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Il mare d'Inferno: Disavventure di un velista eretico
Il mare d'Inferno: Disavventure di un velista eretico
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Ebook330 pages6 hours

Il mare d'Inferno: Disavventure di un velista eretico

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About this ebook

Matteo Rinaldi è pubblicamente un formatore di comunicazione parlata e scritta ma segretamente uno scrittore. Sogna di essere scoperto dopo morto perché fama, successo e ricchezza lo terrorizzano più di un equipaggio sbagliato durante un’uscita primaverile. Oggi dà in pasto al pubblico la sua raccolta, riveduta e arricchita (o impoverita, a seconda dei gusti) di scritti sulla vela pubblicati in tanti anni di blog. Siccome nessuno si sognerebbe mai di intervistarlo al riguardo, se l’è cavata da solo. Con gli stessi risultati che ha in barca. Rinaldi, perché un libro sulla vela? Ce ne sono già di bellissimi. E soprattutto: gli autori sono veri navigatori. Tu non sei nemmeno degno del titolo dispregiativo di “marinaio d’acqua dolce”. Infatti è il primo libro scritto da un velista mediocre, un cialtrone da terra, un navigatore della domenica. Incapace perfino di passare l’esame della patente senza limiti. Se supero le 12 miglia dalla costa mi arrestano come uno scafista qualsiasi. E allora che senso ha? Ce l’ha. Per un popolo di santi e navigatori, che è tutto fuorché santo e navigatore, c’è bisogno di un libro che metta le cose in chiaro: noi navighiamo così, altro che Soldini e D’Alì. Hai fatto anche la rima. E c’è di più: non sono affatto santo. Prendo per i fondelli questo mondo, anche se mi piace. Nel Paese dove Schettino spiega la gestione del panico all’università, io posso tranquillamente raccontare la gestione del mal di mare, di equipaggi assassini e ormeggi allucinanti.
LanguageItaliano
PublisherDigital Index
Release dateFeb 13, 2015
ISBN9788899283018
Il mare d'Inferno: Disavventure di un velista eretico

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    Il mare d'Inferno - Matteo Rinaldi

    Matteo Rinaldi

    Il mare d'Inferno

    Disavventure di un velista eretico

    DIGITAL INDEX

    Capitolo 1

    È il comandante Schettino che vi parla: benvenuti a bordo

    Una delle più ricorrenti disavventure del velista: la vela di prua prende vita inghiottendo l’intero equipaggio. I pochi sopravvissuti passeranno senza remore ad attività finalmente rilassanti quali base climbing, parcour, sci fuori pista, esplorazioni subacquee.

    Foto di Riccardo Sanchini

    1. Un libro alla deriva

    Matteo Rinaldi è pubblicamente un formatore di comunicazione parlata e scritta ma segretamente uno scrittore. Sogna di essere scoperto dopo morto perché fama, successo e ricchezza lo terrorizzano più di un equipaggio sbagliato durante un’uscita primaverile.

    Oggi dà in pasto al pubblico la sua raccolta, riveduta e arricchita (o impoverita, a seconda dei gusti) di scritti sulla vela pubblicati in tanti anni di blog. Siccome nessuno si sognerebbe mai di intervistarlo al riguardo, se l’è cavata da solo. Con gli stessi risultati che ha in barca.

    Rinaldi, perché un libro sulla vela? Ce ne sono già di bellissimi. E soprattutto: gli autori sono veri navigatori. Tu non sei nemmeno degno del titolo dispregiativo di marinaio d’acqua dolce.

    Infatti è il primo libro scritto da un velista mediocre, un cialtrone da terra, un navigatore della domenica. Incapace perfino di passare l’esame della patente senza limiti. Se supero le 12 miglia dalla costa mi arrestano come uno scafista qualsiasi.

    E allora che senso ha?

    Ce l’ha. Per un popolo di santi e navigatori, che è tutto fuorché santo e navigatore, c’è bisogno di un libro che metta le cose in chiaro: noi navighiamo così, altro che Soldini e D’Alì.

    Hai fatto anche la rima.

    E c’è di più: non sono affatto santo. Prendo per i fondelli questo mondo, anche se mi piace. Nel Paese dove Schettino spiega la gestione del panico all’università, io posso tranquillamente raccontare la gestione del mal di mare, di equipaggi assassini e ormeggi allucinanti.

    Chi dovrebbe leggerti?

    I velisti che navigano a noleggio. Quelli che navigano senza vestirsi da velisti. Quelli che navigano senza vestirsi del tutto.

    Quelli che dicono: Wow, facciamo sei nodi! Ma poi fanno i conti: sono dieci chilometri l’ora, la nonna in bici è più veloce.

    Quelli che sognano di comprare una barca. Quelli che per fortuna si svegliano.

    Quelli che quando è ora di ormeggiare si sentono Fantozzi: sudore acido, mani due spugne, salivazione azzerata, miraggi. Ma che in fondo si divertono anche se li hanno costretti a parlare come Fantozzi: Cazzi! Orza! Bozzello! Paterazzo!

    Quelli che, con il mare lievemente increspato, soffrono come cani per il mal di mare. Ma poi navigando nel cuore nella notte, a mezzo nodo, pensano: ma che bella, che bella, che bella la vita.

    Con queste premesse, quanti lettori ti aspetti?

    Una ventina in tutta Italia dovrei trovarli. 

    Buon vento, dunque.

    No, per carità: poco vento, che se la barca piega molto ho paura.

    Raccolta differenziata

    Macché rispettosa e amante della natura: la vela è una vergogna anche dal punto di vista ambientale. Nella foto, un equipaggio mentre rientra da un fine settimana con il sacchetto rosso della spazzatura appeso all’albero.

    Foto di Riccardo Sanchini

    2. Un popolo di santi e navigatori. Coi motori

    L’Italia è un paese di santi e di navigatori. Comincio apposta con un’ignobile frase fatta perché è incredibilmente vera. L’Italia è un paese di santi, veri e presunti. Partiamo dai veri.

    Ne abbiamo avuti in quantità nella storia. Non perché il nostro sia un popolo migliore di altri, come qualcuno ama pensare. Il fatto è che siamo stati poveri e derelitti per centinaia d’anni. Più facile diventare santi in queste condizioni.

    L’Italia ha continuato a credersi un paese di santi anche quando è diventata meno povera, poi benestante e infine ricca. I santi di oggi si caratterizzano per essere santi presunti e soprattutto presuntuosi. Si nominano santi da soli (passi, anche Gesù lo faceva), sono quasi tutti spacconi (e passi, anche Gesù lo era). Ma sono soprattutto ricchi. E qui non ci siamo proprio.

    La nostra religione ufficiale non è particolarmente rigida ma una cosa la pretende: povertà. Ovvero: vivere cercando di tenere a debita distanza le cose materiali. Al punto che il suo più celebre rappresentante, Gesù, nello spazio di quattro vangeli non se la prende mai con malviventi, ladri e puttane. Li chiama tutti fratelli. Non se la prende nemmeno con gli esattori delle tasse: ne sceglie uno come suo primo apostolo.

    Solo una volta si incazza davvero: con i mercanti nel tempio. Che poi non sono figure antiche: sono i grandi investitori, i potenti, i dominatori che fanno la morale e soprattutto man bassa.

    Eccoli, i santi di oggi: sono quelli che sono arrivati che poi significa che hanno fatto i soldi. E vai con le loro storie di successo, i loro insegnamenti, le loro vite da prendere a esempio. Sono tanti e insopportabili.

    Il santo non lo posso fare, quindi. Il navigatore per fortuna sì. Veniamo appunto a questa seconda categoria di italiani.

    Un popolo di navigatori. Sarà. Ma proviamo a metterli in fila. Il primo viene facile: Cristoforo Colombo. Ma il secondo? Ho provato a chiederlo in giro a un po’ di gente, velisti compresi: molti non hanno saputo dire un solo nome. Altri si sono illuminati: Ah, certo: Magellano! Una prece.

    Colombo dunque è il solo navigatore italiano riconosciuto dagli italiani. Ma quando penso a Colombo mica mi viene in mente un eroe. Mi viene in mente il Colombo del fumetto di Altan, che vomita per il mal di mare e appena sbarca in America inciampa sulla spiaggia e finisce con la faccia sulla sabbia. Il prete gli fa: Che cazzo fa Colombo, mangia la terra adesso?. E lui, pronto: La bacio padre, la bacio.

    Siamo dei mostri noi italiani a prenderci per il culo. Per fortuna. Non avremmo mai vinto quattro mondiali se ci fossimo presi troppo sul serio. E neanche avremmo scoperto l’America. Ve lo immaginate uno svizzero che, nel 1490, parte per le Indie a bordo di una caravella?

    Badate, la caravella sta a una nave come un canotto a un Hallberg Rassy. Mica erano i transatlantici che ci si immagina: oggi con quegli affari avremmo paura ad attraversare il lago di Bolsena.

    Colombo non era un grandissimo marinaio: piuttosto un incosciente, un visionario. Pieno di sé ma senza niente da perdere.

    Un italiano del passato remoto, quindi. Oggi, per fare lo stesso viaggio, Colombo pretenderebbe un 36 metri con equipaggio svizzero, doppio motore e triplo gps. Ma dopo una settimana farebbe comunque inversione di rotta, preoccupato del fatturato in calo dell’azienda di famiglia.

    Eppure, nonostante tutto questo, abbiamo ancora dei meravigliosi navigatori che vincono gare internazionali contro equipaggi mille volte più organizzati.

    Perché molti italiani si ostinano a veleggiare ancora? Non ne ho la più pallida idea. Ma almeno ho capito perché siamo una minoranza assoluta. Ho capito perché la Germania, con un cinquantesimo delle nostre coste, produce il decuplo di barche a vela. E ho capito perché, nonostante questo, i nostri marinai riescono ancora a vincere qualche grande sfida. 

    Come Soldini e D’Alì sui transatlantici o Alessandra Sensini sul windsurf. O come Alessandro Di Benedetto, che ha attraversato un oceano sulla sintesi di un transatlantico e un windsurf: un catamarano giocattolo. O come Alex Bellini, che attraversa gli oceani direttamente a remi. Chissà quanti altri ce ne sono di italiani così pazzi e così bravi.

    Per finire, veniamo a me. Io vado a vela per prendermi in giro da solo. Perché sono un figlio del nord est che disprezza il nord est, la sua filosofia utilitaristica di vita, la sua mentalità azione-risultato, produco dunque sono.

    Ma anche perché sono un figlio del Veneto, e quindi di Venezia, una città che ha voluto bene al mare, difendendolo e proteggendolo come oggi non sappiamo nemmeno immaginare. Volendo bene al mare, Venezia ha voluto bene anche alla terra, a tutte le sue terre, compresa la mia.

    A me tanto basta per navigare volentieri. E pure per scrivere. Se valgono anche per voi, qua la mano. Se un giorno facciamo una navigata assieme, tanto meglio. Però torniamo presto: lunedì si lavora. Guai se cala il fatturato, sacranon.

    I grandi perché della vela

    Veleggiare è il miglior modo per viaggiare senza inquinare e consumare benzina; ma allora perché dobbiamo essere sponsorizzati dai più tronfi e boriosi marchi automobilistici?

    Foto di Riccardo Sanchini

    Capitolo 2

    Nel tunnel della vela. Come si diventa velisti

    Bondage unisex

    La quantità di cime in una barca è un inconsapevole richiamo erotico per ogni velista. Ma il 99% degli equipaggi resta sempre maschile. Fatevi una domanda e datevi una risposta

    Foto di MAURIZIO GAETANO

    1. Lo faccio solo per provare

    In attesa che la legge italiana se ne occupi seriamente e smetta di occuparsi di normative per salvare potenti, politici, affaristi e mafiosi, ecco la toccante testimonianza della mia iniziazione alla vela. Che è poi quella di tutti: una tortura psicologica e fisica che fa passare in secondo piano le prove cui vengono costretti gli affiliati a mafia, camorra e sette segrete.

    Come si diventa velisti? Qual è l’errore, qual è l’incongruenza che ci porta a trasferire il nostro amore, fino al giorno prima riservato a passioni dignitose quali il calcio, il basket, la bicicletta, l’astronomia o la tassidermia a una mania così demenziale, deleteria, distruttiva?

    Qualunque altro sport, fosse anche il calcio senza pallone o la bici senza il sellino, sa essere più appassionante, soddisfacente, divertente. Eppure centinaia di persone ogni anno sono trascinate nel tunnel senza uscita della vela.

    Io ci sono arrivato a causa di un amico. Ero molto depresso, in quel periodo: avevo la salute sotto i tacchi e la voglia di vivere ancora più in basso. Vagavo alla ricerca di una passione che mi riempisse il cuore e le giornate. Stavo valutando il bowling, l’iridologia e perfino il fisting quando incontrai Sandro.

    Vieni con me. Ti porto al lago di Fimon. Ho scoperto che hanno messo in piedi una scuola di vela.

    Avrei potuto nicchiare con un scusa qualsiasi. Sandro, per capirci, è stato cacciato perfino dal calcio amatoriale. Oggi ama il golf e la pesca. Praticamente un reietto della vita sociale.

    Avrei dovuto dire no, non m’interessa, penso che il fisting sia decisamente più rilassante. Avrei dovuto schiaffeggiarlo, sputarlo, colpirlo in pieno viso con un diretto. Qualunque gesto sarebbe stato più saggio di ciò che ho fatto: andai con lui.

    Ci recammo al lago per chiedere informazioni. Qui avremmo fatto le prime lezioni teoriche e pratiche. Che meraviglia il lago - disse Sandro appena scesi dall’auto - e guarda che magnifici velieri!.

    In realtà vedevo una pozza asfittica e maleodorante, disseminata di bagnarole che s’agitavano tra bolle e schiuma. Non avevo ancora visto il peggio.

    Lo vidi un attimo dopo: i velisti.

    Erano in due che armeggiavano attorno a una barca sovraccarica di corde, tela e filamenti. Uno era alto un metro e novanta ma, a occhio e croce, pesava trenta chili vestito. L’altro appariva più equilibrato: settanta chili buoni. Ma appena s’alzò in piedi scoprii che non raggiungeva il metro e mezzo di statura. Non è uno sport per atleti, pensai.

    Buon vento! gridò un poderoso vocione alle mie spalle. Mi girai: ero faccia a faccia con il comandante della scuola. Era un vecchio lupo di mare ritiratosi sul lago dopo la pensione. Si presentò con parole che avrebbero dovuto farmi fuggire subito e a gambe levate:

    "Oilà, baldi giovanotti! Pronti a ranzare la sbanda e rabberciare l’astromaglio?"

    Avevo fatto bene a non colpire Sandro con un pesante pugno sul naso. Avrei inutilmente affaticato la mano, impedendole di essere forte e giusta per rendere innocuo questo colonnello, comandante, commodoro, commissario... Insomma, chiunque fosse costui. Ma sono un debole. Non lo colpii e annuii con rassegnazione.

    Pronti a cominciare? chiese, o meglio ordinò.

    Facemmo sì con la testa. Era una giornata magnifica, venticinque gradi e un venticello fresco e leggero. Avevamo scelto bene il momento per cominciare.

    Ma non penserete di farlo ora, in pieno pomeriggio - ci ammonì - la vela è un’arte che pretende sacrificio. Si parte domattina presto. Meglio ancora se portate qualche amico. Più siete, più vi appassionate.

    Il giorno dopo era previsto un tempo d’inferno: freddo, pioggia e nemmeno un filo d’aria.

    Bene! Allora a domattina per la prima lezione. Cinque e mezzo precise, mi raccomando: la vela non aspetta i dormiglioni.

    Tornato a casa dissi a mia moglie che avevo cambiato idea sul fisting e lei si rassicurò. Che farai allora caro? chiese dolcemente.

    Farò il velista! risposi.

    Il sorriso le morì sul volto. Sbiancò, arretrò, si chiuse in bagno e pianse per tutta la notte.

    Non ci diedi peso. Già mi vedevo a sbuzzare l’amantiglio, flenuflettere la stramateschia, gingere il mascone e sgottare le effemeridi.

    Come potevo sapere, come potevo immaginare l’orrore cui stavo andando incontro?

    2. Il primo buco. Nell’acqua

    Noi italiani quando siamo in due parliamo di donne, in tre di calcio, in quattro fondiamo un partito di cui pretendiamo segretamente la presidenza.

    In cinque, organizziamo un’associazione a delinquere. Come la vela.

    Eravamo cinque arditi quando ci presentammo al lago per la prima lezione. Sandro ed io avevamo trascinato Andrea, come noi già escluso in malo modo dal mondo dello sport, del lavoro, dell’erotismo coniugale e perfino del gioco d’azzardo. Ci eravamo illusi che non avremmo mai toccato un punto più basso.

    E poi Cosimo, che invece era giovane, appassionato, innamorato della vita. Ci pareva doveroso fargli capire che il mondo è ingiusto e vendicativo.

    Infine Alberto, perché è uno di quelli che sanno cavarsela in ogni occasione. Volevamo vedere, stavolta.

    Il commodoro comandante ci accolse in uno stanzino lurido, zeppo di vele putrefatte, remi spaiati, motori fuoribordo e certamente fuorilegge che perdevano liquidi e odori misteriosamente arcaici.

    Cominciò a tracciare per noi linee e segni su una carta oleosa usata come lavagna, che probabilmente aveva pulito uno dei motori la scorsa settimana o protetto il panino del pranzo, la scorsa stagione.

    Aveva una calligrafia incerta e incomprensibile: quella del medico della mutua, al confronto, è limpida e brillante come quella del monaco amanuense che verga la prima copia del Vangelo secondo Giovanni.

    Scriveva, schizzava e spiegava: Vento, incidenza, randa, scarroccio... Orzare, poggiare, traverso, poppa... Prua, abbrivio, scotta, bolina... Bordeggio, carteggio, carabottino... Winch, vang, windex...

    Credevo si parlasse la lingua di Master & commander, non quella di Harry Potter. Non capivo assolutamente nulla e sono sicuro che neppure gli altri capivano, anche se annuivano, sorridenti e falsi come amministratori di condominio.

    Oggi so per certo che non capiva nulla nemmeno lui. Come nessuno ha mai capito niente di tutto questo. Neppure gli economisti che discettano di economia, i giornalisti che parlan di calcio, i maschi che descrivono il punto G hanno le idee confuse come chi parla di vela.

    Ma ora basta teoria, ragazzi. Alla pratica! Prendete.

    Ci mise in mano degli spezzoni di corda, che s’affrettò subito a chiamare cime (chi sbagliava doveva ripulire un motore con la camicia o lucidare uno scafo con la lingua) e s’ingegnò a mostrarci dozzine di nodi, a suo dire fondamentali per portare una barca.

    Ecco il nodo piano, semplice, fondamentale, da farsi anche con una mano sola, bendati, si fa così, questo di qua e l’altro di là, facilissimo, vedete? E poi il nodo Savoia, fondamentale, alla cieca, bastano due dita, anche quelle dei piedi, facile vero? Ed ecco la gassa d’amante, miracoloso, inaudito, agile da fare e da sciogliere, anche con la lingua e sott’acqua...

    Se non avevo capito nulla prima, ora cominciavo a capire: dovevo inventare subito una scusa, un problema, una malattia, una calamità naturale che mi permettesse di tornare al mondo degli umani. Ma i miei pensieri vennero interrotti da un ordine perentorio:

    A bordo ora: è tempo di affrontare il nostro elemento naturale: l’acqua.

    Avvertivo un fastidio profondo allo stomaco, che per fortuna era vuoto. A essere piena era la testa, che rimbombava di nomi, di gesti e soprattutto di angosce: l’ombrinale era un nodo o un secchio? La sentina era il marinaio di sentinella o l’indistinto bisbigliare della ciurma che prepara una sommossa?

    Un attimo prima di salire a bordo, il commodoro ebbe un’illuminazione: Ah, dimenticavo: c’è una cosa fondamentale da chiarire prima di salpare: sapete tutti nuotare vero?

    Il più rapido fu Alberto: "Io no! Mai imparato purtroppo. Neppure a galleggiare. Vado giù come un sasso. Perché? È un problema?"

    Santo scarroccio! Saper nuotare è fondamentale! Saper stare almeno a galla!. No, proprio non puoi imparare così, disse deluso il commodoro.

    Alberto sorrise trionfante: Oh, sono dispiaciutissimo. Ma non preoccupatevi per me: andate pure, vi guardo da riva. Non vado via, eh!

    Lo odiai. Mi ripromisi di dirgliene quattro alla prima occasione. Ma da allora sono passati dodici anni e, strano a dirsi, non c’è mai più stata una sola occasione.

    Salii a bordo per primo. Quel dannato scafo, che era dieci volte più leggero di quanto credevo, si piegò vorticosamente dalla mia parte, esattamente come una tigre a cui pesti la coda.

    Per non cadere mi aggrappai con le unghie al bordo, scheggiandone un paio e ululando per il dolore. Proprio in quell’istante il boma, trascinato dall’inerzia, partì come un siluro schiantandosi sulla mia dentatura, da allora decisamente irregolare.

    "Santo Scarroccio! - tuonò il commodoro rivolto verso Sandro - Tu, sali subito dall’altro lato, per controbilanciare!". Sandro eseguì e la tigre si rivoltò immediatamente contro di lui.

    Lui aveva fatto tesoro dell’esperienza e si abbassò di scatto: il boma, partito a doppia velocità, incocciò sul naso di Andrea, ignaro e indifeso alle sue spalle.

    In quell’attimo di concitazione, Cosimo si gettò in acqua con la rapidità di una coccodrillo del Nilo. Anche Sandro tentò di sfruttare il momento e cercò la fuga via terra. Ma, imbolsito com’era, non ebbe successo: il commodoro lanciò la cima e lo catturò con un doppio Savoia scorsoio. Fu punito con sedici giri di chiglia. Da allora, tra gli uomini rimasti, più nessuno tentò la fuga.

    Tiriamo su le vele? chiedemmo una volta in acqua, anche per stemperare la tensione. Ha! Le vele si issano, non si tirano! Tre giri di chiglia! La vela non è uno sport per signorine! Fummo puniti con tre giri di chiglia per ciascuno.

    Issiamo le scotte? chiedemmo appena espulsa l’acqua fangosa dallo stomaco.

    Ha! Le scotte non si issano, si cazzano. Sei giri di chiglia! Nella vela ogni parola dev’essere precisa! Altrimenti la confusione si impadronirebbe della barca! Dieci giri di chiglia! La vela non è uno sport per signorine!

    Non osammo più aprire bocca fino al rientro. Andrea, che non è esattamente un chiacchierone, per sicurezza non rivolse più la parola a nessuno, neppure a moglie e figlie, fino all’anno nuovo.

    Ma quelle ore a bordo ci regalarono anche momenti di valore. Il lago di Fimon è incastonato tra sedici diverse colline, ognuna con la sua peculiarità: una è vulcanica, una fitta di vegetazione, una totalmente arsa dal sole, una a forma di pugno col dito medio alzato...

    Tutto questo fa sì che vi soffino dodici venti diversi, quattordici brezze e nove tifoni al giorno. In questo maledetto lago,

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