permettere alle massaie di risciacquare i panni nei lavatoi, ma anche per tutti gli altri servizi che per mezzo di essa si rendevano indispensabili. Importante era soprattutto non lasciare mai senza acqua la ruota del mulino che permetteva allo stesso di funzionare. Per questo motivo l’innaffiatura nelle ore del giorno non era permessa, ma iniziava sempre a sera verso le ore diciassette o diciotto, per terminare al mattino intorno alle otto. Se il contadino che aveva a disposizione l’acqua nell’ultimo turno si dilungava nel lavoro sforando l’orario, vedeva arrivare nei pressi del suo campo il mugnaio che con parole dure lo sollecitava e lo apostrofava.

    Mamma! Mamma, corri, mi sono bagnato!

    Il grido disperato di Giacomo attirò l’attenzione della madre che lasciò velocemente la postazione nel vecchio lavatoio per correre a vedere che cosa fosse capitato al figlio.

    Ecco! Lo sapevo! Non posso stare senza guardarti per un attimo!

    Il piccolo era infatti scivolato dal bordo del corso d’acqua e si era bagnato fino ai capelli.

    Ti ho detto mille volte di stare attento quando giochi sulla gora!- continuò la madre alzando la voce, mentre Giacomo scoppiò in un pianto dirotto.

    Considerato però che il bimbo aveva preso paura la voce della madre divenne di colpo più suadente.

    Dai non te la prendere è luglio e fa anche abbastanza caldo, adesso ti tolgo la maglietta ed i pantaloni e li stendo al sole e tu per qualche minuto puoi stare anche senza niente in dosso.

    Mentre quei pochi indumenti del bimbo erano stesi ad asciugare, Romana tornò nuovamente a risciacquare i panni presso il lavatoio, non prima di aver detto al bambino di andare a casa, cambiarsi le mutandine con quelle asciutte prese dal cassetto di camera ed asciugarsi i capelli ed il corpo con l’asciugamano che si trovava dietro la porta della cucina.

    Giacomo se n’era appena andato, quando la ragazza fu distratta dal rumore delle ruote di un calesse e dagli zoccoli di un cavallo che stavano procedendo lungo l’ampio viottolo che costeggiava la gora.

    A Romana non ci volle molto a capire che stava arrivando il padrone, l’anziano e burbero signor Ranieri. Uno schiocco di frusta fece arrestare l’animale proprio davanti al lavatoio.

    Cercavo Oreste! Dove posso trovarlo? - chiese con voce decisa l’uomo. Gli devo parlare e ciò che devo dirgli è importante.

    È nel campo ad innaffiare il granturco, ma credo che abbia quasi finito, perché si sta approssimando la sera.

    Io non posso attendere - continuò il vecchio - Quando arriva digli che l’aspetto a casa mia.

    Un nuovo schiocco di frusta ed un colpo di redini, fecero compiere una rotazione al corpo del cavallo; il calesse invertì la marcia e si allontanò velocemente accompagnato da una nuvola di polvere.

    Ranieri era un anziano signorotto del paese molto conosciuto e rispettato perché proveniente da famiglia facoltosa. Il paese di Diecimo era quasi per intero di sua proprietà, avendo al suo servizio ben quattro contadini. Era un fedele seguace di Mussolini ed in anni passati aveva rivestito la carica di podestà. Non aveva esitato a far compiere ai suoi scagnozzi spedizioni punitive contro giovani che sapeva essere titolari di idee reazionarie e comuniste, ma non disdegnava di accanirsi anche con giovani un po’ sprovveduti di mente.

    A far bere l’olio di ricino o le purghe non andava mai di persona, ma tramava nell’ombra e trovava sempre qualcuno in grado di eseguire i suoi ordini. Organizzava feste e cerimonie di partito presso la sua villa che era situata poco lontano dal paese in un pendio assolato e ricco di verde.

    La gente di Diecimo lo riveriva e lo temeva perché lo sapeva un individuo potente, un uomo in grado di schiacciare chiunque si fosse posto come intralcio sulla sua strada. Da giovane era stato un incallito dongiovanni e correva voce che avesse fatto scomparire una povera ragazza rimasta incinta durante le sue numerose scorribande. Alcuni dicevano l’avesse accompagnata presso un istituto di suore a Firenze ma altri sostenevano addirittura che l’avesse soppressa. Uomo avido e privo di scrupoli, teneva soggiogati i poveri contadini quasi fossero degli schiavi ed al momento della divisione del raccolto chiedeva sempre di più adducendo la scusa che le spese erano aumentate.

    Le povere famiglie che lavoravano i suoi terreni dovevano piegarsi sempre alla sua volontà, pena il rischio di ritrovarsi senza lavoro ed in mezzo alla strada.

    Anche Oreste temeva quell’uomo e cercava di assecondare le sue richieste, perché non poteva rischiare di vedersi cacciare. Era già successo in precedenza con alcune famiglie che erano state allontanate perché non lavoravano con la dovuta cura la terra e che avevano poi dovuto elemosinare lavoro da nuovi padroni. Oreste era perfettamente a conoscenza delle difficoltà che doveva superare per riuscire a mantenere il podere di Ranieri; aveva un figlio ancora piccolo, un vecchio non più in grado di dare il proprio apporto nel lavoro e due donne che si vedevano costrette a non fermarsi mai dall’alba fino al tramonto.

    Mario, Renzo e Carlino erano i tre fratelli di Oreste che vivevano con la madre Lilia e con il padre Alessio, in una casa attigua ad un appezzamento di terreno situato all’inizio del paese ed in prossimità della gora. Quell’abitazione era di proprietà di un vecchio signore trasferitosi in America; prima di partire l’aveva lasciata in affido alla famiglia Santi con Mario e Renzo che avevano da poco effettuato il servizio militare, mentre Carlino, non era ancora maggiorenne.

    Le poche risorse a disposizione non erano però sufficienti a mantenere una nuova famiglia ed il fratello maggiore, appena sposatosi, era stato costretto ad andare a rilevare il podere della suocera, che rimasta vedova e con il padre che aveva visto diminuire le proprie energie, non era più in grado di lavorarlo.

    Ad intervalli, durante il periodo delle mansioni più pesanti, come la trebbiatura, la vendemmia, la semina del grano e del granturco, le due famiglie si scambiavano l’aiuto e non era raro vedere Oreste lavorare assieme ai fratelli.

    Spirava una leggera brezza che mitigava l’aria e muoveva le foglie dei pioppi, catturate e penetrate dall’ultimo sole della sera. Gli zoccoli dell’uomo che percorreva la strada polverosa in salita diretto verso la villa di Ranieri, producevano un rumore tambureggiante e sempre uguale, che andava a perdersi nel silenzio della campagna.

    Oreste, con il bagaglio dei propri pensieri e con una evidente preoccupazione dipinta sul volto, stava obbedendo all’ordine impartitogli dal padrone che lo aveva sollecitato a recarsi presso di lui perché aveva importanti comunicazioni da dare. Quando Ranieri chiamava era per trasmettere ordini precisi e severi e questa cosa era perfettamente a conoscenza di Oreste che stava chiedendosi cosa passasse per la mente di quell’uomo.

    Dopo aver raggiunto il cancello d’ingresso della villa ed aver suonato la campanella, vide venirgli incontro il padrone che camminava lungo il viale tenendo i pollici sotto le bretelle quasi a voler manifestare una arrogante posizione di comando.

    Ti sei fatto desiderare Oreste! Pensavo tu potessi venire prima!

    Ranieri non era nuovo a trattare le persone con aria di superiorità e con fare sprezzante.

    Ho dovuto governare prima la vacca – rispose il giovane.

    Ranieri non indugiò oltre e venne subito al dunque.

    Come tu sai la guerra è stata dichiarata dal nostro duce alla Francia ed all’Inghilterra e presto, molto presto ci sarà un reclutamento di diverse classi. Anche tu rientri fra coloro che dovranno difendere la nostra patria. Per cui ti avviso con un po’ di anticipo, preparati a partire!

    Ma io ho un bambino di sei anni che ha bisogno di assistenza, un suocero vecchio e malato e non posso lasciarli soli! Spero tanto che possano scartarmi! Mi dia una mano anche lei! E poi è sicuro di quello che dice?

    Un ghigno beffardo si disegnò sul volto di Ranieri.

    Quando parlo, quello che dico è sempre a ragion veduta e non lo faccio mai a vanvera. Stai tranquillo che ho buoni informatori. Io non posso darti nessuna mano! Quando la patria chiama bisogna obbedire e tu fra l’altro sei il maggiore dei quattro fratelli Santi.

    Dopo una breve pausa Ranieri continuò.

    Ma non è solo questo il motivo per il quale ti volevo parlare. Mi auguro che la guerra sia breve, ma non è detto! I conflitti nascono veloci ma poi possono durare mesi, per non dire anni e con la speranza che tu possa tornare, sarai comunque per parecchio tempo nell’impossibilità di poter dare il tuo apporto in famiglia e soprattutto mancheranno le tue braccia per lavorare il mio terreno.

    Quelle parole furono in grado di partorire un magone grosso come un macigno nella gola di Oreste che intuì perfettamente dove sarebbe andato a cadere il perfido padrone.

    Purtroppo sono costretto ad affidare il mio terreno ad altri. Tu vedi come puoi fare! Nell’attesa della partenza ti consiglio di andare ad abitare dai tuoi fratelli e quando te ne sarai andato, tua moglie e tuo figlio continueranno ad essere ospitati in casa loro. Sei anche proprietario di un po’ di terreno e di fame non morirete.

    Dopo aver cercato di inghiottire la saliva per buttar giù il rospo grande come una casa che percepiva in gola e che diveniva sempre più opprimente, Oreste supplicò Ranieri di non cacciarlo dal suo podere.

     Ma non è ancora sicuro che debba partire! La prego non mi allontani dal suo terreno! Ho sempre cercato di dare tutto me stesso con il lavoro e lei lo sa!

    Questo è vero, ma tu ora sei chiamato ad un servizio più alto di quello del lavoro. Devi contribuire a rendere ancora più grande la nostra patria.

    Ma nel caso fossi anche richiamato potrei sempre chiedere aiuto ai miei fratelli, come ho fatto in tante occasioni.

    I tuoi fratelli Mario e Renzo partiranno prima di te e resterà soltanto Carlino che per legge, almeno per il momento non dovrà andare a fare il militare. Ma quello è un giovane inesperto, anche se volonteroso e non in grado di guardare nemmeno il suo di terreno! Non vedo altra soluzione Oreste! L’unica cosa che posso dirti è che mi dispiace!"

    Ranieri, non mi cacci via! La prego con tutta l’anima! Non renda ancora più problematica la mia partenza a quelle persone che resteranno a casa! Avrò tempo di chiedere aiuto a qualcuno, parlerò con mia moglie cercando di far fare a lei parte di quello che faccio abitualmente io! È in grado di fare tutto come me! Sa seminare, segare il fieno e anche stare dietro ai buoi quando trascinano l’aratro nel campo e sa anche vangare a mano come fanno gli uomini! Romana è una donna forte ed il lavoro non gli ha mai fatto spavento!

    Oreste cercava disperatamente di aggrapparsi alla moglie, quale unica, ma anche remota possibilità di far cambiare idea a quel testardo di Ranieri.

    L’uomo si dimostrava inflessibile ed a niente valsero le disperate suppliche di Oreste, che stava pregandolo con l’intensità di un bambino.

    Non dire sciocchezze Oreste, sai bene che tua moglie ha un figlio piccolo da guardare e un vecchio che non è più in grado di fare niente!

    Ma almeno non mi mandi via dal suo podere così su due piedi ed aspetti il momento della mia partenza! - fu l’ultima disperata invocazione di Oreste.

    Bé! Questo è un favore che posso anche farti! Prenderò accordi con il fattore e gli dirò che si metta in contatto con un’altra famiglia dove ci sia un uomo più anziano di te che non corra il rischio di essere richiamato. Al momento che tu te ne andrai, questa famiglia verrà ad occupare la casa dove adesso abiti tu.

    Ma ci sono gli animali e come faccio ad abbandonate le vacche ed il maiale!

    Quelli dovrai continuare a guardarli fintanto che non avrò trovato il contadino che vi sostituirà. Quando ve ne andrete potrete portare con voi la galline e le oche e credo, che lasciandovi quegli animali io vi faccia un bel regalo. Come vedete Ranieri sa essere anche generoso!

    Dopo quelle parole, espletata la formalità dei convenevoli, l’augurio di buona fortuna e la stretta di mano, Ranieri accompagnò Oreste al cancello, e quando il giovane lo ebbe oltrepassato, fu richiuso con un cigolio di metallo.

    Lungo la strada polverosa, la brezza era divenuta più frizzante, mentre il cielo andava velandosi di una nebbia sottile e facevano capolino a poco a poco le prime ombre della sera. Oreste non percepiva il refrigerio dato dallo stormire di fronde, aveva la faccia accaldata e arrossata ed un sudore lieve andava imperlandogli la fronte.

    L’uomo stava rientrando verso casa con un macigno sul petto che a poco a poco diveniva più pesante. Avrebbe dovuto portare la ferale notizia a Romana e soprattutto preparare la donna ad un futuro di sofferenze. Lei sola con il figlio Giacomo da guardare e con la madre ed il nonno che non avrebbero più usufruito del suo sostentamento.

    L’animo dell’uomo si ribellava a quella triste evenienza. Ma sarà vero che dovrò partire per la guerra? O magari Ranieri vuol mandarmi via dal suo terreno perché siamo in pochi a lavorarlo e non rendiamo quanto lui pretende? Però, quanto è generoso Ranieri! Mi ha fatto anche un regalo! Mi lascia i polli e le oche che non so nemmeno dove farle stazionare perché la casa di mia madre non ha una grande cortile!

    Affogato in quei tristi pensieri e con il cuore affranto Oreste si apprestava a far rientro a casa essendo ormai giunto nei pressi dell’aia dopo aver costeggiato l’argine della gora.

    La cena era stata consumata in fretta, il marito aveva sussurrato qualcosa alla moglie che era desiderosa di sapere, ma non voleva parlare in presenza di orecchie estranee, ma soprattutto davanti al figlio.

    Dopo aver atteso che Giacomo si addormentasse, i due giovani si ritrovarono finalmente soli nel silenzio della loro camera. Un letto matrimoniale in ferro battuto occupava il centro di quella stanza con un materasso di foglie di granoturco con un solco nel centro; per togliere quella specie di avvallamento che creava parecchio fastidio, si procedeva spesso a spandere le foglie infilando le mani in un buco del materasso, ma immancabilmente dopo una notte di sonno il buco si formava di nuovo. Ad ogni movimento degli occupanti, le molle in ferro del letto emettevano un cigolio sommesso.

    Un comò e due comodini in legno di castagno erano gli altri arredi di quella camera che aveva un’unica finestra che si apriva proprio sulla gora. Le pareti intonacate a calce di quella stanza risentivano del logorio dovuto all’umido ed al tempo ed erano in più punti scrostate ed una polvere bianca colava costantemente sul pavimento di mattoni.

    In quell’angolo della grande casa che era anche il loro nido, in quella stanza che vedeva le loro effusioni, che ascoltava le loro frasi d’amore, ma anche le loro confidenze e le loro accorate discussioni, i due giovani, quella sera al riparo di orecchie indiscrete stavano parlando animatamente.

    Io non posso credere che chiamino anche te che hai un figlio di sei anni! - era la considerazione ottimistica di Romana.

    Se lo dice Ranieri, quello difficilmente sbaglia! - replicava Oreste.

    Ma prima chiameranno i tuoi fratelli!

    Chiameranno loro e poi anche me! E tu rimarrai sola con tua madre a lavorare e con Ernesto e Giacomo da guardare. E per di più in una casa che non sarà la tua.

    Ma dove potremo andare ad abitare allora? - aggiunse la ragazza disperata.

    Non c’è che una soluzione. Trasferirci nella casa di mia madre che vedrà diminuire i suoi abitanti perché molto presto, forse prima di me Mario e Renzo partiranno per la guerra. Tu pensa quanto è stato bravo Ranieri nel suggerirmi questa soluzione!

    Ma i tuoi genitori ci vorranno ospitare? La loro casa è piccola, in alcune stanze non c’è nemmeno la luce elettrica e poi come la prenderà Giacomo?

    Mia madre non mi lascerà senza dimora e sarà felice di ospitarvi soprattutto quando i suoi tre figli se ne saranno andati. A Giacomo basta parlare con calma! È un ragazzino sveglio e intelligente e sicuramente capirà il nostro difficile momento.

    Romana rimase muta dopo le ultime parole del marito perché nel suo animo si fece avanti a grandi passi lo sconforto.

    La guerra, con la sua sofferenza non richiesta, si stava intromettendo senza troppe cerimonie nella vita tranquilla e pacifica di quella coppia cercando di sottomettere i due giovani alla sua prepotenza disumana e distruttrice.

    Oreste percepì il momento di difficoltà della moglie, abbracciò la donna e la strinse forte a sé sussurrandole: Non ti preoccupare, per adesso ti sono ancora vicino!

    Per un attimo il giovane allontanò i foschi pensieri che mulinavano nella sua mente e respirò soltanto il profumo di quel corpo giovane e caldo. Accarezzò quella pelle rosea e delicata assaporando la gioia di scoprirla a poco a poco. Sommerse di baci il volto della ragazza e cercò le sue labbra bramoso ed eccitato come colui che dopo un lungo viaggio sotto il sole, arriva a tuffare la faccia in uno zampillante getto d’acqua.

    Dalla finestra socchiusa i rumori della notte facevano da colonna sonora al palpitare frenetico dei due cuori: il canto della civetta, il variopinto concerto dei grilli ed il gracidare monotono delle ranocchie nella gora.

    Dopo teneri momenti di trasporto e di passione Oreste e Romana si abbandonarono nelle braccia del sonno e con l’oblio dei sensi furono fugati i loro inquietanti pensieri.

    L’aria fresca del primo mattino accarezzava la faccia di Oreste e di Giacomo che stavano camminando spediti lungo via del Santo diretti verso la bottega dello stagnino. Dovevano ritirare la secchia, che era stata portata a riparare perché dopo essere caduta per terra, si era ammaccata alla base formando una piccola apertura e l’acqua fuoriusciva gocciolando.

    Lo stagnino detto anche magnano era un artigiano che riparava pentole e padelle di latta e di rame, ma anche attrezzi di ferro.

    Negli anni quaranta, soprattutto durante il periodo bellico nelle cucine dove gli utensili domestici erano quasi tutti fabbricati con quei metalli e non si conosceva ancora l’acciaio, capitava spesso che a seguito del logorio dovuto al lungo utilizzo, gli oggetti subissero delle rotture. Poiché non era certamente il caso di buttare tutto quello che poteva essere riparato, si ricorreva all’arte dello stagnino, che provvedeva a chiudere fori e a rivestire di stagno le pareti delle pentole ormai deteriorate.

    Quell’artigiano era allo stesso tempo un fabbro ed un idraulico, perché costruiva anche piccoli oggetti di rame e di ferro ed installava e riparava le canale dei tetti.

    Lo stagnino aveva quasi sempre una bottega, ma nei piccoli centri svolgeva il suo lavoro in maniera itinerante. Arrivava facendo sentire la sua voce e la gente gli si avvicinava perché aveva sempre qualche oggetto da stagnare o da riparare. Quell’uomo possedeva un’attrezzatura semplice. Un piccolo fornello per bruciare il carbone un mantice per alimentare il fuoco, delle pinze, un’incudine che fissava a terra e naturalmente la ciotola necessaria per fondere lo stagno.

    La polvere del carbone si spandeva sui suoi abiti ed aggrediva il suo volto che acquisiva una colorazione nera, tanto da farlo sembrare un uomo di colore e che destava la curiosità dei bambini che a volte lo chiamavano l’uomo nero. Il lavoro che svolgeva più frequentemente era quello di stagnatura delle pentole.

    Il rame a contatto con l’acqua si ossidava e prendeva un colore cupo detto verderame che era molto solubile e che creava tossicità negli alimenti. Bisognava perciò rivestire le pareti delle pentole con uno strato di stagno, minerale che non creava problemi e che non si alterava con il trascorrere del tempo. Dopo il lungo utilizzo dei vari recipienti quello strato si consumava ed allora era necessario provvedere a spalmarlo di nuovo.

    Un altro inconveniente che capitava spesso era quello della rottura e del distacco dei manici delle padelle. In quel caso lo stagnino doveva rimetterli al loro posto e lo faceva utilizzando chiodi che fabbricava con pezzi di rame fuso.

    Il rame è un metallo abbastanza fragile e gli oggetti cadendo si ammaccavano e lo stagnino, utilizzando un’incudine dove poggiava la pentola, con un martello, quasi sempre di legno che dava colpi più morbidi, percuoteva le pareti interne e riportava la superficie nella forma originaria.

    L’oggetto a volte si rompeva cadendo, quando a seguito dell’urto si formavano fori o crepe; mediante lo stagno fuso si doveva tappare il buco o risanare la spaccatura.

    Alla secchia di Oreste, che utilizzava per bere e che teneva sul piano in pietra dell’acquaio, era capitato proprio quell’inconveniente.

    Ma è vero che l’uomo nero porta via i bambini? chiedeva Giacomo al padre mentre camminava al suo fianco lungo la via centrale del paese.

    No, stai tranquillo! Lo stagnino non ha mai portato via nessuno! Lo dicono i genitori per spaventare i bimbi cattivi che non ascoltano le loro raccomandazioni - rispose Oreste.

    In alcune frazioni sperdute nella campagna dove lo stagnino arrivava ogni tanto con il corpo e la faccia sempre ricoperte di polvere di carbone, era associato ad una figura cattiva, una specie di orco che quando se ne andava portava i bambini con sé.

    Naturalmente gli stagnini avevano acquisito quella brutta fama perché i genitori, per farsi ubbidire dai figli, li avevano presi come spauracchio.

    La bottega di Umberto era situata

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