Il faggio che sposò la luna
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Il faggio che sposò la luna - Felice Foresta
Felice Foresta
Il faggio che sposò la luna
Argot edizioni
© Argot edizioni
© Tra le righe libri
Andrea Giannasi editore - Lucca
ISBN 978 88 99735 043
Indice
Prefazione
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Ringraziamenti
A mio padre,
il faggio che sposò la luna.
Ai miei figli,
il più bel libro che abbia mai potuto leggere.
Alla Calabria,
la mia terra.
"...Ognuno di noi vive nel riflesso di quello che fu ragazzo, e avanzando negli anni i ricordi e le impressioni divengono più chiari, escono dai loro nascondigli, il presente si colora del riflesso del passato. La seconda parte della vita nostra la passiamo come in un paese straniero, in esilio... L’infanzia e l’adolescenza, e gran parte della giovinezza, sono l’inventario dell’universo, la riserva dei tempi in cui avrà cessato di parlare la fantasia...".
Corrado Alvaro
Prefazione
La nostalgia della memoria
Ogni libro è un’avventura che nemmeno lo scrittore, che è l’architetto della sua memoria e delle sue emozioni, forse conosce fino in fondo e ci sono significati nascosti che vengono decifrati in maniera diversa dal lettore, che cerca fra le righe tracce di affinità con l’autore, grato perché l’ha aiutato a ritrovarsi e magari a combattere la propria solitudine.
Nel primo romanzo di Felice Foresta, apparso all’improvviso dopo, mi ha confessato, una lunga ricerca, custodita gelosamente nel cuore, quasi come per evitare che preziose immagini della sua vita passata gli sfuggissero con il passare del tempo, c’è la profonda e lucida narrazione di un viaggio dell’inconscio che è sempre sospeso fra passato e presente, fra la luce abbagliante dell’amatissima Calabria e il chiarore umbratile della città in cui il protagonista vive al Nord.
Nel fluttuare della memoria verso luoghi, figure, atmosfere e oggetti familiari, ma anche l’incontro con quello che non si aspetta, in queste limpide pagine, con densi e continui riverberi di una profonda cultura classica che è il sostrato di una appassionata sapienza giuridica, s’impone alla coscienza dell’autore un bisogno originario, archetipico, di Giustizia, intesa come parte fondamentale di una più generale ricerca del Bene, nelle forme più antiche e più autentiche.
La figura del padre domina su tutte le altre, amici, il mondo della scuola, le figure della giovinezza che creano una fenomenologia di eventi e racconti che ci conducono lontano. Davvero molto lontano.
Elena Pugliese
Il faggio che sposò la luna
Capitolo 1
Era un po’ di tempo che Giancarlo vedeva un’ombra, la mattina, riflessa sullo specchio mentre si faceva la barba. Un’apparizione fugace che pareva salisse dalle retrovie dei pensieri.
Lo specchio era quello che, qualche giorno prima di partire per l’Irlanda – sarà stato al secondo anno di università –, mentre andava alla caccia del borsone che da sempre lo accompagnava nei suoi viaggi estivi, aveva trovato riverso nello scantinato. Lo specchio era lì dietro l’armadio del nonno a gridare la sua solitudine.
Una mastodontica ipotesi di elemento di arredo, l’armadio del nonno, opera di qualche modesto artigiano del tempo che si era avventurato nell’improbabile impresa di dar forma a un legname modesto. Un legname di scarto, nodoso e arcigno com’era. Magnanimo, però, se si era riusciti a governarne irregolarità e incertezze. Il legname di un faggio onesto e generoso, forse.
Quell’armadio aveva esercitato su tutti i familiari di Giancarlo un fascino irresistibile, quasi un timore reverenziale. In passato aveva custodito, furtivamente nascosto, anche un revolver della Grande Guerra. Era stato, soprattutto, la premurosa alcova di vecchi pastrani, divise militari e panciotti di nonni e bisnonni. Adesso serviva soltanto come ricettacolo di polverose scaglie di un’infanzia volata via troppo in fretta. Nessuno aveva avuto il coraggio di disfarsene, nemmeno Giancarlo che lo apriva sempre con circospezione e sorpresa.
Lo specchio lo aveva trovato proprio lì, dietro al vecchio armadio. Riverso ma non arreso, quasi volesse condividere con l’austero mobile le sorti, una volta forse solenni, che l’impietoso incedere del tempo aveva relegato, invece, nel più grigio anonimato. Eppure quello specchio era proprio bello. Ovoidale, non grande, capace di proiettare una luce cangiante, a volte turchina, a volte dorata. La cornice intarsiata con una venatura color vinaccia che contrastava ma al tempo stesso ne esaltava la lucentezza. E poi quella lunga scheggiatura, simbolo profano dell’incuria ma così perfetta nel ridisegnare, quasi per incanto, il profilo di quell’angolo di costa che aveva catturato Giancarlo da piccolo. Quell’angolo di costa lungo il quale aveva trascorso le vacanze della sua fanciullezza. Laggiù, in fondo. Alla marina. In riva allo Jonio. Nella sua aspra, indecifrabile, bellissima terra di Calabria.
Quello specchio, Giancarlo lo aveva fortemente voluto perché fosse il muto compagno delle sue mattine; perché potesse riconoscersi, vedersi e vedere nelle pieghe più nascoste delle sue inquietudini e di quella tristezza che lo assaliva spesso nei momenti più inaspettati, sempre nei momenti del distacco. Gli capitava, infatti, con regolarità geometrica ogni volta che una fase della sua vita si chiudeva e si apriva una parentesi nuova, lieta o no che fosse, di cercare uno specchio; guardarsi con lucido e rigoroso filtro; riflettere, soprattutto sugli sbagli e le omissioni; leccarsi le ferite o compiacersi; darsi la carica e convincersi del consenso di quel Dio con cui, da un po’ di anni, però, aveva aperto un dialettico confronto.
Di fronte a quello specchio, da bambino, era stato sceriffo e indiano, pilota e soldato, cavaliere e poeta. Aveva cercato di levigare, non potendo rimuoverli, gli spigoli più insidiosi del suo carattere, le sue molteplici imperfezioni. Di fronte a quello specchio si era preparato per un grande giorno, fosse quello gravido di paura prima di un compito in classe o, invece, quello in cui gli sarebbe sembrato di toccare il cielo con un dito perché avrebbe fatto un tratto di strada insieme a Serena, la ragazza della IV C del Liceo Classico Tommaso Campanella
di Reggio Calabria. A Reggio non era riuscito a trovare la Città del Sole, forse perché era troppo giovane ancora per intenderne la profondità. In quella scuola, invece, era stato conquistato dai grandi occhi color nocciola di chi per i più era un’insignificante ginnasiale, per lui il tocco vellutato del primo balsamo contro i brufoli del suo piccolo e imberbe cuore.
Di fronte a quello specchio era diventato di colpo uomo il giorno della morte prematura di sua madre. Di fronte a quello specchio aveva sputato tutto il veleno che aveva dentro, aveva esaurito tutte le lacrime di cui era capace. Di fronte a quello specchio aveva sfidato a viso aperto la pazienza di Dio. Un modo di dire, questo, che detestava sin da quando lo aveva sentito, per la prima volta, andando a dottrina nell’antica parrocchia di San Giuliano a Castrovillari. Un duello impari, il suo, con quel Dio che presto, troppo presto, lo aveva inchiodato alla croce del dolore.
A quello specchio aveva consegnato tutti i suoi dubbi, le sue incertezze, i suoi timori prima di scegliere quale facoltà universitaria avrebbe designato il suo percorso professionale e di vita; prima di consegnare a suo padre, al dott. Vincenzo Morabito, a Sua Eccellenza Vincenzo Morabito, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Firenze, l’inguaribile affronto che la facoltà non sarebbe stata quella naturale di Giurisprudenza, bensì quella di Agraria a Napoli, o meglio a Portici.
A quello specchio aveva confidato che sì, in fondo, a Francesca voleva un bene dell’anima e sarebbe stata lei, quindi, a camminargli un passo dietro: da moglie, ma, prima ancora, da mamma. Quella mamma che il destino gli aveva negato quando ancora era troppo presto, strozzandogli in gola una parola che, da sola, riassume e vale tutta una vita. E così, quando aveva deciso che quello specchio lo avrebbe portato con sé perché custodisse la sua immagine anche di marito e magari di padre, Francesca non aveva sollevato alcuna obiezione. Lo aveva assecondato subito, ma alla non sindacabile condizione che non lo appendesse nel bagno padronale. Ne sarebbe stata alterata la fisionomia postmoderna che imponeva uno specchio più grande, incastonato al muro e circondato da un alveare di faretti a led. Quello specchio poteva avere cittadinanza solo nel secondo bagno, quello vicino alla camera dei bambini. Se mai fossero arrivati e che poi, grazie al cielo, erano arrivati davvero. Francesca aveva capito, infatti, che per Giancarlo quello specchio era qualcosa in più di un semplice specchio. Non un ricordo, ma un frammento della sua vita, un pezzo della saga familiare dei Morabito, un lembo della sua terra. Una scheggia che, come ogni cosa di Calabria, è dolce e amara, luce e buio, amore e morte. Famiglia o giustizia.
Capitolo 2
Quella mattina il reticolo dei suoi pensieri cedette. La sua fantasia giocò di rimbalzo sullo specchio. Anche quella mattina Giancarlo vide un’ombra.
Quella mattina, però, fu diverso. Non la solita sensazione che attribuiva alla stanchezza, allo stress o alle periodiche aritmie del sonno. Non un contorno più scuro che delineava l’angolo di muro, l’unico che riusciva a intravedere attraverso la porta, riflesso sullo specchio. Non quella sagoma indefinita che pareva volesse sfidarlo mentre indugiava in uno dei suoi pochi e piccoli piaceri quotidiani, mentre la schiuma montava voluttuosa dietro i colpi morbidi, cadenzati e avvolgenti del suo pennello di pelo di pancia di tasso che, ostinato, conquistava i millimetri ancora fecondi della saponetta da barba Taylor. Una delle poche, quella saponetta, rimastegli dopo l’ultima giocosa Campagna di Inghilterra
, come soleva chiamare le sue non poco dispendiose sortite nella più antica grooming house di Londra, in St. James Street. Mentre il pennello scivolava leggero ricamandogli il viso, Giancarlo di quell’ombra sembrò invaghito più che attratto, rapito più che suggestionato.
Quella mattina fu diverso davvero. Una stasi. Il segmento di un’idea. Un’evasione e un ritorno al tempo stesso. Fu un momento e per un momento. Fu il rientrare nel passato dalla porta di dietro per non farsi vedere e sbirciare senza la paura di essere scoperto.
«Giancarlo, il caffè. Vieni a fare colazione. Il caffè è pronto. Ti si fredda.»
Anche quella mattina non erano ancora le sei quando attraverso la voce di Francesca, ferma sebbene ancora impastata di sonno e silenzio, l’intersezione del nuovo giorno rivendicava il travaglio di Giancarlo. Lui quella voce, però, non la percepì neppure e il caffè smise di fumare. Ma quello era un giorno diverso.
Era appena iniziato settembre, il suo mese preferito. Il fragore dell’estate era fortunatamente alle spalle e fra poco sarebbe stato autunno. Un tempo serio, se ne era detto sempre convinto. Sin da bambino era rimasto affascinato dal rincorrersi dell’armonia e delle tensioni di quella strana stagione. Un susseguirsi di motivi a contrasto. L’aria secca e pulita. Il cielo dai contorni netti e sinceri, ma anche la pioggia e, a volte, la nebbia. Il fresco cristallino, complice e carezzevole. Il mare che sapeva di risacca e di suoni silenziosi. La montagna ombrosa che era capace, però, di reinventarsi come una tavolozza di acquarelli in libertà. Il fermento del mosto e delle sue emozioni. Il senso dell’attesa. La fantasia delle melegrane e dei loti. Il terreno appena arato, nudo e ospitale. Anche la campagna tornava a tingersi di nuovo. Gentile e acre al contempo.
Era tutto un lievitare l’autunno, anche per lui. Dentro e fuori. Uno studio di progettazione per la propria coscienza. Buoni propositi e speranze. Ma anche il sinedrio dei propri doveri da tenere freschi a mente per non dimenticarne nessuno, soprattutto quelli legati al lavoro. Era professore universitario e per lui settembre significava in primo luogo dover pianificare il programma del nuovo anno accademico. Un compito non facile anzi piuttosto impegnativo che un professore, un professore vero, deve preparare con coscienza e per tempo. La Botanica Farmaceutica, la materia che insegnava, non era mica uno scherzo, lo sapeva bene Giancarlo. Specie se era, come per lui era, il pretesto di un’insaziabile curiosità. Quella che lo animava sempre, fosse stato pure il muschio più sbiadito a essere oggetto delle sue esplorazioni scientifiche, delle sue scommesse vinte e, ancor di più, di quelle perse.
In quel periodo, poi, era un rumiginio di ricorrenze che avevano scandito sin dall’infanzia la sua vita. L’apertura della scuola nel calore compìto di ottobrate senza nuvole. Il compleanno di Francesca, sua moglie, poi. Le vendemmie e le transumanze vissute nella giovinezza, liturgie senza tempo del coniugio con la terra. La partenza per l’università, il primo distacco da casa per assecondare la voglia di conoscere. La nascita di Michela, la sua prima figlia, il mondo tutto chiuso in una mano. E, purtroppo, il giorno dell’addio di sua