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Tre romanzi
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Ebook554 pages7 hours

Tre romanzi

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Il cavallo grigio e la mosca assassina, La melodia della morte e La maledizione del libro onnipotente. Dalla City piovigginosa ai Gran Premi Ippici fino alla Russia spietata degli zar, tre avvincenti romanzi del grande maestro del giallo.
LanguageItaliano
Release dateMar 3, 2016
ISBN9788893040341
Tre romanzi
Author

Edgar Wallace

Edgar Wallace (1875–1932) was one of the most popular and prolific authors of his era. His hundred-odd books, including the groundbreaking Four Just Men series and the African adventures of Commissioner Sanders and Lieutenant Bones, have sold over fifty million copies around the world. He is best remembered today for his thrillers and for the original version of King Kong, which was revised and filmed after his death. 

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    Tre romanzi - Edgar Wallace

    romanzi

    Il cavallo grigio e la mosca assassina

    LA FAMIGLIA CALLANDER

    Brian Pallard scrisse una lettera a suo zio:

    Caro zio Peter, anche se non ho mai avuto il piacere di incontrarti personalmente, mio papà mi ha parlato così a lungo delle tue grandi qualità che non vedo l'ora di conoscerti e di conoscere anche i miei cugini, quando verrò in Inghilterra. Sono nato, lo sai, nel Kent, anche se tutti qui pensano che sia di origine australiana. Penso sia responsabilità del mio breve soggiorno a Oxford, non credi? In ogni caso ti farò sapere quando arrivo.

    Ti spedisco questa lettera in ufficio perché non conosco il tuo indirizzo di casa. Sono stato benissimo a Melbourne.

    Brian P.

    Peter Callander rispose.

    Scrisse una lettera meditata e precisa, con ogni virgola al posto giusto, tutti i puntini sulle i. Era il tipo di lettera che ci si sarebbe aspettati da un conservatore inglese che deve fare un lavoro conservatore. Era una lettera che faceva pendant con il taglio impeccabile della giacca di chi l'aveva scritta, pantaloni e vestito perfetti, perfetto il suo pesante orologio. Era il tipo di lettera che ci si sarebbe aspettati da un uomo con il viso sottile e ingrigito dagli anni nella capigliatura, con le sopracciglia rigide e nere, gli occhi gelidi e sospettosi. Occhi che dietro gli occhiali con la montatura dorata mettevano in dubbio la sincerità di chiunque li guardasse. E le labbra appena accennate e chiuse. La lettera diceva:

    Caro signore,

    ho ricevuto la vostra lettera (senza data) spedita dallo Sporting Club di Melbourne e ne ho preso nota. Sono felice di sapere che vostro padre aveva una grande opinione di me e posso a mia volta dirle che nessuno lo stimasse più del sottoscritto. Mi piacerebbe incontrarvi. È meglio su appuntamento, perché sono sempre molto occupato. Il vostro nome è sfortunatamente famoso, o meglio, noto. La stampa scandalistica ha raccontato spesso delle vostre puntate alle corse ippiche. Colpa della sua ansia di cercare notizie più a effetto che veramente utili. Titoli come Pallard lo scommettitore vince una fortuna, oppure Sensazionale scommessa di Pallard per me suonano né edificanti né piacevoli. Voglio essere franco: mi comunicano un senso di umiliazione e di vergogna, perché un mio parente scende la pericolosa china del Peccato, per colpa della Fortuna, una strada che conduce alla Rovina e alla Disperazione, e ciò grazie alle scommesse. Quella delle corse è forse la peggiore maniera per giocare d'azzardo. Il fatto che splendide creature amiche dell'uomo, come i cavalli, siano sviliti al punto da diventare nemici è un destino, a parere mio, degradante. L'ho detto, sarò lieto di incontrarvi, ma temo di non potervi offrire ospitalità nella casa dove vivono mio figlio, ancora ingenuo del mondo, e mia figlia. Lei ha ereditato il mio disprezzo istintivo per tutte quelle forme di intrattenimento che invece coinvolgono così tanto voi.

    Distinti saluti.

    PETER CALLANDER

    Callander rilesse la lettera e, dopo aver aggiunto una virgola qui e un puntino là, decise di spedirla. Quando l'ebbe finita, la piegò e la infilò in una busta. La chiuse e l'affrancò, quindi suonò il campanello.

    — Imbucatela — disse. — Il signor Horace ha chiamato?

    — Sì, signore —, fece il dipendente che aveva risposto alla chiamata. — È venuto e se ne è andato. Ha detto che sarebbe tornato; doveva incontrare la signorina Callander.

    — Benissimo, grazie, signor Russel — disse Peter Callander con un cenno cortese del capo.

    Era un atteggiamento del quale andava molto orgoglioso. Era un uomo molto cortese verso i propri dipendenti. Quando salutava il portiere, all'ingresso della ditta Callander & Callander, sollevava sempre il cappello. Anche il più umile tra i fattorini che attaccava i francobolli era certo di ricevere un saluto gentile e una pacca sulle spalle. Gli impiegati più anziani li chiamava signore e aveva sempre quell'aria di bontà che si accompagnava così bene coi capelli grigi e i pantaloni eleganti.

    Era anche vero, però, che li pagava pochissimo e che li faceva sgobbare più di qualsiasi altro a Londra. E che aveva fatto punire un fattorino sospettato di irregolarità con l'applicazione più severa della legge, restando impassibile di fronte alla madre piangente e al padre che lo implorava. E che escogitava le trappole più astute per mettere alla prova la loro onestà. Certo, li chiamava signore, era sempre molto cortese.

    Dopo avere sistemato con la lettera il suo scomodo e indegno parente, Callander si interessò a questioni molto più importanti, come la salita del mercato della gomma anglo-giapponese, il report sulle ferrovie thailandesi, i titoli di stato russi e i guai al Sindacato Aurifero del West Suakim, raccontato in modo così coraggioso e attento dall'editore della The Gold Share Review.

    È giusto dire che questo gentiluomo non aveva mai fatto pubblicità al Sindacato Aurifero perché si era ostinatamente rifiutato di mandargli notizie precise. Callander lesse dell'imbroglio con particolare piacere: odiava il doppio gioco e l'inganno e poi aveva venduto le proprie azioni della West Suakim prima che cadessero a picco.

    Finì di leggere il giornale facendo sì con il capo, segno che era d'accordo con il giornalista; stava annotando qualcosa sulla sua agenda, che chiudeva a chiave con un lucchetto, quando venne annunciato l'arrivo di suo figlio. Alzò lo sguardo e sorrise.

    Horace Callander era un giovanotto magro di media altezza, con un mento rotondo e un po' effeminato, occhi grandi e lunghe ciglia, volto e fisico ben proporzionati. Aveva un paio di baffetti che sembravano dipinti da Michelangelo: questo è il ritratto fatto da chi non ama Horace Callander. Se il suo aspetto era definibile come simmetrico, il suo atteggiamento era rispettoso. La sua voce era musicale e armoniosa, non era né troppo acuta né troppo soave. Era invece molto diversa la ragazza che entrò dopo di lui (e tutti si stupiranno del fatto che non le aveva aperto la porta per farla sedere prima). Bella, alta, più di suo fratello. Snella, si muoveva come chi si sente a proprio agio ovunque. La sua testa era incoronata da bellissimi capelli tra il biondo e il rosso castano. Due grandi occhi grigi sembravano incastonati nel suo viso; le labbra carnose, un naso perfetto, assomigliava al fratello solo nella voce.

    — Bene, mio caro? — disse Callander. Si rivolgeva al figlio sempre in questi termini. — Così sei andato a prendere tua sorella? E come sta Gladys?

    Lei si chinò per baciarlo e lui accettò le attenzioni. Si rivolgeva a lei sempre usando la terza persona. Era un'abitudine iniziata per gioco che era diventata una regola.

    — Gladys è irritata — disse Horace con tenerezza — e in effetti è davvero deprimente... — Deprimente! — Lei, senza aspettare di essere invitata si sedette su un'elegante poltrona dell'ufficio. — È terribile che un uomo, senza alcun ritegno, faccia parlare di sé e non solo di sé, ma anche di noi!

    Il signor Callander guardò i propri figli perplesso mentre Horace tirava fuori dalla tasca un giornale della sera.

    — È Pallard — disse con voce rauca.

    — Accidenti a quel tipo! — balbettò Callander. — Cos'ha combinato... di me non parla vero? Prese il giornale e lo guardò. Era un giornaletto della sera, il cui prezzo era lo specchio del valore delle notizie. Il brano era tratto da un'edizione della mattina. Callander sobbalzò. Al centro della prima pagina, tra un caso di divorzio e un'inchiesta, ecco queste righe a caratteri cubitali:

    COLPO GROSSO D'ADDIO DI PALLARD. LO SCOMMETTITORE VINCE VENTIMILA STERLINE PER PAGARSI IL VIAGGIO DI RITORNO. LA CARRIERA DEL GRANDE SPECULATORE DEI CAMPI IPPICI.

    Come se il titolo non bastasse, ecco anche sotto un trafiletto:

    Il signor Brian Pallard, uomo che ha fatto la storia nelle corse ippiche in Australia, si è distinto in questo sport vincendo anche la Competizione Amatoriale organizzata dalle Scuole; sembra sia ricchissimo. E parente stretto del noto imprenditore londinese Callander.

    — Infame! — esclamò Callander, senza coinvolgimento ma con convinzione. Questa mi pare diffamazione bella e buona, Horace.

    Horace scosse la testa, segno che non la pensava proprio così.

    — Non è diffamazione — intervenne la ragazza, con la fronte accigliata. — Ma è lo stesso molto imbarazzante per noi, papà. Mi piacerebbe che questi giornali non pubblicassero cose del genere.

    — È una mania — disse Horace pensieroso. — Willock, un uomo che conosco alla City, il presidente del Circolo Artistico, che conosce alcuni giornalisti... Callander annuì — dice che queste cose sono normali; una grossa testata ha inviato un reporter nelle Colonie; lui invia le notizie con i telegrammi e, poiché sembra che Pallard sia molto noto a Melbourne, il corrispondente ha parlato anche di lui.

    Callander si alzò accarezzandosi la giacca.

    — È deplorevole — disse. — Meno male che è in Australia! — esclamò la ragazza con la voce sollevata. Il signor Callander la guardò a lungo.

    — No, non è in Australia, almeno non ci starà ancora per molto, sta tornando a casa...

    — Tornando a casa? — esclamò Gladys con orrore, mentre suo fratello bisbiglio al diavolo!.

    — Sì, a casa — disse Callander con voce triste. — Ho ricevuto una sua lettera proprio questa mattina e poi non hai letto? Ha vinto per pagarsi il viaggio di ritorno a casa. A casa vuol dire in Inghilterra. Tutti quelli che vivono nelle Colonie chiamano l'Inghilterra casa.

    — All'inferno! — mormorò Horace.

    — Torna a casa? ripeté la ragazza. — Ma è impossibile!

    — Non possiamo condividere niente con una persona così, papà — disse Horace e il suo orgoglioso padre sorrise.

    — Non succederà — ribatté. — Lo incontrerò io da solo. E fece un cenno deciso a indicare la stanza in cui si trovavano. Era come una tigre che intravede il pericolo.

    — Conosco il tipo di persona — disse — ho incontrato tanta gente. E un giovanotto probabilmente rozzo e volgare, con la voce sguaiata e vestiti orribili. Un ruffiano che beve e che bestemmia. Odio dire queste cose del figlio di mia sorella, ma lo devo fare.

    Prese l'ombrello e sistemò il suo bel cappello di seta.

    — Ora sono pronto.

    Prese il figlio sottobraccio e andò verso la porta. Prima che potesse raggiungerla, questa si aprì. Entrò il suo impiegato più fedele e gli porse un telegramma.

    — Scusatemi — disse. Lo aprì e lesse:

    Ti prego di rettificare quanto hanno scritto i giornali riguardo alla mia vincita a Flemington. Ho lasciato Melbourne alcune settimane fa. Quel telegramma è falso.

    Callander lo rilesse e brontolò. Aveva un timbro, quello del porto di Southampton. Pallard, lo scommettitore, era già arrivato a casa, in Inghilterra.

    UN VISITATORE

    Peter Callander viveva in una bella casa in stile georgiano vicino a Sevenoaks, abbastanza grande e imponente per essere definita una residenza e circondata da un giardino così ampio da poter essere chiamata una tenuta. Aveva scelto lui l'arredamento, che era essenziale e comodo. Non c'era nessuna signora Callander. Era morta quando Gladys era solo una bambina. Era molto più giovane del marito e Gladys si era chiesta molte volte se sua madre si fosse distrutta fino a morire per cercare di capire il marito. Oppure se avesse accettato con gioia la possibilità di dimenticarlo una volta capito come era fatto. Gladys non aveva molta fiducia in suo padre. Era un uomo ricco, era un pilastro nella società, ma lei conosceva i limiti del suo rispettabile genitore.

    Tre giorni dopo il telegramma che aveva annunciato l'arrivo di Pallard l'infame, Gladys stava passeggiando sul prato di Hill View (era il nome della residenza dei Callander), aspettando suo padre. Horace si stava divertendo a giocare a croquet. Lo amava molto, era uno dei migliori giocatori inglesi: il croquet e la pittura erano gli unici suoi vizi. Si ispirava alla scuola dei preraffaelliti e la sua specialità era dipingere ragazze sottili dai capelli rossi. Gettò la mazza e si avvicinò alla sorella, con le mani nelle tasche dei suoi pantaloni di flanella grigi.

    — Prendiamo un tè o qualcos'altro? — chiese.

    — Papà ha promesso di tornare per le cinque — disse — ma se non ti va di aspettare ti farò mandare qualcosa in giardino.

    — Oh, non ti preoccupare! — rispose lui. Prese una scatoletta d'argento dalla tasca e si accese una sigaretta della Virginia.

    — Mi chiedo se papà ha visto quell'uomo?

    — Non credo — rispose Gladys. — Non penso che il suo desiderio di conoscerci superi il freddo distacco della lettera di papà.

    — Sì, è così — ammise Horace con un tono ammirato. — Lui sa essere molto tagliente. A proposito, Gladys, gli hai parlato di... insomma... di quello che sai?

    Una piccola ruga si formò sulla fronte della ragazza.

    — Sì — rispose in poche parole — e vorrei non averlo fatto. Perché non gliel'hai chiesto tu?

    — Io ho già la mia rendita ma, per essere sincero, l'ho dissanguata — confessò. — Ti darà i soldi?

    — No.

    — Ma non hai detto che erano per me?

    — No, non avere paura — rispose lei fredda. — Se gli avessi detto che erano per il suo cocco, sono sicura che me li avrebbe dati. Era ben meglio se glieli chiedevi tu.

    Il giovanotto gettò per terra la sigaretta.

    — Sei molto sgarbata, Gladys — disse scuotendo la testa — molto sgarbata. Papà ha la stessa considerazione per me e per...

    — È una sciocchezza! — lo interruppe lei con un sorriso. — Perché non ti comporti da uomo? Perché non mi dici a cosa ti servono quei soldi? Papà non si tira indietro quando si tratta di te. Ti ha dato venti sterline non più di una settimana fa. I conti per i tutti tuoi divertimenti li paga lui; non ti compri né i vestiti e né le sigarette!

    — Ho tante spese di cui tu non sai nulla — rispose lui con deciso; in quel momento, dalla strada, arrivò il rumore del clacson del signor Callander e un attimo dopo la sua bella macchina fece capolino tra le siepi che costeggiavano il vialetto di casa. Scese con l'aria stanca di un uomo che ha lavorato tutto il giorno e che è conscio della sua fatica. Il rumore dell'auto aveva fatto accorrere due camerieri, uno con un vassoio d'argento, preparato per il tè del pomeriggio, e l'altro con un tavolino. Horace riunì tre sedie e suo padre si lasciò cadere su una di queste. — Ah! — sospirò con gratitudine.

    — Bene, papà — disse la ragazza, porgendogli una tazza di tè — siamo ansiosi di avere notizie. Hai visto il nostro ignobile cugino?

    Callander, sorseggiando il tè, scosse la testa. — No, ma ho parlato con lui. — Posò la tazzina. — Non mi sarei mai immaginato, dopo aver ricevuto la lettera che gli avevo spedito, che avrebbe desiderato ancora di mettersi in contatto con me. Questa mattina mi ha telefonato... mi ha telefonato!

    — Che sfacciato! — mormorò Horace.

    — L'ho pensato anch'io! E poi la sua voce!

    Il signor Callander sollevo le mani con un gesto disperato. — È volgare, rozza, rauca. Parlo con Callander? ha chiesto: Sono Pallard che parla dal Great West Central. Voglio parlare con il capo!.

    Callander era un mimo eccellente e Gladys rabbrividì mentre suo padre riportava la conversazione. — Prima che potesse andare avanti — continuò Callander solenne — gli ho detto: Signor Pallard, per prima cosa rendetevi conto che io non voglio avere nulla a che fare con voi. Io voglio parlare con il capo ha detto pensando di rivolgersi a chissà chi. Io sono il capo ho risposto; è una parola che detesto, ma ho dovuto usarla. Come risposta ha esclamato una volgarità di sorpresa che non ripeterò. Ho riagganciato e così è terminata la conversazione.

    — E anche i suoi rapporti con noi — sbottò Horace deciso. — Che ignorante!

    Gladys non disse nulla. Era un po' delusa. Senza un motivo preciso pensava che Pallard, anche se mascalzone, fosse un po' più eroico. Le parole del padre non confermavano l'immagine che si era fatta di lui leggendo la lettera. Aveva sperato di restare turbata dalla vista di suo cugino, ora si sentiva offesa nei propri princìpi e anche nei propri gusti.

    Callander entrò in casa per cambiarsi. Faceva una partita o due a croquet con il figlio prima di mangiare; Horace era già tornato a giocare e così Gladys era sola. Stava pensando se sconfiggere la noia leggendo in salotto o se fare un giro nella tenuta, quando un'esclamazione di suo fratello interruppe i suoi pensieri.

    Volevo dire — disse lui guardando l'orologio — che ho un ospite a cena, Willock. Avrete sentito parlare di lui. Potresti andare a prenderlo, Glad? Arriva alla stazione e sarà qui tra un quarto d'ora. Lei annuì. — Andrò a piedi — disse. — Così farò qualcosa. — Ci andrei io ma papà ama tanto giocare prima di mangiare!

    — Non preoccuparti. Willock supererà lo spavento di vedere una ragazza alla stazione.

    — Che tipo è?

    — Bè, una persona molto distinta... — rispose Horace, vago.

    Lei corse in casa per prendere il cappello e un bastone e pochi minuti dopo era già in mezzo ai campi, lungo la scorciatoia che portava alla stazione. Era una bella serata d'estate e, camminando, canticchiava allegra, perché Gladys aveva delle passioni che suo padre non sospettava nemmeno. Arrivò presto alla stazione. Il treno era in ritardo di dieci minuti. Ebbe il tempo di andare a rispedire un pacco che le era arrivato quella mattina stessa. Non era contenta di respingerlo, ma il pacco conteneva uno scialle indiano, lavorato con vera perizia. C'era un biglietto: Da Brian a sua cugina. Non poteva fare altro che rispedirlo al mittente; era uno scialle bellissimo e sospirò mentre affrancava quel pacco per rispedirlo. Arrivò sul binario proprio mentre arrivava il treno. Scese solo un passeggero e lei, per istinto, capì che era l'uomo che stava aspettando. Era più alto della media e aveva due spalle diritte. Non sembrava un artista ma aveva una faccia intelligente, due occhi chiari, una bocca ben fatta e si capiva che era ricco di fantasia. Poteva essere un attore, un avvocato, un medico, un artista.

    Si avvicinò e le tese la mano.

    — Sono la signorina Callander — disse lei educata. Mio fratello mi ha chiesto di venirvi incontro.

    — Gladys? — disse lui sorridendo. — Felice di fare la vostra conoscenza. Il suo saluto era stato molto caloroso, agli artisti tutto si perdona.

    — Manderò un uomo per il bagaglio. Vi spiace se andiamo a piedi?

    — Anzi, per me è meglio — rispose lui.

    Mentre lasciavano il villaggio parlarono come se si conoscessero da una vita. In lui c'era qualcosa di attraente e di delizioso. Era travolta dalla sua vitalità. Rideva mentre lui commentava il suo viaggio in treno (andava a due all'ora) e restò colpita del suo carattere deciso. Mentre attraversavano i campi rimaneva sorpresa della confidenza che aveva con uno sconosciuto.

    — Immagino che Horace vi abbia detto di nostro cugino? — disse. — Mio fratello mi ha detto di avervene parlato, non è imbarazzante?

    — Beh, non conosco tutti i vostri cugini — disse lui quasi a scusarsi. — Ma se qualcuno vi dà noia, beh quel qualcuno meriterebbe l'olio bollente.

    Aveva parlato con una tale sincerità da lasciarla confusa e arrossita.

    — Portatemi da vostro cugino, subito.

    L'affermazione mutò l'imbarazzo di lei in risata — Sì, portatemi da lui!

    — Siete davvero molto buffo — disse lei ridendo — e non so che penserete di me che vi permetto di dire certe cose.

    — Vi esonero dal vergognarvi — disse lui allegro. — Nessuno è responsabile delle mie azione tranne me. Ma io sono oltre ogni possibile critica.

    — Ma davvero? — chiese lei un po' incredula. Le sembrava difficile rimanere seria accanto a quell'uomo.

    — Certo! — Confermò lui serissimo. — Sono il figlio prediletto della fortuna, le critiche non mi toccano, scivolano via come l'acqua dalle piume di un'anatra. Il mio senso di giustizia, la mia tolleranza verso gli altri mi rendono un po' filosofo...

    — Avete letto Shaw? — disse lei con aria di rimprovero.

    — Lui non sarebbe contento di sentirvi parlare così — disse lui. — Comunque no, la mia visione strana della vita è solo mia.

    Un piccolo cancello, erano ormai vicini a casa. Callander lo chiamava recinto. Era l'entrata alla tenuta. Lei aprì con una chiave che portava alla catenina e lo invitò ad entrare. Insieme camminarono lungo le siepi che fiancheggiavano la casa.

    Horace e suo padre stavano giocando a croquet e un giovanotto austero, con una barba strana, guardava interessato. Gladys pensò immediatamente al cugino, il terribile cugino poteva essere lui. Poi, alla seconda occhiata, si rassicurò.

    Lo straniero era troppo rispettabile. Horace alzò lo sguardo mentre lei attraversava il prato.

    — Ciao Gladys — fece sorridendo — hai fatto un viaggio per niente eh? Willock è arrivato con il rapido di Sevenoaks e poi ha preso un taxi. Permettimi di presentarti... Le stava per presentare il giovanotto dall'aspetto austero, quando vide un'espressione angosciata sul volto della sorella.

    In quello stesso momento Callander chiese con benevolenza: — Chi è l'amico di Gladys? Lei si voltò verso il giovanotto che, con il cappello in mano, stava aspettando di presentarsi alla famiglia. Non era né imbarazzato né in difficoltà perché si avvicinò con un sorriso e strinse la mano del signor Callander.

    — Non credo che tu ti ricordi di me, zio Peter — disse con un tono di rimprovero. — Sono Brian Pallard e devo dire che sei stato molto gentile a mandare mia cugina Gladys a prendermi...

    PALLARD SE NE VA

    Seguì un momento di silenzio imbarazzato. Callander, senza parole, strinse meccanicamente la mano del nipote. Horace, sbalordito, poté solo strabuzzare gli occhi e Gladys guardò prima uno e poi l'altro.

    — Temo — disse Callander dandosi un tono — che questa visita...

    — È vero, è vero — disse Brian, battendogli con affetto una mano sulla spalla.

    — Molto irritante, molto irritante. — Ti avevo scritto... — balbettò Callander, facendo un nuovo tentativo di parlare.

    — Lo so, lo so — lo interruppe il giovane gentilmente. — Sono cose passate, sono passate, non parliamo mai... — disse sollevando la mano verso il cielo — non parliamo più, mai più, di quell'incidente.

    Callander si trovò calato nei panni di chi è stato perdonato.

    — E questo è Horace — disse Brian, stringendo la mano del giovanotto.

    — Ho sentito parlare di te, ho letto qualcosa su di te su una rivista... L'uomo che ha il tocco di Rossetti, giusto?

    Horace tossì, arrossendo. Quest'uomo terribile non doveva essere poi tanto malvagio.

    — Ti presento il signor Willock — disse timidamente. — È presidente dell'Art Club.

    — Sono felice di conoscervi... certo il Gresham Art Club, naturalmente — disse Brian Pallard. — Mi pare siate diventato presidente l'anno scorso, non è vero, dopo Tyler?

    Il signor Willock che era severo solo in apparenza si sentì gratificato.

    — È un club molto interessante — disse Brian ammirato — uno dei più moderni in campo artistico, se posso dirlo...

    — il signor Willock — si inchinò — continuò Brian con entusiasmo — ha reso non pochi servizi al paese. Mi sembra che sia stato coinvolto nell'acquisto del Morby Valasquez, tempo fa.

    — È vero — mormorò Horace all'orecchio della sorella — questo tipo è molto più brillante di quello che immaginavamo. Davvero...

    Lei non disse nulla. L'atteggiamento di suo cugino era affascinante. Horace non era il solo a essere colpito da questo distinto giovanotto.

    Callander provava sentimenti contrastanti. Dalla prima confusione che era seguita all'apparizione dell'indesiderato parente, ora stava emergendo un'irritante approvazione. Infatti, per quanto poco raccomandabile fosse (e lo era di certo) almeno era in grado di apprezzare l'opera di Horace. Forse, Callander, qualcosa di buono in lui doveva esserci.

    — Uhm, Brian — disse timido — noi, è chiaro, siamo contenti di vederti, anche se capirai che, beh, il nostro stile di vita... non è proprio il tuo.

    — Lo so, zio — rispose pacato Brian — e cercherò di non dimenticarlo. Se tu avrai il minimo sospetto di alterigia nel mio tono, ti prego di darmi, come si dice, un calcio sotto il tavolo. Io sono conscio — aggiunse — della mia debolezza.

    — Molto molto bene — approvò Callander — ma c'è una cosa... un attimo.

    Prese il nipote per un braccio e lo allontanò dagli altri. — Tra uomini di mondo — mormorò — siamo d'accordo di evitare... i cavalli?

    — I cavalli? Brian sollevò le ciglia. — Sì, le corse... dei cavalli... — disse Callander — non ne parleremo a cena, capisci?

    — Oh, sì, capisco — sorrise Brian. — Non vuoi che io parli dei miei cavalli?

    — Esatto — sospirò Callander.

    Va bene, non lo farò — disse il giovane.

    — Sono argomenti un po' particolari.

    — Proprio così, proprio così.

    — Certo, uno si mette a parlare di un cavallo a tavola con un amico — proseguì l'altro con un tono educato — e prima di capire cosa è successo è già saltato in pista e ha rovinato tutte le quote. No, non parlerò di cavalli.

    Callander non sapeva se essere contento o irritato. Era pensieroso, molto, quando si riunì alla compagnia. Sapeva ben poco del mondo delle corse, ma ne sapeva abbastanza per capire cosa volesse dire rovinare le quote.

    Non partecipò alla conversazione a seguire per molte ragioni, non ultima quella di non essere in grado si seguire il nipote nelle sue lodi a Watts, Rossetti e altri personaggi misteriosi.

    — Naturalmente ti fermerai per la notte — azzardò.

    — Oh, ma certo — disse allegro Brian. — Pensavo di fermarmi per qualche giorno.

    — Oh, sì — rispose debolmente Callander.

    La compagnia entrò per cambiarsi e Gladys, che aveva ascoltato in silenzio tutti i discorsi del cugino, si trovò a camminare al suo fianco mentre lui parlava ancora dei preraffaelliti.

    — Ci hanno dato la forma — diceva con quella sua curiosa intensità. — Ci hanno dato il pensiero, non si tratta solo di colore. Scusa. — Starnutì con violenza e, nel prendere il fazzoletto nella tasca, lasciò cadere due libriccini. Prima che potesse accorgersene, la ragazza si era chinata per raccoglierli. Gettò un'occhiata ai titoli e un sorriso le comparve agli angoli della bocca. Lui prese i libri dalla mano di lei e se li rimise in tasca.

    — E ancora — continuò — osserva la spiritualità di Watts...

    — Mascalzone! — mormorò lei a voce bassa.

    — Eh?

    — Falso e mascalzone — ripeté lei.

    Lui si fermò.

    — Posso chiedere perché mi rimproveri così? — domandò con durezza.

    — Perché sei arrivato qui parlando come un libro stampato — disse — certo, con un fascicolo della British Art School in una tasca e un saggio sui pittori preraffaelliti nell'altra...

    — Perché no? — chiese lui senza vergognarsi.

    — Fino a questa mattina non avevi mai sentito parlare dei preraffaelliti e non sapevi nemmeno cosa fosse la Gresham Art School. Hai letto tutto sul treno.

    Lui incassò l'accusa senza scomporsi.

    — Forse hai ragione tu — disse — anche se sbagli a dire che io non sapevo niente sui preraffaelliti. Ho avuto un cavallo che si chiamava Dan Rossetti... era bellissimo, aveva una madre stupenda, imparentata con Toxophilite, Queen Nudge di Birdcatcher...

    — Tu sei venuto qui con la precisa intenzione di entrare nelle grazie di mio padre...

    — Ti sbagli — obiettò lui tranquillo. — Essere o meno nel libro bianco di tuo padre non mi interessa. Dopo il suo comportamento con il mio valletto questa mattina, un uomo che discende dai re d'Irlanda, non mi interessa quello che pensa.

    — Allora perché sei venuto? — chiese lei con un tono di sfida.

    — È un caso tipico di autodisciplina — rispose lui. — Ero deciso a farmi piacere tuo padre. Non mi interessa piacere a lui, volevo solo che lui piacesse a me.

    — Sei davvero orribile — si infiammò lei.

    — E inoltre — continuò lui — sono un uomo ricco. Devo avere un erede. Il mio avvocato mi ha detto proprio l'altro giorno che devo fare testamento. Ora, desidero farlo; è una delle gioie della vita che non avevo mai provato. Ma come faccio a fare testamento fino a quando non so chi è degno di ereditare tutta la mia fortuna?

    Lei non rispose. Erano in anticamera, soli, perché il resto della compagnia era salito nelle rispettive stanze.

    — E ho deciso — disse lui.

    — Lei suonò il campanello al lato del camino.

    — Sono felice di sentirlo — disse.

    — Lascerò tutto a voi — fece lui con noncuranza.

    — Non oserai... — esclamò lei con una certa violenza.

    — Quando i parenti torneranno tristi dal mio funerale — continuò lui con voce mesta — e si siederanno attorno al mio tavolo, bevendo il mio Porto e mangiando i miei biscotti, il mio avvocato leggerà una breve ma toccante frase: Alla mia adorata cugina, Gladys Mary....

    — Io non mi chiamo Mary. Si sarebbe morsicata la lingua per la sua follia.

    — Non conosco il tuo secondo nome — disse lui con calma. — Ma lo scoprirò. Alla mia adorata gentile cugina Gladys spazio Callander lascio i miei averi quali piccola ricompensa....

    Comparve un servitore. — Mostrate al signor Pallard la sua camera — ordinò Gladys. Lui seguì l'uomo al piano superiore e quando arrivò al primo pianerottolo lanciò l'ultima frecciata.

    — Dovresti sentire l'ultimo paragrafo — disse. — Dopo cena. Si tratta di una clausola che ti impedisce di giocare d'azzardo e...

    Lei si ritirò in tutta fretta.

    Si era preparata a essere gelida e distaccata con lui a cena, almeno così pensava mentre si vestiva. Quell'uomo superava il limite dell'insolenza. Aveva un comportamento anormale. Era presunzione? Oppure lui si divertiva a ridere di se stesso? Quando parlava aveva una vivace espressione divertita negli occhi e anche nel suo modo solenne e scherzoso di parlare si avvertiva sempre come l'inizio di una nuova risata. Ma era anche... era il tipo d'uomo da tenere lontano. Sorrise a se stessa nello specchio, ricordando quei discorsi sull'arte. Aveva scoperto che Horace si interessava di pittura, l'articolo di giornale lo aveva messo sulla strada giusta e così si era informato sull'argomento. Un catalogo gli aveva detto tutto quello che voleva sapere sulla Gresham School. Voi siete stato eletto dopo Tyler aveva detto quel mascalzone e il povero Willock aveva creduto che la sua elezione a presidente fosse nota in tutto il mondo!

    Scese tre minuti prima che fosse servita la cena e trovò un nuovo ospite. Si ricordò con una sensazione spiacevole che quella sera suo padre aveva invitato anche Lord Pinlow. Dava le spalle al camino quando lei entrò in sala.

    Come state, signorina Callander? Spero di non avervi privata del calore del fuoco? Queste notti di giugno possono essere molto fredde... Lord Pinlow era un giovanotto grande e grosso e dalla punta dei suoi capelli ben pettinati fino alle scarpe di cuoio era il ritratto dell'eleganza e della mondanità. La carriera di Lord Pinlow era stata molto movimentata. Aveva iniziato con una proprietà molto gravata di debiti e nel corso degli anni, con le sue capacità e la tenacia, aveva una personalità magnetica, aveva più che raddoppiato i debiti. Si potevano trovare i suoi maestosi pagherò in tutte le città dell'Impero e aveva conti scoperti ovunque da Londra a Hong Kong, da Brisbane a Victoria tutte promesse di pagamento che non onorava mai. Ma aveva sempre evitato la bancarotta e conosceva la gente. Inoltre aveva una casa vicino a quella di Callander che lo trovava molto utile perché un nobile, anche se è screditato, ha sempre più influenza di un borghese immacolato.

    Gladys lo salutò con un leggero cenno del capo, guardandosi intorno. Callander stava sfogliando un libro che era arrivato quel giorno stesso e Horace era in piedi, dietro il padre. Non poteva far altro se non intrattenere l'ospite. Conoscendo i limiti di Lord Pinlow, parlò di argomenti a lui ben noti, la caccia, l'addestramento dei cani, i cuccioli di razza. Suo padre guardò l'orologio arricciando il naso. — Tuo cugino è in ritardo — sottolineò con tono di rimprovero.

    Gladys sentì la responsabilità, non solo per il ritardo, ma anche per la sua parentela con quell'uomo e si risentì.

    — Voi probabilmente conoscete il nipote di mio padre — disse con malizia. — Siete stato in Australia, vero?

    — Due volte, mia cara, due volte — ammise con voce incerta il barone — ma ho incontrato così tanta gente!

    — Brian Pallard? — suggerì lei.

    Lord Pinlow aggrottò la fronte. — Oh, quel tizio! — disse con disprezzo.

    La ragazza arrossì di rabbia per la sua maleducazione.

    — È mio cugino — fece con freddezza.

    — Oh, mi spiace molto — si scusò il nobile giovanotto senza dare l'impressione di essere molto coinvolto. — Un tipo strano, vero?

    Lei non rispose. Era arrabbiata, furiosa per la boria di lui, furiosa con Brian per essere venuto e, in secondo luogo, per essere in ritardo. Dopo cinque minuti Callander suonò il campanello.

    — Vai nella stanza del signor Pallard e chiedigli... ah, eccoti!

    In quel momento entrò Brian.

    — Mi dispiace avervi fatto aspettare — disse gentilmente — ci ho messo molto a prepararmi.

    Era particolarmente seducente nel vestito da sera. Il viso abbronzato risaltava meglio con la camicia bianca e il vestito gli stava a pennello.

    — Entriamo — mugugnò Callander, indicando la sala da pranzo. Gladys si sedette a un capo del tavolo. Alla sua sinistra si sedette Brian; alla destra Willock. Horace si sedette alla sinistra di suo padre e Lord Pinlow alla destra. Così Pinlow si trovò accanto a Brian.

    — Mi sono dimenticata — disse la ragazza sedendosi — tu non conosci Lord Pinlow.

    — Oh sì, lo conosco — ribatté Brian con voce allegra. — Siamo vecchi amici, non è vero, Pinlow?

    Lei notò che non gli tendeva la mano.

    — Ci siamo già incontrati... — grugnì l'altro, senza voltarsi.

    — Credo proprio di sì — ripeté Brian. — Ti dirò una cosa — in confidenza disse alla ragazza, abbassando la voce.

    — E meglio di no, Brian — ribatté lei con severità — e credo di doverti dire che papà è molto irritato con te, è un maniaco della puntualità.

    — È vero e lo sono anch'io — disse il giovanotto — anche se la puntualità è tiranna. Pensa al tempo che si perde quando si incontra qualcuno che ha l'orologio indietro di dieci minuti. Ma non ho potuto evitare di arrivare in ritardo per la cena.

    Gladys si rivolse alla sua minestra, senza tentare di parlargli ancora.

    Dovevo fare qualcosa — la tentò lui e lei cedette.

    — Studiare i preraffaelliti?

    Lui scosse la testa.

    — Tu mi fai torto, Bruto, in ogni modo, tu mi fai torto... — disse e, chinandosi verso di lei, bisbigliò: — vestiti! Lei lo guardò con aria interrogativa. — Vestiti — ripeté lui. — Pantaloni, camicia, giacca, colletto, cravatta ed eleganti gemelli di perla.

    — Cosa vuoi dire? — chiese lei. Guardò gli eleganti gemelli di perla, un po' femminili. Lui stava ridacchiando allegramente.

    — Bella signora — disse. Alla stazione... manderò un uomo a prendere i bagagli... oh, cara cugina!

    — Non ho mandato l'uomo! — esclamò lei in tono di scusa.

    — Oh, mi dispiace così tanto! Lui fece un cenno come per dire che non era accaduto nulla di grave.

    — Non parliamone più — disse magnanimo. — Mi sono divertito a fare quella passeggiata per i campi. Il recinto era chiuso e così mi sono dovuto arrampicare sul muro. E ora parliamo d'arte. Alzò un po' la voce mentre diceva l'ultima frase, guardando verso il signor Willock.

    UNA VECCHIA CONOSCENZA

    Da quel momento tutta la conversazione fu solo, per quello che interessava Horace, su atmosfera, sentimento, linee e tono. Gladys ascoltava con la meraviglia di chi ascolta il prigioniero confessare alla sbarra degli imputati una lunga serie di nefandezze compiute. Ogni tanto faceva una domanda con il solo scopo di mettere alla prova il giovanotto che sedeva vicino a lei.

    — Hai mai studiato arte? — chiese con voce suadente.

    Lui le lanciò uno sguardo di rimprovero. — Seriamente mai — rispose. — Ma ho letto molto.

    Lei si ricordò dei due libri che gli erano caduti dalle tasche e non disse nulla. Pinlow non prese parte alla conversazione. Era un uomo che prendeva con molta serietà i pranzi. Gladys notò con apprensione che Pinlow beveva più del solito. Il nobile giovanotto era incline al sentimentalismo sotto l'influenza dell'alcool. Non disse granché fino a quando Callander non si intromise nei discorsi artistici parlando del boom della gomma. Nel mezzo di una colta conferenza del signor Willock sulla luce, Pinlow si voltò con la sedia verso Brian.

    —Ti ho già incontrato da qualche parte, Pallard — fece aggressivo. — Dove è stato? A una corsa, o al Club?

    — L'ho scordato — disse Brian noncurante, cercando di ritornare a parlare di pittura.

    — Eri tu quello che aveva Flying Fancy? — chiese Pinlow.

    — Avevo qualche interesse su di lei — ammise l'altro, cercando di tagliar corto.

    — Ah, mi ricordo... avevi messo in giro la voce che la cavalla era zoppa e poi ha vinto la Merchants' Handicap. Molto bravo!

    — Molto — approvò Brian conciso. — Al mattino era una cavalla zoppa e nel pomeriggio correva benissimo. L'ho fatta correre perché il pubblico aveva scommesso su di lei e volevo che provasse almeno a correre, per rispetto verso la gente.

    — Sì, certo. — Il tono dell'altro era proprio scettico. — Io sono un vecchio conoscitore delle corse, ragazzo mio. Ha corso anche per i tuoi soldi.

    Brian sospirò.

    — Non avevo scommesso su di lei nemmeno un penny... —

    Gladys fece un disperato tentativo di ricondurre la conversazione su binari regolari, ma Pinlow era insistente.

    — Queste cose le puoi fare in Australia — disse. — Là si può chiudere un occhio, ma ascolta il mio consiglio, amico mio, non cercare di fare qui lo stesso giochetto.

    Il viso di Brian sbiancò, poi rosso, gli zigomi sembravano più tirati, fissò il suo persecutore con uno sguardo accigliato.

    — Lord Pinlow — rispose — potrei tornare in Australia domani stesso e essere benvenuto a qualsiasi corsa. Non tutti quelli che si sono trovati a Flemington possono dire la stessa cosa.

    Lord Pinlow non accettò il suo sguardo di sfida. Invece rise, versandosi un altro bicchiere.

    — Ah, bene — commentò — il curioso mondo!

    Con questa misteriosa affermazione, si ritenne soddisfatto. Brian si voltò e incontrò lo sguardo preoccupato della ragazza.

    — Ho sconfinato in un territorio proibito — si scusò — ma non è stata colpa mia. Comunque, torniamo alla cena.

    Ma Pinlow non ne aveva ancora abbastanza. Decise che era il momento di discutere con Callander sul flagello delle corse. Pezzi di conversazione giungevano alle orecchie della ragazza che divenne molto nervosa, cercando un po' incoerentemente di deviare la discussione.

    — Nessun uomo onesto può guadagnarsi da vivere con le corse — diceva una voce insistente — gli sciocchi guadagnano solo se sono fortunati e i mascalzoni solo se imbrogliano... in un paese dove si possono corrompere i giudici, è facile evitare gli scandali...

    Callander si agitava sulla sua sedia. Era a disagio per il fatto che si rendeva conto che, in altro momento e in circostanze più felici, avrebbe approvato quello che Lord Pinlow stava dicendo. La cena terminò presto e, con grande sollievo, Callander si alzò dopo aver lanciato uno sguardo d'intesa alla figlia.

    Gladys sorrise al giovanotto seduto accanto a lei e poi sparì dalla sala da pranzo.

    — Prenderemo il caffè nella sala biliardo — disse Callander. Gli uomini uscirono, tre davanti e due dietro. Pinlow era a fianco del suo ospite.

    — Vorrei che tu fossi un po' più gentile con mio nipote, Pinlow — osservò Callander con voce interrogativa. — Dopo tutto, sai, è mio parente e anche se io detesto la sua eccentricità... devo, ecco... cerca di capire.

    — Oh, lui non si offenderà — disse l'altro ridendo. — Ho un conto in sospeso con quel gentiluomo.

    Entrò nella sala biliardo proprio mentre Brian stava facendo il primo colpo.

    — Giochi, Pallard? — chiese prendendo una stecca.

    — Sì — rispose Brian, guardandolo incuriosito.

    — Giochiamoci cento sterline.

    — No, grazie.

    Lord Pinlow rise.

    — Tu non giochi per soldi! Tu che scommetti sui cavalli...

    Brian si voltò di scatto con un leggero sorriso sul volto.

    — Noi scommettitori di cavalli... —

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