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Il mistero di Monte Navale
Il mistero di Monte Navale
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Il mistero di Monte Navale

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Il mistero di Monte Navale è un romanzo poliziesco, con omicidi e relative indagini condotte, nel caso specifico, da una giovane giornalista rampante e da un brillante commissario di polizia, ma, soprattutto, è un acquerello della vita di Torino e della sua provincia negli anni Sessanta, quando la crescita economica inizia a cambiare profondamente la vita quotidiana, le abitudini e i consumi della popolazione, mentre si assiste ai fenomeni dell’inurbamento e dell’immigrazione, e anche allo sviluppo dell’istruzione, come chiave per l’accesso a migliori condizioni di vita e di lavoro.
LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2016
ISBN9788866903086
Il mistero di Monte Navale

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    Il mistero di Monte Navale - Claudio Danzero

    Claudio Danzero

    Il mistero di Monte Navale

    EEE-book

    Claudio Danzero, Il mistero di Monte Navale

    © EEE-book

    Prima edizione ebook: marzo 2016

    Prima edizione cartacea: novembre 2015

    ISBN: 9788866903086

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover: credits to Canstockphoto.com.

    Prologo

    Negli anni Quaranta l’Italia del Nord fu sconvolta dai bombardamenti alleati e dalla guerra civile. L’avvento della Repubblica non aveva cancellato le profonde differenze fra Nord e Sud, dove l’analfabetismo era ancora una piaga. Grandi disuguaglianze si notavano anche fra il Nord-Est agricolo, dal quale partivano le mondine, e il Nord-Ovest che le accoglieva, dove però l’industria aveva ripreso vigore e richiamava manodopera dal Sud.

    Questi sconvolgimenti non avevano rallentato il flusso delle nascite e vedeva la luce una sorta di generazione felice che non aveva assistito alle vessazioni del regime, né alle tragedie della guerra e avrebbe concluso la sua esistenza lavorativa, all’arrivo degli anni Duemila, in un Paese ancora in crescita e benessere.

    Negli anni Cinquanta, questa sorta di Happy Generation scopriva il diritto e il piacere all’istruzione e affollava, un po’ per obbligo e molto per scelta consapevole, le scuole medie prima e le superiori poi.

    A Torino la scuole medie vennero prese letteralmente d’assalto così da risultare insufficienti, se non di personale almeno di aule e strutture. In molte scuole gli alunni dovettero utilizzare le aule a turni: una classe vi teneva lezione nei primi tre giorni della settimana al mattino e negli altri tre al pomeriggio. L’altra classe faceva il contrario. Di seguito la situazione coinvolse le scuole superiori. Le difficoltà erano grandi ma l’euforia era predominante.

    Il Paese era ripartito grazie alla sua grande industria metalmeccanica. Torino trainava la Regione e assorbiva migliaia di emigranti. Una cittadina piemontese, Ivrea, non era però da meno, anzi nutriva il sogno di superarla nella qualità del rapporto di lavoro.

    Ivrea è una città sulla Dora Baltea circondata da laghi morenici, posta in posizione strategica alle porte della Valle d’Aosta. Fu fondata, col nome di Eporedia, dai Salassi nel V secolo avanti Cristo. Divenne colonia romana poi longobarda e infine acquistata dal marchese Arduino, che ne fece la capitale del cosiddetto regno Italicum.

    Dopo la rivolta detta del tuchinaggio, fu annessa definitivamente al ducato di Savoia.

    Dal 1908 divenne protagonista di un nuovo polo industriale grazie alla fondazione della fabbrica di macchine per scrivere di Camillo Olivetti, che fece conoscere il suo nome in ambito internazionale.

    Lo sviluppo intensivo si ebbe però solo nel dopoguerra con Adriano Olivetti e la città passò in dieci anni, dal 1952 al 1962, da 18.000 abitanti a 24.000.

    Tra grandi sacrifici e molte sofferenze, nasceva la piccola borghesia e con essa, con minor fatica ma maggior opportunismo, una élite di piccoli industriali, commercianti, nuovi ricchi e uomini politici che approfittavano del momento euforico per dimenticare l’ottemperanza alle regole e il rispetto per gli altri. Molti dei delitti più efferati, spesso mai chiariti, ebbero luogo in quegli anni, come il Caso Montesi del 1953 e il Mistero di via Monaci del 1958.

    È in questo clima di boom economico che la ipotetica Ivrea del racconto assiste, nei primi mesi del 1963, a un clamoroso e apparentemente inspiegabile fatto di sangue, per comprendere il quale è però opportuno risalire alla metà dell’anno precedente.

    Capitolo I

    Pont Canavese, all’imbocco di una piccola valle alpina.

    6 Giugno 1962, mercoledì.

    La fiammante Giulietta sprint color rosso fuoco percorse a forte velocità la strada di accesso al paese. Giunta nella grande piazza, la attraversò girando intorno alla fontana di mosaico azzurro, incurante del nugolo di bambini intenti a giocare al pallone; a quel punto dovette forzatamente rallentare per infilare una strettoia che zigzagava tra le costruzioni. Si fermò infine con stridio di freni nella minuscola piazzetta che costituiva il sagrato dell’antica chiesa francescana.

    Il piccolo piazzale interrompeva i vecchi portici sotto i quali i bottegai esponevano la loro merce. L’esiguo spazio all’intorno dava l’idea di trovarsi proprio nel baricentro del commercio del piccolo ma industrioso borgo. La sua industria era nata 150 anni prima, quando la Manifattura cotoniera aveva dato gradualmente lavoro a duemila dipendenti, quasi totalmente di sesso femminile.

    Vi si potevano intravedere un bel negozio di scarpe, una gelateria, un caffè, una bottega di formaggi, un negozio di parrucchiera e, proprio di fronte alla chiesa, una vendita di vini da esportazione. Quest’ultima attività era ospitata sotto il minuscolo portico di una costruzione più pretenziosa rispetto a quelle che la circondavano.

    Era una casa settecentesca ricondizionata a inizio secolo. Aveva tre piani fuori terra caratterizzati da un grande balcone centrale di pietra lavorata, contornato da altri cinque più minuscoli sorretti da modiglioni a foggia di conchiglia. La fascia sottostante il cornicione era dipinta in azzurro decorato con fregi multicolori in corrispondenza del sottotetto. A richiamare l’attenzione erano ancor di più i davanzali e i contorni delle aperture evidenziati in cemento scuro, arricchiti con insolite mattonelle quadrate, vetrificate con colori brillanti. Il tutto le conferiva uno stile prettamente Liberty. La costruzione, un tempo pretenziosa, doveva aver ospitato uffici amministrativi e finanziari ma dava l’idea di essere decaduta nell’ultimo mezzo secolo e destinata a residenza di minor prestigio.

    Mentre il motore rimasto in moto spandeva il classico rombo brontolante Alfa Romeo, la portiera destra della macchina si aprì. Dal sedile posto a livello del pianale uscì una giovane signora sulla trentina piuttosto elegante. Appena a terra ribaltò lo schienale, dando così modo all’adolescente ospitata nello strapuntino posteriore di scendere dall’auto, non senza fatica nonostante la giovane età e la silhouette invidiabile.

    Era una biondina, molto graziosa senza essere troppo appariscente, che indossava una gonna a ruota con la camicetta bianca a pois e la cintura vivacemente colorata stretta in vita. I capelli erano pettinati con la coda di cavallo che metteva in piena evidenza la frangetta liscia di media lunghezza. Ai piedi le ballerine in tinta con la cintura sottolineavano la sua giovane età.

    Dava l’impressione di trovarsi a disagio, imbarazzata e impaziente di lasciare i compagni di viaggio improvvisati, per raggiungere quella che doveva evidentemente essere la sua rassicurante abitazione.

    La donna invece, decisamente bella ed evidentemente attraente, aveva i capelli castani acconciati con la riga di lato che cadevano sulle spalle con vistosi boccoli. Il vestito stampato color crema evidenziava il punto vita ed era allacciato dietro al collo con un’ampia scollatura sulle spalle. Portava scarpe decolleté dal tacco basso. Sugli occhi, grandi occhiali color seppia.

    Attese che la fanciulla svoltasse intorno alla chiesa per raggiungere la porta di casa scomparendo alla loro vista.

    La ragazza abitava in una costruzione fatiscente denominata convento, che ospitava alcune abitazioni proletarie. Si trattava appunto delle mura del seicentesco convento francescano retrostante la sacrestia, riadattate a civili abitazioni.

    In quel frattempo lo chauffeur comandò dal cruscotto l’estrazione di una lunga antenna motorizzata posta sul parafango posteriore, mentre alcuni ragazzini osservavano la scena con curiosità mista a invidia. Poco dopo una musica a forte volume, distorta a causa della cattiva ricezione della zona, invadeva l’abitacolo diffondendosi nell’aria.

    La donna risalì lanciando un saluto frettoloso in direzione dell’amica e l’auto ripartì sgommando per tornare sui suoi passi.

    Dopo un viaggio di pochi minuti si arrestò alcuni chilometri più a valle ai bordi della grande piazza d’armi di Cuorgnè.

    Questa volta il conducente spense il motore, abbassò il volume della radio e si volse verso la sua accompagnatrice con tutta l’aria di voler dare corso a una lunga conversazione.

    È stata una fortuna che ti abbia incontrata sul lungo Dora, così non hai dovuto aspettare la corriera.

    Senti Romano, sono anni che ci conosciamo. È perfettamente inutile che mi blandisca in questo modo.

    Ma come? Cosa dici…

    "Con me lo sai che non attacchi. Tu mi hai aspettata apposta. Anzi ci hai aspettate. Sapevi che probabilmente non sarei stata sola e volevi conoscere la mia nuova allieva."

    L’uomo sulla quarantina indossava pantaloni chiari, freschi di stireria, con giacca e scarpe da yacht sull’inamidata camicia confezionata su misura, sbottonata sul davanti per mostrare la catenina d’oro a maglia spessa con la immancabile croce anch’essa pesante e piuttosto evidente. Sul capo un berretto panna. Parve offeso dalla reprimenda e riprese il discorso con tono sottomesso e timbro di voce umile.

    Lo sai che sono innamorato di te. Sono anni che te lo ripeto ma tu non mi dai ascolto e mi tacci addirittura di utilizzarti come esca.

    Su, Romano, cerca di essere serio. Non sono nata ieri. Tu sei una persona simpatica e piacevole ma l’unico sentimento che provi per le donne è quello di portarle a letto. Io ti ho inquadrato fin da quando Lucia ti ha presentato come suo fidanzato. Beata lei che ti ama e che ti crede. Io non le rivelerò le tue avventure, che sono sulla bocca di tutti, per non farle del male. Ma personalmente scordati che io possa mai fare uno sgarbo alla mia migliore amica.

    Mah…

    Levatelo dalla testa. E, soprattutto, non insidiare Clelia. È giovanissima, buona, onesta e orfana della mamma. Vive con la pensione di invalidità del padre che arrotonda riparando elettrodomestici in casa. Credo che non meriti di rovinarsi la vita.

    L’uomo non si scompose più di tanto per la tirata senza mezzi termini che aveva ricevuto. Forse doveva esserci abituato e utilizzò il collaudato mezzo di mettere la coda fra le gambe, sparandole ancora più grosse.

    Va bene. Vuoi che la verità stia dalla tua parte? D’accordo. Figurati che non sapevo neanche il nome di quella ragazzina. Però con te è diverso. Io non lascerei mai mia moglie per un’altra… Per te, sì.

    Certo, certo. Ma mi raccomando, non farti vedere con le mie allieve.

    Ok. Se me lo chiedi tu non posso dire di no. Lo sai che i tuoi desideri sono ordini per il tuo umile ammiratore azzardò ancora con finta umiltà.

    Oh, figurati. A proposito, dove andate per la festa del Corpus Domini tu e tua moglie? Fate il ponte fino a domenica? rispose lei, resistendo alle adulazioni del compagno che pur dovevano farle piacere.

    Sì. Chiudiamo il laboratorio fino a lunedì, per una volta. Prendiamo un caffè all’Umberto? riprese l’uomo, indicando un bar elegante che dava sulla piazza attraverso un ampio dehors arredato con tavolini e dondoli.

    Ci mancherebbe, così darei adito al pettegolezzo senza alcuna colpa. Piuttosto, vuoi salire da noi? Mio marito ti vedrà volentieri. Tu riesci ad accattivarti anche gli uomini replicò lei, ponendo l’accento sulla parola ‘marito’.

    No, no. Grazie, Bruna, sarà per un’altra volta. Spero di rivederti presto.

    Vedi, a quanto pare ogni mio desiderio non è proprio un ordine per te concluse la donna nello scendere dall’auto, chiudendo con garbo la portiera e riuscendo comunque nell’intento di lasciare il compagno senza parole. Forse le costava fatica respingere le sue attenzioni ma la soddisfazione di vederlo scornato almeno per una volta la ripagava sicuramente del sacrificio.

    Ivrea. 11 giugno 1962, lunedì.

    La Topolino giardinetta¹ con rivestimenti in frassino e masonite proveniente dal centro città accostò al marciapiede della stazione di Ivrea, dopo aver invertito con circospezione il senso di marcia in un traffico pressoché inesistente.

    Andrea Gillio scese sorridente e in tutta fretta dall’auto.

    Sei sempre il solito. Le racconti così bene che sembrano vere disse ad alta voce rivolto all’amico che lo aveva accompagnato mentre scaricava la valigia di cartone dal tetto.

    Questo per tutta risposta gli gridò, mentre lui si dirigeva in stazione: Va’ va’, studia che fai bene e sei fortunato. Così non ti tocca fare la notte come me.

    Il mestiere dell’autista era evidente dagli aloni biancastri che ricoprivano il suo abbigliamento succinto con l’immancabile bustina, infarinata anch’essa come la tappezzeria interna della macchina.

    Andrea fece un cenno di saluto mentre si affrettava in stazione con la valigia piuttosto pesante, spolverandosi la farina di dosso.

    Era fortunato ad avere per amico Pasquale. Questi era arrivato al nord una decina di anni prima. Aveva trovato casa a Parella ma faceva il garzone dal fornaio di Burolo.

    Finiva il turno nel pastin² verso le sei e immediatamente caricava sulla giardinetta le ceste da portare ai rivenditori della Val Chiusella, giusto in tempo per prendere a bordo, tra micche e biciulan,³ l’amico e dargli un passaggio per la stazione di Ivrea.

    Il diretto per Torino partiva alle 6,24 ma il prossimo sarebbe stato solo alle 7,48, troppo tardi per Andrea.

    Gli giunse il fischio del capostazione mentre accedeva al marciapiede e si precipitò sul primo predellino di fronte a sé aprendo la porta, intralciato dal bagaglio, prima che il funzionario potesse impedirglielo da lontano. Richiuse con forza la porta mentre il capostazione scuoteva il capo e il treno si era ormai avviato.

    Percorse un tratto di corridoio ingombro di pendolari trascinando la valigia con sé fino a intravedere facce note all’interno di uno scompartimento.

    Vieni, vieni, che ti facciamo posto.

    Questa mattina l’ho preso per un pelo.

    A me sembra che tutti i lunedì sia la stessa storia.

    "Hai ragione, ma le possibilità sono due: o vengo in bici con la valigia sul parafango posteriore o aspetto Pasquale, che però ha sempre da caricare le ceste del pane e, come se non bastasse, ha la Topolino che va al passo di lumaca."

    "Ma va ancora avanti? Cula lì a l’é dal re vej."

    Cosa porti con quella valigia? Sembra che parti per l’America intervenne un altro.

    "Mamma mi dà delle uova e degli ortaggi da portare alla vecchia, così non mi aumenta la pensione."

    Chissà cosa dai in cambio tu alla vecchia ironizzò provocatoriamente un terzo tra le risate di tutto lo scompartimento e di quelli nel corridoio che seguivano in silenzio il colloquio.

    Andrea raggiungeva il capoluogo il lunedì mattina per poi rimanere a pensione da un’anziana vedova che aveva casa in un vecchio stabile di piazza Carlina.⁵ Questa aveva trasformato il salotto ormai inutile in camera da letto e lo ospitava, dandogli anche cena, per una somma ragionevole. Anzi, con gli alimenti provenienti dall’orto, dal frutteto e dal pollaio dei genitori dello studente, nutriva anche se stessa.

    Intanto il convoglio aveva raggiunto Chivasso e si immetteva sulla linea principale Venezia-Milano-Torino ma, come spesso accadeva, dovette attendere il transito dei treni principali.

    Per Andrea non era un problema, ma lo era per i numerosi operai della Fiat che viaggiavano con lui. Questi, giunti a Torino, avrebbero dovuto raggiungere i vari stabilimenti con i mezzi pubblici e cominciarono a inveire.

    Comunque il contrattempo non ebbe ripercussioni e il treno arrivò alla stazione di Porta Susa alle 7,31 in perfetto orario.

    Non scendi? chiese un passeggero ad Andrea."

    No. Scendo a Porta Nuova. Ho la valigia pesante e lì sono di strada per piazza Carlina; così passo a posarla dalla vecchia, poi vado a scuola. Tanto sono in anticipo.

    Con qualche minuto di ritardo, a causa della fiumana di viaggiatori che scesero dal convoglio, il treno arrivò al capolinea in uno degli ultimi binari della stazione. Porta Nuova è una stazione di testa, come Milano Centrale o Roma Termini, nelle quali i treni non transitano ma si arrestano di fronte per poi riprendere la marcia in senso contrario.

    Un’altra moltitudine di pendolari raggiunse le uscite di piazza Carlo Felice, via Sacchi e via Nizza disperdendosi nelle varie direzioni.

    Andrea percorse via Lagrange, via Andrea Doria e via Accademia Albertina e raggiunse la sua abitazione, prossima alla casa dove visse Antonio Gramsci negli anni del cosiddetto biennio rosso.

    La padrona di casa agguantò immediatamente le uova, la verdura, i tomini e pose tutto nel frigo dopo averlo acceso, dato che era rimasto spento nel corso del fine settimana per risparmiare energia, anche perché era praticamente vuoto. Poi raccolse il piccolo cesto di albicocche, lo depose nel mezzo del buffet e, senza ringraziare, rivolse uno sguardo interrogativo ad Andrea.

    Questo capì al volo.

    Vado, vado. Non è ancora così tardi un attimo di pausa lo so, lo so. La pipì vado farla a scuola, così non sporco il bagno un’altra breve pausa, poi anche le mani me le lavo a scuola e mi asciugo nel fazzoletto, così non sporco l’asciugamano.

    Uscì dopo aver afferrato i pochi libri tenuti insieme dal moderno elastico rosso, largo e robusto.

    Torino

    Istituto Tecnico Industriale Statale Amedeo Avogadro.

    La campanella dell’inizio dell’ultima settimana di scuola squillò mentre l’austero professore di elettrotecnica entrava in classe accolto dal silenzio e dal rispetto più assoluti. Un po’ per il timore di brutti voti nella materia principe della sezione, un po’ per il carisma personale, quell’insegnante era riuscito a mettere in riga tutta la classe. Altri colleghi c’erano riusciti, ma non tutti avevano saputo reggere l’irruenza giovanile.

    Anche l’ultimo anno della scuola superiore stava per essere messo alle spalle per i compagni della V E elettro. La lezione si svolgeva in una vecchia aula che dava direttamente sul corso San Maurizio. L’istituto, dalla facciata in stile Liberty, era stato presumibilmente sopraelevato negli anni fino a raggiungere i cinque piani. Le classi superiori erano generalmente ospitate nella costruzione principale, mentre quelle dei primi anni trovavano posto nel fabbricato adiacente via Gaudenzio Ferrari soprannominato Museo, sia dagli studenti sia dai professori.

    L’Istituto Avogadro era nato nel lontano 1805, in pieno periodo napoleonico, come scuola serale di disegno artistico e industriale. Con il passare degli anni e con l’avvento delle innovazioni tecnologiche e scientifiche, l’istituto si era rimodernato gradualmente per diventare via via scuola professionale meccanica, poi chimica e ancora elettrotecnica e radiotecnica. Fu dapprima intitolata a Pierino Delpiano, giovane studente di ragioneria torinese morto per mano di un militare e assunto impropriamente dal fascismo come martire, per essere definitivamente dedicata ad Amedeo Avogadro nel dopoguerra.

    Negli anni seguenti le industrie piemontesi, prima fra tutte la Fiat, ma anche le grandi aziende che avevano sede a Torino, come la SIP, la STIPEL⁶ e la stessa RAI, tesero a creare una scuola di eccellenza in campo tecnico per l’industria nazionale che aveva fame di diplomati tecnici da inserire nei nuovi cicli produttivi.

    Nel frattempo, la prevalenza di indirizzo specifico, fino ad allora orientato sul campo meccanico, era passata a quello elettrico. Non bisogna dimenticare che il capoluogo sabaudo era stato la culla della nascente elettrotecnica fin dalla creazione dell’Associazione Elettrotecnica Italiana nel 1897 e dell’Istituto Elettrotecnico Galileo Ferraris poi.

    Quel mattino l’insegnante non fece l’appello ma si limitò a chiedere alla scolaresca se vi fossero degli assenti. La risposta fu corale e immediata. La pronuncia dei nomi degli assenti fu però seguita da una specie di pausa di indecisione. Poi una voce si levò da uno degli studenti delle ultime file sottotono, tanto da non essere compresa dal professore.

    Come? chiese questi.

    Manca anche Quarello ma … al lunedì il treno è in ritardo ripeté in sordina la voce dal fondo.

    Prima che l’insegnante avesse modo di esprimere il suo disappunto, si udì un timido battito alla porta e l’interessato comparve trafelato.

    Scusate disse senza che professore e compagni avessero niente da aggiungere, mentre lui raggiungeva il suo posto.

    Quando le formalità furono espletate, il docente dedicò l’ultima lezione dell’anno a preparare gli allievi all’impatto con l’esame. Le prime due ore trascorsero in un baleno tra l’interesse della scolaresca, poi la classe poté cambiare umore. L’intervallo, già turbolento nel corso dell’anno, diventava caotico negli ultimi giorni di scuola. Molti dei ragazzi facevano colazione, altri raggiungevano i servizi, soprattutto per fumare. Altri ancora lo facevano nei corridoi, sfidando le ire dell’inflessibile preside. In caso di emergenza si provvedeva a infilare la sigaretta in tasca tenendola tra indice e pollice e proteggendola con il palmo della mano, grazie a una tecnica acquisita nel corso dei cinque anni dai compagni più anziani.

    L’argomento del giorno era però il derby calcistico contro la tradizionale avversaria del quinquennio, la V A elettro.

    Questa, dal punto di vista del risultato scolastico, era la classe più brava dell’Istituto ma la E, che invece era molto meno brillante nelle pagelle trimestrali, si ripagava abbondantemente umiliandola spesso in campo. L’incontro avrebbe avuto luogo nel pomeriggio, approfittando della cancellazione delle lezioni pratiche di laboratorio.

    Ehi, Penna, dove giochiamo oggi? domandò Gillio, usando impropriamente il plurale, sebbene fosse generalmente in panchina o addirittura semplice spettatore.

    "Ho trovato un campo nuovo, oltre il Po, all’altezza delle Molinette,⁷ al fondo di corso Sicilia. Appartiene a un circolo aziendale, costa la metà degli altri. A proposito, dovete darmi i soldi già adesso perché se non glieli porto per l’ora di pranzo non mi danno le chiavi."

    Penna era il factotum della classe che, senza il suo contributo, probabilmente non sarebbe mai riuscita a organizzare nulla.

    Che maglie mettiamo? chiese qualcuno.

    Le solite. Lo sai che decide Quarello rispose un altro lui ha una bella maglia rossa brillante e pretende che tutti gli altri debbano adeguarsi.

    Mi sa che ha solo quella sentenziò Falchi, che era inequivocabilmente il più pestifero della classe. Occupava il ruolo di ala sinistra. Era una posizione di gioco che nessuno si sognava di contestare fin da quando, in terza, era risultato il più veloce dell’istituto nei sessanta metri piani, disputati nel controviale di corso Regina a causa della mancanza di altri spazi sufficienti.

    Stranamente l’Avogadro non disponeva di palestre al suo interno. Probabilmente, essendo nata come scuola serale superiore, il problema dell’educazione fisica degli studenti non era stato preso in considerazione.

    Ehi, ma chi gioca al posto di De Bernardi? chiese con tono preoccupato Garitta.

    Garitta Egisto, da tutti conosciuto come Ito, aveva il ruolo indiscusso di portiere capitano per aver militato nel campionato della categoria esordienti del Torino.

    L’abitudine di chiamarsi per cognome non era un vezzo ma una necessità in un’epoca in cui si dichiaravano le proprie generalità con cognome e nome, secondo uno stile militare. Spesso il secondo era omesso, in quanto superfluo all’interno dei piccoli gruppi. Così i compagni di classe finivano per chiamarsi col cognome. Solo quelli che diventavano amici intimi o che si conoscevano al di fuori della scuola si chiamavano per nome. Ma, anche loro, in presenza di estranei utilizzavano il cognome per evitare di essere fraintesi.

    "De Bernardi oggi ci sarà, state tranquilli. Anzi, probabilmente arriva dopo l’intervallo. Ha solo tagliato.⁸ Venerdì mi ha detto che aveva una buona media di elettro e non voleva rischiare di guastarsela con un’interrogazione proprio nell’ultima settimana."

    Anche Baracco vantava un passato sportivo fino a quando un contrasto di gioco lo aveva portato a lamentare problemi al menisco. Aveva giocato centravanti nel Vanchiglia e adesso sopportava suo malgrado di occupare il ruolo meno prestigioso di mezzala destra, esibendo però una vistosa ginocchiera, che molti ritenevano un vezzo, più che una necessità.

    L’arrivo del discusso De Bernardi, coincidente con il suono

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